Monteverdi

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Fondazione Centro Studi Rinascimento Musicale

XXXII CONVEGNO INTERNAZIONALE DI MUSICOLOGIA

Artimino - Villa Medicea "LA FERDINANDA"

21 - 22 Luglio 2003

" Nel nuovo Millennio Monteverdi, questo sconosciuto. Estetica e Vocalità "

Nella  Anfuso

RELAZIONE  INTRODUTTIVA

" CLAUDIO TRADITO
CLAUDIO DETURPATO

Disamina storica, estetica ed esecutiva".

ad Annibale Gianuario

     Dopo un carteggio importante iniziato nell’anno fatidico delle celebrazioni monteverdiane del 1967, Gian Francesco Malipiero scriveva, in data 12 Giugno 1970, ad Annibale Gianuario: “Non voglio più occuparmi di Monteverdi, ne hanno fatto scempio”.

     Parole dure, ma corrispondenti al vero, da parte di chi aveva dedicato gran parte della sua vita e della sua attività al grande Cremonese. In effetti, l’orgia lucrativa del 1967 segna l’inizio di quella moda “early music” che, a parte isolatissimi casi, ha contribuito essenzialmente alla messa alla berlina di un patrimonio vocale e musicale plurisecolare. Una operazione di cui Malipiero, scomparso nel 1973, ha ben visto l’inizio e ne ha intuito tutto l’aspetto negativo. Chissà cosa direbbe oggi il povero Gian Francesco dopo le scorpacciate propinate da alcuni furbastri, in veste di “direttori barocchi” (ruolo non molto propriamente filologico…) che sfornano edizioni su edizioni, tutte eguali e tutte non solo false, ma brutte.

     Bisogna dire che Monteverdi è talmente grande che supera tutti gli imbrattamenti e le deturpazioni possibili.

     Eppure la storia della riappropriazione del genio monteverdiano, a cui accennerò appena poiché sarà argomento di approfondimento del Prof. Renzo Cresti, qualcosa avrebbe dovuto insegnare. Nel  “Libro Segreto” del 1935 D’Annunzio ricorda:

     “La sera del dì tredici d’agosto, dieci giorni dopo l’arringa improvvisa agli “uomini milanesi”, io giungevo da Asolo al Vittoriale degli Italiani: ed ero subito introdotto nell’Officina di Gabriele D’Annunzio, in grazia di Gian Francesco Malipiero a lui diletto sopra tutti i trovatori di nuove musiche.

     Gli recavo, eseguita per lui solo, manoscritta per lui solo, la prima riduzione del terzo Libro de’ Madrigali di Claudio Monteverde – quattro viole e un violoncello.

     La stupenda edizione di Tutte le Opere del divino Claudio – onore perpetuo del giovine maestro veneziano – non era ancor venuta in luce.   ma io recavo la primizia in offerta al poeta che solo, contro tanta ignoranza e tanto oblio, fin dall’agosto 1900 nel suo libri “Il fuoco” aveva scritto: “Bisogna glorificare il più grande degli innovatori, che la passione e la morte consacrarono veneziano, colui che ha il sepolcro nella chiesa dei Frari, degno d’un pellegrinaggio; il divino Claudio Monteverde: anima eroica di pura essenza italiana”.

     Non v’è spirito bennato che possa dimenticare le pagine di quel libro sul Lamento d’Arianna stampato da Bartolomeo Magni a Venezia nel 1623.  Gabriele D’Annunzio possedeva la stampa del Gardano, l’unico esemplare rimasto oltre quello custodito nella Biblioteca di Gent”.

     Malipiero, da parte sua, ricorda ne “Il filo d’Arianna” edito a Torino nel 1966 l’amore del poeta per il Cremonese: “ Per fargli sentire i madrigali di Monteverdi, non disponendo delle voci, li feci trascrivere per cinque istrumenti  ad arco (…). Gli dedicai, dal terzo tomo [1927] in poi, l’edizione di tutte le opere di Claudio Monteverdi; le gradì veramente, con gioia quasi infantile”. Ricordiamo che l’opera omnia monteverdiana del Malipiero porta la doppia  indicazione:  Asolo - Nel Vittoriale degli Italiani.

     Come ricordato dallo stesso D’Annunzio, già nel 1900 egli aveva osannato il genio del Monteverdi ed è significativo che sia un poeta, cioè colui che per l’essenza stessa della sua arte “lavora” con le caratteristiche fonico-semantiche della parola, a comprendere la grandezza dell’invocazione “Lasciatemi morire” dell’Arianna. E non è assolutamente un caso che sia Arianna, la Arianna che ha costituito il punto più alto delle speculazioni estetiche del divino Claudio, la preferita del poeta abruzzese.

     Aveva scritto infatti Monteverdi in una sua lettera del 22 ottobre 1633: “quando fui per scrivere il pianto del Arianna, non trovando libro che mi aprisse la via naturale alla imitatione ne meno che mi illuminasse che dovessi essere imitatore, altri che Platone per via di un suo lume rinchiuso così che appena potevo di lontano con la mia debil vista quel poco che mi mostrasse; ho provato dicco la gran fatica che sia bisogno fare in far quel poco ch’io feci d’immitatione (…)”.

     Sono parole di immensa portata per la retta comprensione dell’arte monteverdiana, parole non  isolate nell’epistolario del Monteverdi, come dimostra un altro passo della lettera del 2 febbraio 1634, passo che chiarisce il credo filosofico ed estetico del divino Claudio: “(…) rivoltai gli miei studi per altra via appagandoli sopra a fondamenti de migliori filosofi scrutatori de la natura, et perché secondo ch’io leggo, veggo che s’incontrano gli affetti con le dette ragioni et con la sodisfatione de la natura (…) et provo realmente che non ha che fare queste presenti regole, con le dette sodisfationi, per tal fondamento ho posto quel nome di seconda pratica, (…) perché la mia intenzione è di mostrare con il mezzo della nostra pratica quanto ho potuto trarre da la mente de’ quei filosofi a servitio de la bona arte, et non a principii de la prima pratica, armonica solamente”.

     Sono parole straordinarie ed illuminanti sulla vera essenza dell’arte monteverdiana,  ma che gli studiosi hanno ignorato, e continuano ad ignorare, per motivi imperscrutabili: ignoranza? disinteresse? impreparazione storica e filosofica?

     Rimane il fatto che non solo l’epistolario, ma tutti gli scritti monteverdiani pervenutici hanno dovuto “aspettare” Annibale Gianuario per una adeguata disamina, precisa e profonda. Ma di tutto questo parlerà in questo Convegno il Prof. Bruno Pinchard.

     Desidero solo notare che la cultura italiana è priva, ancora, della coscienza, e “conoscenza”, dell’importanza veramente viva ed operante del platonismo fiorentino nei secoli XV e XVI, a cominciare dall’età laurenziana. Ciò spiega la disinvolta noncuranza nei confronti di molta produzione artistica  di vario genere di quegli splendidi anni della cultura fiorentina, da quella poetica a quella pittorica; con la conseguente impossibilità di conoscere veramente, e gustare, un patrimonio fondamentale della nostra storia, a cominciare dal Canzoniere del Magnifico Lorenzo, dalla Primavera botticelliana e dal significato misterico - orfico delle Grazie. In tale attuale stato di cose figuriamoci l’atteggiamento della musicologia ufficiale nei confronti di musicisti che si permettono di “citare” (ed in effetti viene considerato semplicemente come un vezzo “di citazione”) Platone! 

     L’insipienza e l’ignoranza della cultura massificata contribuiscono sicuramente alla misconoscenza del vero essere della autentica “alta” cultura. Certo che è più facile seguire pedissequamente catalogazioni superficiali di comodo e  ridicole. Ad esempio, poiché Monteverdi è stato catalogato come padre dell’ “opera”, si è pensato bene, per il piacere di organizzatori, impresari e teatri d’opera, di appioppare, ad imitazione  wagneriana, una  “trilogia” anche al Monteverdi, credendo così di “elevarlo” (sic) e  di far tornare i conti con la Storia e con l’Arte. Il che sarebbe veramente comico se non fosse invece tragico nella sua comicità.

     In effetti l’aspetto tragico in tutto ciò è che una data visione estetica dell’arte musicale, il cui linguaggio è squisitamente “uditivo”, si ripercuote sull’aspetto esecutivo che è, in ultima analisi, il solo elemento che quindi permette all’opera d’arte di “essere”. Leonardo affermava nel capitolo 25 “Come la musica si dee chiamare sorella e minore della pittura” del suo “Trattato della Pittura”:

     “La musica non è da essere chiamata altro che sorella della pittura, conciossiachè essa è subbietto dell’udito, secondo senso all’occhio, e compone armonia con la congiunzione delle sue parti proporzionali operate nel medesimo tempo, costrette a nascere e morire in uno o più tempi armonici (…). La pittura eccelle e signoreggia la musica perché essa non muore immediate dopo la sua creazione,come fa la sventurata musica, anzi, resta in essere, e ti si dimostra in vita quel che in fatto è una sola superficie” (edizione della Unione Cooperativa Editrice, Roma 1890).

     Il XX secolo non ha reso un buon servizio a Claudio Monteverdi. Nella prima parte del Novecento musicisti e/o musicologi si sono sbizzarriti nelle revisioni (operazioni lucrose, non dimentichiamo) “operistiche” dell’Orfeo, del Ritorno di Ulisse in Patria, e tutto il resto possibile ed immaginabile. Nella seconda metà del secolo, con il particolare sviluppo dell’industria discografica e dei mezzi di riproduzione audiovisiva, si è consumato lo scempio totale, cioè quello esecutivo. Al limite si può dire che le esecuzioni meno obbrobriose siano quelle degli anni ’50 in cui Monteverdi viene reso con uno spirito cameristico stilisticamente settecentesco.

     I guai per il nostro Claudio, e non solo per lui, sono iniziati con l’avvento della “filologia” intesa non come scienza e quindi come vera conoscenza storica, ma semplicemente come “ideologia”. Alcuni dogmi, il corista a 415 herz, la terminologia “barocca” come etichetta per musiche di epoche diverse, di musicisti diversi e distanti e di paesi diversi, la presenza onnipresente del  falsettista condita in tutte le salse, la voce “fissa” e “piccola” e tante altre falsità storiche, sono stati imposti in ogni dove e in ogni occasione fino a creare una moda e quindi un gusto ed un mercato globali.

     Il fatto è che dietro il  bel nome della “filologia” (la prima ad essere mistificata) si sono nascosti incompetenti e dilettanti, strumentisti incapaci e cantanti senza voce e, come si dice, “senz’arte né parte” ma, in compenso, affaristi “a tutto campo”. Anche in questo il Novecento si rivela essere un secolo distruttivo al massimo grado.

     Da quanto detto due sono i campi di azione per un recupero autentico del patrimonio musicale: l’aspetto estetico che sottintende qualsiasi creazione artistica, soprattutto quella di alcuni secoli particolarmente felici come il periodo di cui ci interessiamo, e l’aspetto realizzatore dell’idea musicale. La specificità del linguaggio musicale, a cui ho accennato sopra, permette di capire l’importanza dell’aspetto pratico poiché qualsiasi conoscenza teorica (estetica) sarà inutile senza un mezzo di espressione adeguato per esprimere l’idea stessa.

     In una relazione ad uno dei nostri primi Convegni ad Artimino (primissimi anni ’70) Annibale Gianuario aveva presentato una analisi fonetica della declamazione iniziale del Lamento d’Arianna. Suffragato dall’analisi elettroacustica dell’Istituto Galileo Ferraris di Torino, la declamazione del primo verso di Arianna, il tanto amato “Lasciatemi morire” da parte del D’Annunzio, risultava di una eccezionale verità fonico-semantica. Alcune diverse intonazioni parlate del suddetto verso, compresa la declamazione recto-tono (cioè su una medesima nota) sono risultate identiche a quella notizzata dal Monteverdi.

[ Ascolto  del brano monteverdiano].

     Faccio notare l’esclamazione iniziale su “scia” indicata da una nota puntata con intervallo discendente come ben descrive Caccini nella Prefazione a “Le Nuove Musiche”del 1601. Ricordo anche che non è un caso che le prime rappresentazioni avvenute a Mantova abbiano avuto come protagonisti cantanti fiorentini e di formazione cacciniana (Settimia Caccini, Francesco Rasi - primo interprete dell’Orfeo monteverdiano - ed altri). Per comprendere meglio la sottile (ad un orecchio non particolarmente raffinato) differenza fra declamato puro e declamato-legato ascolteremo “Mirate” di Piero Benedetti (1617) ed il Canto delle tre Grazie tratto dalla Flora (1628) di Marco Da Gagliano.

[ Ascolto 1 ]

[ Ascolto 2 ]

 Per quel che riguarda l’aspetto strumentale che, per quanto concerne Monteverdi ed il suo tempo, è prettamente secondario, possiamo dire che un discreto lavoro è stato fatto nella ricostruzione degli strumenti dell’epoca, soprattutto di quelli a tastiera, a pizzico ed, in parte, di quelli a fiato. Per gli strumenti ad arco il discorso diventa serio sia per il fattore  “ricostruzione” che per quello “esecutivo”. Ciò è dovuto alle caratteristiche tipiche di tali strumenti che hanno come fondamento una particolare qualità del suono. Costruire una copia di un Amati o di Stradivari significa fare “qualcosa” di valore? Il fatto che dei moltissimi artigiani liutai dei secoli passati siano rimasti solo alcuni (pochissimi) nomi significa pure qualcosa. Ed in effetti tutte le copie di strumenti non hanno  nemmeno lontanamente il suono (mi riferisco alla qualità del suono) degli strumenti originali, anche rimaneggiati, dei medesimi autori. Per una corretta interpretazione della “filologia” è da tener presente che la qualità del suono dipende, in alcune famiglie di strumenti più, in altre meno, anche dallo strumentista.

     Sul piano esecutivo due semplici considerazioni: in primis è da ricordare il fatto che, nell’epoca di cui ci occupiamo, qualsiasi strumento era al servizio della voce e del Canto; in secondo luogo, che  qualsiasi strumento, soprattutto a fiato e ad arco, doveva imitare, sfruttando al massimo le proprie particolari possibilità tecniche, lo strumento vocale in tutte le sue caratteristiche sonore. È evidente quindi a tutti la “pochezza” di quanto strumentalmente viene praticato oggi, nel repertorio pre-ottocentesco, un po’ in ogni dove, proprio perché manca il modello vocale di riferimento.

   La supremazia plurisecolare della musica vocale aveva  avuto come conseguenza lo sviluppo straordinario dell’Arte canora, uno sviluppo che raggiunge la sua perfezione nel periodo che va dal XV secolo ai primi decenni dell’Ottocento. Delle caratteristiche dello strumento vocale dei nostri “Antichi” ho già scritto e parlato ampiamente in vari momenti, anche nel Convegno di Artimino dello scorso anno, quindi non ripeterò quanto già detto e scritto. Posso solo qui ricordare come il Canto italiano dei secoli XV-XVIII, e quindi anche monteverdiano, niente abbia a che fare con quanto viene realizzato oggi sotto tutte le latitudini sia nelle sale da concerto, sia nei teatri che nei vari “luoghi” discografici.

     Mi piace solo ricordare un passo di una lettera di Monteverdi del 24 Luglio 1627 ad Alessandro Striggio in cui viene ricordato il principio fondamentale che costituisce il segreto della scuola italiana: la fusione perfetta dei due registri, segreto che determina le caratteristiche che hanno reso la scuola vocale italiana unica nel panorama storico internazionale: “(…) è ben vero che canta sicuro, ma canta però alquanto melancolico e la gorgia, non la spicca così bene, perché manca nel agiungere la più parte delle volte la vocale del petto e quella della gozza, perché se manca quella della gozza a quella del petto la gorgia divien cruda et dura et offensiva, se manca quella del petto a quella della gola, la gorgia divien come onta et quasi continua nella vocale, ma quando ambigui operano, si fa la gorgia et soave et spiccata, et è la più naturale”.

     Mi sembra oltremodo opportuno fare una precisazione: tutti i musicisti del passato conoscevano il buon meccanismo del Canto poiché la musica per eccellenza era quella vocale e poiché l’apprendimento dell’arte musicale avveniva vocalmente (il solfeggio parlato era ancora di là da venire…). In conclusione ogni musicista in quanto tale conosceva la buona emissione che si tramandava ininterrottamente da maestro ad allievo. È ciò che ha contribuito all’efflorescenza tutta italiana dell’Arte vocale.

     Sulla base del su citato testo di Monteverdi, e di tutti gli altri musicisti coevi che documentano la realtà canora dei secoli passati a noi cari, è possibile trarre delle conclusioni indiscutibili sulle esecuzioni così dette monteverdiane del nostro tempo (e non solo, naturalmente, penso allo scempio, siamo proprio in fase di imbarbarimento, della futura opera omnia discografica vivaldiana da parte della francese etichetta Naive). Dov’è oggi un Orfeo che sia in possesso della “gorgia et soave et spiccata” per una esecuzione adeguata di “Possente spirito”? Non solo, dov’è oggi una Messaggera, una Ninfa, una Penelope, una Euridice, una Arianna in grado di “declamare” la poiesis monteverdiana, declamazione che è possibile solo se si è in possesso della “gorgia et soave et spiccata” (risultato della perfetta fusione dei due registri)? Dov’è oggi un cantante in grado di eseguire una “esclamazione” (di cui parla Caccini), essenziale per l’espressione, non solo solisticamente, monteverdiana, ma di tutto il repertorio polifonico del Monteverdi e dei suoi contemporanei?

     Bisogna ammetterlo: c’è il vuoto assoluto. È per questo che ancora non abbiamo avuto la possibilità di ascoltare e quindi di conoscere e gustare il mondo musicale monteverdiano. Monteverdi è, nella nostra epoca, un nome- feticcio che serve a farsi belli deturpandone l’arte in tutti i modi possibili ed immaginabili, anche i più sfacciatamente vergognosi esteticamente ed eticamente (penso all’edizione in corso, tutta “mascolina”, dovuta all’italica fantasia, -tanto per fare qualcosa di diverso - dei vari libri di madrigali).

     Così, agli inizi del III Millennio abbiamo un Monteverdi con cantanti senza voce e naturalmente digiuni di un minimo di tecnica (senza parlare della vocalità all’antica che non esiste…), con gruppi polifonici in cui è onnipresente la presenza del solito falsettista,  ciò che fa tanto “early music”. Infatti chi sa oggi  che la chiave di contralto indicava il tenore acuto? Non certo gli “speciali imprenditori” che si autodefiniscono “direttori”! Non parliamo poi di stili: ad esempio, chi conosce gli “accenti” di cui parla Monteverdi per l’esecuzione madrigalistica? E potrei continuare all’infinito….

     Il Monteverdi del III Millennio è un illustre sconosciuto, un nome-feticcio che serve solo per far denaro e carrieruccia. Sì, il divino Claudio non solo è sconosciuto, è completamente deturpato. Ma soprattutto è vittima indifesa di un’epoca malsana, visto che non può chiedere giustizia delle ingiurie a cui è sottoposto. Eppure ha scritto chiaramente le sue volontà: basterebbe un po’ di onestà, merce rara, oggi. Di questo stato di cose non sono solo responsabili gli esecutori e gli interessati vari che girano loro intorno. I maggiori responsabili sono coloro che hanno il compito di parlarne e scriverne, nella maggior parte non all’altezza del loro compito. Basterebbe prepararsi professionalmente con un po’ di vero studio ed essere così, come scriveva il divin Claudio, al “servitio de la bona arte”.

 

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