" Nel nuovo Millennio Monteverdi, questo
sconosciuto. Estetica e Vocalità "
Renzo Cresti
"La ripresa della musica
monteverdiana nel primo Novecento, D’ Annunzio e le prime revisioni.
Gian Francesco Malipiero e Annibale Gianuario".
Claudini Montisviridi
la musicalità del dire.
"Bisogna glorificare il più grande degli innovatori che
la passione e la morte consacrarono veneziano, colui che ha il sepolcro
nella chiesa dei Frari, degno di un pellegrinaggio: il divino Claudio
Monteverde"
Gabriele D' Annunzio
Pubblichiamo integralmente, la
relazione del prof. Renzo Cresti al XXXII Convegno Internazionale di
Musicologia, dedicato a Claudio Monteverdi.
ARTIMINO (FI) - "Claudini
Montisviridi", così si legge nel frontespizio del primo lavoro che
Monteverdi pubblica nel 1582, Sacrae Cantiunculae, presso il
famoso editore Gardano di Venezia, "è un allievo di Ingegneri" e
in questa Antologia di Mottetti, pur nell'evidente ricalco di certi
stilemi del grande polifonista sacro, Maestro della Cattedrale di
Cremona e col quale il giovane Monteverdi studia, dimostra una
sottigliezza di scrittura che rimarrà una felice costante: i Mottetti
sono a tre voci (non a cinque come usanza) e questo ci dice che il
giovane Monteverdi non è tanto attratto dalle grosse sonorità quanto
piuttosto dal raffinato rapporto con la parola, in tal senso Monteverdi
è davvero il grande continuatore della Scuola di canto che ha origine
nelle Corti italiane del Quattrocento. La relazione parola/suono
costituisce il cardine dell'e(ste)tica musicale
umanistico-rinascimentale, per la quale la musica dev'essere
"trasparente", in modo da rendere intellegibile il testo. La creazione
di senso è il fine più alto. La rigogliosa cultura del Quattrocento
italiano influenza l'Europa tutta, un esempio musicale è il De modo
bene cantandi, pubblicato nel 1474 da Conrad von Zabern, in cui si
critica con severità le cattivi abitudini dei cantori che "nasalizzano"
e che non pronunciano bene le parole "generando confusione nella
pronuncia". Il rapporto col testo è, insieme alla "voce sonora" e ad
alcuni princìpi tecnici, la base su cui s'imposta l’e(ste)tica della
grande Scuola di canto italiana, un'estetica che si contrae in etica .
L'intellettuale, formatosi alla scuola umanistica, propugnava i concetti
di virtù, conoscenza e ragione, aveva formulato un programma di
collaborazione col Principe, un ideale proposto da Baldassare
Castiglione, nel dialogo Il cortigiano del 1528. Scrive il grande
letterato e diplomatico: "bella musica parmi il cantar bene al libro,
ma ancor molto più il cantare alla viola perché tutta la dolcezza
consiste in uno solo, e con molto maggiore attenzione si nota ed intende
il bei modo e l'aria non essendo occupate le orecchie in più che in una
sola voce, e meglio ancora vi si discerne ogni piccolo errore, il che
non accade in compagnia perché l'uni aiuta l'altro. Ma soprattutto parmi
gratissimo il cantare alla viola per recitare, il che tanto di venustà
ed efficacia aggiunge alle parole eh'è gran meraviglia"
(1).
La ricognizione della musicalità del dire, che il Doni scrive "non si è
più attuata dopo l'antichità greco-latina", è uno degli ideali forti
del Rinascimento che, conoscendo Platone, Aristotele, Filodemo, Archita,
Cicerone, Aristosseno, possiede la documentazione per capire come poesia
e musica erano tutt'uno. La musica era l'arte del dire, infatti il
pubblico dello scrittore antico non era un pubblico di lettori, ma di
uditori, la retorica diviene, quindi, la base per la realizzazione
fonetica del pensiero. "La via della persuasione percorre la strada
che attraverso il delectare e il muovere giunge al docere, le arti
devono assumere questa triplice funzione persuasiva /.../ stabilito
come il fine proprio della musica sia il rappresentare gli affetti,"
"oggetto è il suono, il fine è il dilettare e commuoverci con gli
affetti più diversi" (Cartesio), l'indagine dei musicisti e dei
teorici si volge a indagare tutti i possibili riscontri tra gli stati
d'animo e i mezzi musicali più adatti a rappresentarli"
(2).
Per raggiungere tali obiettivi si riutilizzano i metri antichi, da Bernardo
Tasso a Cesare Monteverdi, al Tolomei, Trissino, Chiabrera... fino ai
tentativi della Pléiade. È chiaro, comunque, che il ricorso ai piedi
greci o il riportare alla luce altri stilemi antichi, non è sufficiente
a creare un unicum parola/concetto/suono (è per questo che la Pléiade
rimane sospesa a metà strada)
(3).
Lavoce sonora e Monteverdi
Da un punto di vista tecnico, i
cantanti devono utilizzare la risonanza superiore, infatti il suono
perfettamente emesso viene creato nelle cavità di risonanza superiori,
poggiando sul fiato, realizzando quel "cantare sul fiato" di cui parlano
i teorici: il Giustiniani descrive le meraviglie canore
delle
corti di Ferrara e di Mantova: "facevano a gara nel moderare e nel
crescere la voce, assottigliandola e ingrossandola, hora strascinarla,
hora smorzarla, con l'accompagnamento di un soave sospiro /.../
accompagnavano appropiatamente la musica e li concetti". La
rappresentazione degli affetti richiede quindi uno stile che vada in
profondità, entri dentro alla parola e ne esalti le innumerevoli
possibilità di declamazione. La naturalezza espressiva fa ricorso anche
a un uso sapiente della pausa che deve seguire il respiro e dar rilievo
alla sensibilità dell'interprete. Sotto il profilo canoro, l'estrema
purezza e fragilità del suono-poetico richiede la stessa perfezione
della emissione che permette la realizzazione dello spiccato
(tipico della esecuzione della virtuosità) che deve far risaltare bene
ogni suono-sillaba e, per realizzare questa pronuncia, occorre creare il
suono utilizzando al massimo i risonatori sopra-laringei che hanno sede
nelle fosse nasali e nei seni paranasali, cosa che oggi non si ascolta
quasi più. La risonanza totale quindi (la "voce sonora" del Caccini) è
possibile solo mediante il meccanismo dell'appoggio che permette il
registro unico e quindi l'omogeneità e la purezza dell'intonazione. C'è
un grande "segreto" per giungere alla perfetta vocalità ed è quello di
considerare che esiste un punto unico dell'appoggio per tutti i suoni
della scala musicale (nessun testo italiano antico, e ciò è
significativo, accenna ai cosiddetti "passaggi di registro"). Inoltre
l'emissione va realizzata sul fiato, creando così un suono vivo e
vibrato e permette di portar la voce attuando i particolari effetti
cromatici tipici del canto affettuoso. Il crescere e lo scemare della
voce dev'essere basato su una buona respirazione (alcune conformazioni
facciali possono aiutare la buona risonanza, come la forma del naso).
Lo stile rappresentativo non è
tale perché realizza una visione scenica del testo, quanto perché
rappresenta gli affetti, modulando emotivamente la voce, quindi, come
dice Annibale Gianuario, "siamo molto lontani dal melodramma e dall'operismo
e siamo lontanissimi da un canto virtuosistico fine a se stesso nel
quale e per il quale si possono inventare diminuzioni, accompagnamenti
elaborati e... orchestrazioni"
(4).
Oltre a Cremona, il giovane Monteverdi ha contatti con Milano, dove vi suona più volte la viola, e
con Ferrara, dove conosce le celebri tre dame che cantavano trii scritti
appositamente per loro da vari musicisti (fra cui Luzzaschi), ma è
certamente Mantova la città fondamentale per la messa a punto della
Seconda pratica. In una lettera del 1611, indirizzata al cardinale
Ferdinando Gonzaga, Monteverdi scrive: "ogni venerdì sera, nella Sala
degli specchi, si tiene un concerto. La signora Adriana canta, regalando
ai sensi tutti un tale piacere e donando alla musica un tale potere e
una grazia così particolare che quel luogo diviene un nuovo teatro".
Lo specchio è uno dei simboli dell'estetica seicentesca, verità del
riflesso e, contemporaneamente, apertura di uno spazio illusorio.
"Come potremmo vivere senza specchi? /.../ sono le finestre attraverso
le quali vediamo noi stessi /.../ vi piace la Sala degli specchi? State
osservando il soffitto, i quattro cavalli e l'auriga /.../ notate che i
cavalli sembrano galoppare nella direzione opposta. Un'illusione ottica,
come molti nostri affreschi. Giochiamo con le dimensioni. Tutto ciò che
potete vedere nella Sala è il vuoto, e voi stessi riflessi negli
specchi. Non sentite, seppur debole, la musica che filtra attraverso il
sudario del tempo? /.../ le nostre pareti, là dove non sono ricoperte di
specchi, risplendono con le opere di Tiziano e di Rubens. Il nostro
direttore della musica, il maestro di Cappella, è il migliore d’Italia
il divino Claudio.Il duca Vincenzo ha riconosciuto il suo suo talento la
prima volta in cui lo ha visto a Cremona, un giovane violinista"
(5).
La signora Adriana, citata nella lettera di Monteverdi, è Adriana
Basile, cantante di grande fama già a Napoli, prima di giungere a
Mantova; la lettera è del 1611, l'anno dopo, il 18 Febbraio, muore
Vincenzo I, quarto duca di Mantova, sposato in prime nozze, con un
matrimonio annullato a Margherita Farnese, poi a Eleonora de' Medici
(era nato nel 1562), gli succede, per breve tempo, Francesco (nato nel
1586 e sposato a Margherita di Savoia) ma in quel tempo breve combinerà
il guasto di licenziare Monteverdi, insieme al fratello Giulio Cesare, e
invano il successore, il cardinale Ferdinando (al quale è indirizzata la
lettera citata) cercherà di riportare a Mantova il divino Claudio che la
Repubblica Serenissima di Venezia aveva ingaggiato come Maestro nella
Basilica di San Marco. È grazie all'ammirazione e all'aiuto che
Monteverdi avrà dal duca Vincenzo che il Maestro potrà realizzare, con
agio, le sue composizioni maggiori (è un rapporto felice quello fra i
due, a parte la vicenda della figlia del violinista Cattaneo, Claudia,
che il duca corteggia strettamente, poi sposata da Monteverdi nel Maggio
del 1599), fra i capolavori alcuni Madrigali e le due Opere
Orfeo e Arianna, sulla quale il librettista, Ottavio
Rinuccini, in una lettera del 1607, fa questa riflessione: "queste
cose cantate sono più difficili e più belle di quello che pensa la
gente: richiedono grande squisitezza di versi." La difficoltà viene
dunque sciolta nella squisitezza, ossia nel modo di porgere la parola e
qui la dissonanza assume un ruolo decisivo. Monteverdi farà della
dissonanza la manifestazione dinamica della sua musica, realizzando la
visione platonica del concetto espresso in suono. Il pensiero che il
testo esprime si deve concretizzare nell'aderenza della musica alle
parole: la messa di voce (il suo aumentare o diminuire), l'esclamazione
languida o spiritosa, le cascate (volatine), gli effetti espressivi del
legato e il trillo (a imitazione del canto degli uccelli, come dice Caccini) e tutti gli altri elementi che vanno a costituire la
Sprezzatura (andamento a tempo libero per seguire l'arsi e la tesi
della musica) sono allora in funzione dell'espressione poetica e devono
essere realizzati a voce "sonora" naturale, in cui cioè è operante la
completa fusione dei due registri. Nel parlare modulando le sillabe,
come dice Caccini, devono essere conservati gli accenti tonici e le
caratteristiche delle vocali. Il pathos garbato delle musiche di Autori
quali Andrea Gabrieli, Giovanni Croce, Luca Marenzio, deriva dall'uso
blando della dissonanza "mai dura da offendere l'orecchio" che
ben si addatta ai circoli cortesi, ma Monteverdi, quando passa da
Cremona a Mantova, scopre il Manierismo e con esso l'andare a fondo
nelle passioni, superando gli statici schemi su cui si basa la polifonia
accademica, quelli che aveva in mente il monaco Artusi quando dice che
Cruda Amarilli è pieno di errori, dimostrando una visione della
scrittura musicale arretrata. Le dissonanze iniziali servono per dare
fin da subito il climax della composizione, mentre le ornamentazioni
intensificano l'espressività, approdando a uno stile tormentato che
supera di gran lunga ogni schema fìsso e getta le basi di una nuova
concezione della musica a servizio della parola. La dissonanza serve
appunto a creare quell'affondo altrimenti impossibile seguendo le regole
tradizionali e tale affondo è guidato dal significato delle parole e
dalla ricerca della loro comprensibilità. Per esempio, in alcuni
Madrigali del Quarto Libro come Cor mio, non mori? oppure
Anima mia, perdona o ancora in Anima dolorosa non una sola
parola va perduta, in Sfogava con le stelle un infermo d'amore le
parole sono addirittura declamate. È interessante ricordare che
Monteverdi utilizza la notazione comune per i Salmi, limitandosi a
indicare le note dell'accordo che devono essere cantate, lasciando le
durate libere, in modo che il cantante si avvicini il più possibile al
parlato. Il Quinto Libro di Madrigali (che ha un grandioso successo ed è
ristampato più volte), poi l'Orfeo (anch'esso ristampato nel
1615), quindi L’ Arianna e, infine, il Sesto Libro (pubblicato
dopo che Monteverdi aveva lasciato Mantova, ma scritto negli ultimi anni
del soggiorno mantovano) dimostrano come questo affondo riesca in
maniera perfetta, facendo di Monteverdi "il divino Claudio". Certo gli
Scherzi musicali, gli ultimi Libri di Madrigali e la musica sacra
scritta a Venezia, per non parlare delle due ultime Opere per il teatro,
aggiungono molte tematiche e approfondiscono i tanti aspetti della
produzione monteverdiana, ma l'apice pare già raggiunto nei primi 15
anni del Seicento: per esempio l'apprendimento della tecnica legata alla
pratica del basso continuo, così importante per le composizioni
veneziane, risale all’epoca di Mantova, è infatti alla Corte dei Gonzaga
che Lodovico Grossi da Viadana, organista della Cattedrale, sviluppa
tale tecnica, descrivendola nella Prefazione del suo Primo Libro di
Concerti (1602). Anche il balletto Tirsi e Clori, pubblicato nel
Settimo Libro (1619) era stato scritto per il Duca di Mantova, dove
Monteverdi aveva conosciuto Giovanni Giacomo Gastoldi (allora Direttore
della Cappella privata in santa Barbara) e del quale si ricorderà quando
comporrà, a Venezia nel 1632, gli Scherzi musicali, dal tono
leggero proprio come quello del Gastoldi. Inoltre, molta della musica
sacra veneziana si avvicina allo stile profano già messo a punto a
Mantova, per esempio il Mottetto Pianto della Madonna è una
rivisitazione del Lamento di Arianna, oppure Laudate Dominum
come pure Ab aeterno ordinata sum, pezzo ricco di pittoreschi
effetti. Infine, nella Prefazione all'Ottavo Libro il Maestro sente il
bisogno di ricorrere ancora una volta a Platone e alla sua idea di
"imitazione", ribadendo, anche a Venezia, la sua educazione formatasi
dentro la cultura delle grandi Corti italiane del Cinquecento.
Il problema dell'armonia
In una lettera del 1633,
Monteverdi chiarisce la differenza fra l'armonia fondata sulle ragioni
della Prima pratica, dove il testo viene adattato alla musica, e quella
basata sulla Seconda che è la realizzazione del suono della dizione
emotiva dell'espressione poetica la quale, seguendo le indicazioni di
Platone, dev'essere scelta per il suo valore spirituale. Da questa
differenza era partita la polemica dell'Artusi, che nel 1600 aveva
pubblicato L'Artusi ovvero delle imperfezioni della moderna musica,
nel quale aveva accusato Monteverdi di "procedimenti che offendono
l'orecchio", perché realizzati non in nome delle ragioni squisitamente
musicali, ma in nome di quelle del testo, quindi per l'Artusi la musica
ha le sue regole in sé, mentre per Monteverdi la "perfetione della
moderna musica" consiste nel seguire "l'oratione" (così scrive nella
Prefazione al Quinto Libro di Madrigali, nel 1607). Come dice il grande
esperto del periodo Annibale Gianuario
(6).
per Monteverdi la Seconda pratica è dunque il ritorno alla concezione della musica come
realizzazione della poesia nei suoi tre elementi unitari: il
significato, il ritmo e il suono, elementi che il musicista plasma
seguendo la rappresentazione degli affetti. Nel suo studio sulla
Modalità e realtà fonetica nel "Lamento di Arianna" di Monteverdi (7)
, Gianuario fa una considerazione interessante sull'armonia e dice: "si
potrebbe analizzare la modalità del "Lamento" basandosi sul basso
continuo, cioè considerando indicativa la finale del basso stesso /.../
non ci sembra una soluzione attendibile, in quanto la modalità viene
determinata dal verso e il continuo è da considerarsi rivelazione di
particolari "armoniche" evidenziate dalla dizione che altresì determina
quelle componenti armoniche che Monteverdi notizia sul basso". E'
quindi l'individuazione del suono vocalico e sillabico che determina
l'espressione e di conseguenza la modalità, come nella musica degli
antichi greci ai quali gli umanisti si richiamavano, il modo allora dev’essere
determinato dalla sonorità della frase, in un'unità fonico-semantica,
articolata in accenti e timbri. È il come particolare dell'esprimere
l'emozione che il testo suscita che determina la mese e la finalis e, in
ultimo, il modo di essere dell'armonia. Le edizioni moderne delle
composizioni di Monteverdi tradiscono spesso il lavoro originario,
inquadrandolo nel sistema armonico delineatosi dopo l'epoca
monteverdiana, s'ignora la poiesis e la semiografia del Cremonese, e si
dà vita a interpretazioni vocali che non conoscono le flessioni toniche
derivate dall'espressione verbale e producono falsi storici. Si crede
oggi di conoscere Monteverdi, ma in realtà, per colpa delle troppe
falsificazioni storiche si ascolta una musica altra, riadattata alle
mode della early music. La grande scuola italiana, da Maffei a
Caccini, a Tosi, Fedi, Pistocchi, Brivio, Peli, Redi, Amadori fino a
Porpora tiene ancora saldi quei principi che Giambattista Mancini
riassumeva nel suo Riflessioni pratiche sul Canto figurato e
cioè: acquisizione del portamento di voce che è il passaggio, legando i
suoni, d'una nota all'altra; messa di voce cioè l'azione di attaccare
una nota sul pianissimo, aumentare la sonorità fino al fortissimo e
ritornare al pianissimo utilizzando sempre lo stesso fiato e terminando,
se l'espressione lo richiede, con un trillo; il trillo (che dev'essere
uguale, battuto, granito e moderatamente veloce); l'appoggiatura
semplice o doppia è l'accentuazione su una o più note trattenute sia nel
discendere (un tono) che nel salire (mezzo tono); il mordente è una nota
reale il cui battimento è dato da una nota inferiore di mezzo tono; la
cadenza è un'esecuzione importantissima ed è una creazione espressiva
dell'interprete. Mancini scrive che "le voci, anche se adatte
all'espressione, non possono eseguire che il canto di note e parole".
È un'osservazione molto pertinente e che non lascia alcun dubbio sulla
realtà del Canto nei secoli che ci interessano, in opposizione al canto
che a partire dal XIX secolo tenderà all'espressione verista, seguendo
un'estetica completamente diversa dalla rappresentazione degli affetti.
Già nell'appello alla "verisimiglianza" della cultura illumistica si era
intravisto il passaggio dal mito all’epos, un cambiamento che avrà
progressive ripercussioni sulla drammaturgia e sul modo di descrivere
col canto personaggi e situazioni. Si perde il contatto con la parola a
favore della scena, le sottili trasfigurazioni emotive espresse dal dire
musicale diventano crassi sentimenti urlati, le raffinatezze vocali si
volgarizzano, inseguendo un malinteso senso del popolare. Ci si
allontana dai principi che hanno radice nella grande Scuola che parte
dal Caccini e ci si avvicina all'impostazione verista, che si basa su
un'estetica dai segnali forti, molto differente da quella del muovere
gli affetti come, e ancor più, da quella wagneriana. La grande scuola
persiste ancora fino al primo Romanticismo, come dimostra il testo del
1847 di Manuel Garcia, Traité complet de l'art du chant (trattato
in due volumi, il secondo mai pubblicato in Italia!) ma,
contemporaneamente, aveva iniziato la sua decadenza, Garcia suddivide la
voce addirittura in tre registri! Non è un caso che Rossini, nel 1858,
constati la mancanza di cantanti adatti alle opere di Cimarosa, Bellini
e sue proprie. E ancora qualche anno più tardi, il lamento di Rossini si
ripete, in una lettera al figlio di Vaccai del 1864. Lo stesso Verdi,
più volte, dichiara che il suo canto deve basarsi sulle regole auree
dell'antica scuola. Bellini risulta essere una sorta di spartiacque, ma
egli appartiene ancora alla grande scuola. "L'ideale vocale di Mozart,
che fra il 1774 e il 1775, aveva studiato a Londra con il castrato
Giovanni Manzuoli rispecchia completamente la buona scuola italiana,
nelle sue lettere afferma che ciò che conta nella vocalità è la purezza
e l'omogeneità"
(8), ovvero quelle qualità che permettono lo
"spiccato" del quale parlano Burney e Chopin. La fusione dei registri e
la fioritura sono caratteristiche indispensabili per eseguire
correttamente Mozart, ma anche Bellini, Donizetti, Mercadante, Paganini
e gli operisti di inizio Ottocento, prima che la pratica del "grand cri"
alla francese (che, nel 1839, faceva inorridire Liszt), il verismo
romantico e il wagnerismo si affermassero.
D'Annunzio, la Raccolta
Nazionale delle Musiche Italiane e le prime revisioni
Le fioriture delle Opere di
Bellini, le cadenze per quelle di Donizetti e la giusta messa di voce è
realizzata da cantanti come Crescentini, Rubini, Cinti-Damoreau,
Malibran, Catalani ecc. che dimostrano virtuosità e capacità espressiva.
D'Annunzio a Tosti, in una lettera del 1913, testimonia che anche alla
cultura francese lo stile verista risulta sgradito: "Pierre Lalo, in
uno scritto recente, cercava di individuare le ragioni della rottura
totale e atroce fra la musica italiana di un tempo e quella odierna, fra
la sublime nudità di Monteverdi e "ce grossier étalage d'emotion
popula-cière" che voi conoscete bene". Nel suo romanzo II fuoco,
il Poeta scrive: "Claudio Monteverde /.../ di che materia era
composta la sua bellezza? /.../ una sola linea del discorso melodico,
sostenuta da un accompagnamento che nella più nobile semplicità trova la
più intensa espressione: niente altro. E ogni sillaba ritmica è come il
polso del dramma; e ogni inflessione della melodia partecipa della forza
centrale del dramma è come il cuore attivo nel corpo respirante: e ogni
contorno, pur concorrendo alla divina proporzione del tutto, si svolge
con una flessibilità e una libertà indefinite e infinite. Le altre
musiche, al confronto, ci sembrano scolastiche, rigide, artefìciate,
imprigionate nella formula e nella convenzione. Qui l'amore, il dolore,
la voluttà, la magnanimità, la preghiera, la temenza, tutti gli affetti
umani parlano con la loro stessa voce, col loro accento profondo e
originario, con la realtà stessa della carne, del sangue e delle ossa ma
sublimata dal più alto stile. M'ardisco nel dire che tutto qui è umano e
trasumanato nel tempo medesimo. La musica rischiara il fondo reale che
produce le creature ideali. La potenza e l'innocenza della melodia è
pari alla potenza e all'innocenza degli elementi primitivi. E, sopra
ogni altro sentimento, sta in noi ascoltanti un sentimento di necessità:
di quella necessità che è la vera musa tragica". Abbiamo voluto
citare l'intero passo perché centra bene alcune caratteristiche della
musica monteverdiana: la "nobile semplicità", l’ "intensa espressione",
il fatto che "ogni sillaba ritmica è come il polso del dramma", la
"flessibilità" e lo stato di "necessità" in cui musica e dramma si
svolgono. Inoltre la passione di D'Annunzio per Monteverdi anticipa la
riscoperta che ne farà la musicologia, infatti l'edizione dell'Opera
omnia di Monteverdi realizzata da Gian Francesco Malipiero ha inizio nel
1926 (per terminare nel 1942). D'Annunzio, nel Libro segreto,
descrive il momento in cui fu attirato dalla forza della musica, grazie
a Palestrina, del quale aveva ascoltato, nella chiesa bolognese di Santa
Maria della Vita, il Mottetto Peccatum me quotidie: "in quel
punto io nacqui alla musica /.../ in quell'ora, in quella chiesa parata
di porpora, in quel senso mistico che fluttua tra l'estremo della carne
e il limitare dell'anima, veracemente sentii dedurre e condurre il mio
filo di porpora dalla dita della Musica, e non per diletto e non per
blandizia e non per oblio, sì per vocazione di dolore e per vocazione di
martirio", dunque la musica è una forma di aspirazione sublime,
meravigliosa e terribile a un tempo, come dimostrerà anche Andrea
Sperelli, il protagonista de IlPiacere, dove la musica,
in specie la wagneriana, costituisce il filo rosso del romanzo.
D'Annunzio era arrivato a Wagner per due vie parallele, quella della
letteratura francese dei simbolisti e della Revue wagnerienne, e quella
delle letture al pianoforte delle opere di Wagner, realizzate
nell'appartamento napoletano dall'amico Nicolò Van Westerhout. È ancora
la Francia a costituire il terreno d'incontro con i protagonisti della
cosiddetta Generazione dell'Ottanta: Casella (che era a Parigi fin dal
1896, quando, tredicenne, si era recato per studiare con Fauré),
Pizzetti (che nel 1905 aveva già musicato un testo del poeta, Nave,
e col quale D'Annunzio avrà una prolifica e proficua collaborazione) e
Malipiero che giunge a Parigi nel 1913 proprio per chiedere al Vate il
permesso di musicare Sogno di un tramonto d'autunno (poi
musicherà anche ISonetti delle Fate, il Ditirambo
terzo (dalle Laudi) e quattro delle Stagioni italiche
(inoltre dedicherà a D'Annunzio la sua Missa pro Mortis). È da
Malipiero che nasce l'idea della Raccolta Nazionale delle Musiche
Italiane, con lo scopo di riscoprire e di valorizzare la nostra musica
del Sei-Settecento, e di rivolgersi a D'Annunzio per una Prefazione
prestigiosa. L'idea nasce nel 1916, al Caffè Cova in piazza della Scala
a Milano; qui Malipiero espone a Massimo Bontempelli, Alberto Savinio e
Umberto Notari il progetto.In un primo momento si pensa a Boito come
tutore dell'iniziativa, ma questi rifiuta, allora Notari prova a sentire
D'Annunzio che accetta la direzione dell'impresa. La Raccolta Nazionale
delle Musiche Italiane, curata dall'Istituto Editoriale Italiano, inizia
con un paragrafo intitolato "Notizie generali" in cui si dice: "è
noto a tutti che coloro che crearono e stabilirono le forme principali
della composizione musicale e diedero vita alla tecnica vocale e
strumentale moderna furono italiani", segue un elenco di Autori, di
costruttori e di stampatori, poi si pone l'accento sull'esigenza di
riproporre questo immenso patrimonio: "sino a poco tempo fa
esistevano solo singole ristampe /.../ il più era sparso per i musei, per
le biblioteche pubbliche o private, dimenticato /.../ un simile stato di
cose doveva finire /.../ animato da ferma fede nell'immancabile
rinnovamento dell'arte musicale nazionale /.../ l'Istituto Editoriale
Italiano deliberò procedere alla pubblicazione di una grande Raccolta
Nazionale delle Musiche Italiane, il titolo sintetizza con limpidità e
con precisione la natura e gli scopi dell'iniziativa affidata al genio
animatore di Gabriele D'Annunzio e alla dottrina dei maestri Gian
Francesco Malipiero, Carlo Perinello, Ildebrando Pizzetti e Ballila
Pratella". La Prefazione di D'Annunzio non è incentrata sulla
musica, cosa che il Poeta poteva fare benissimo, viste le sue competenze
specifiche, ma sull'amor patrio. La Prefazione viene stesa nel Marzo del
1917, durante il terzo anno di guerra, è da questa situazione tragica
che D'Annunzio parte, scrivendo: "intraprendere per le stampe una
raccolta di antiche musiche in questa nostra terza primavera di guerra
/.../ può forse parere impresa intempestiva /.../ ma dallo smisurato
travaglio umano nasceranno le forme necessarie della vita nuova /.../ la
tavolozza è rasa, la pagina è bianca. Che valgono le mestiche e gli
inchiostri davanti allo splendore perpetuo del sangue? /.../ ma
l'immateriale musica è dappertutto presente, simile a uno spirito di
novità /.../ la musica è oggi la sola fra le arti attive /.../ non per
tornare all'antico ma per riconoscerlo e per vendicarlo - nel nome del
Monteverdi, del Frescobaldi, del Palestrina - contro un lungo secolo di
oscuramento e di errore". Il Poeta sottolinea quindi, più che gli
aspetti squisitamente musicali, il tratto storico-politico, e questo
sarà una costante di quegli anni. Il piano della Raccolta prevedeva 150
Quaderni dedicati alla musica antica, 50 alla musica Moderna e altri 50
a quella nuova. Gli Autori presi in considerazione per la musica antica
sono: Banchieri, Bassani, Caccini, Carissimi, Cavalli, Cavazzoni,
Corelli, Del Cavagliere, Durante, Frescobaldi, Gabrieli (Andrea e
Giovanni), Galuppi, Gesualdo, Jomelli, Marcello, Martini, Monteverdi,
Paisiello, Palestrina, Paradisi, Pergolese, Peri, Platti, Porpora,
Rossi, Sammartini, Scarlatti (Alessandro e Domenico), Tartini, Vecchi,
Veracini e Zipoli. Di Monteverdi, in particolare, si dice: "trascrizione
in notazione moderna, armonizzazione e riduzione per canto e pianoforte
a cura di Carlo Perinello de Il ballo delle Ingrate, Tirsi e Clori e del
Lamento di Arianna". Con tutti i limiti evidenti, rimane il fatto
che questa Raccolta segna un confine fra il disinteresse del periodo
precedente verso la musica pre-romantica e l'inizio di una nuova e
travagliata fase che porterà, non senza cedimenti, a riconsiderare la
musica del Cinque-Sei-Settecento in maniera sempre più attenta e
precisa. Vediamone brevemente alcune tappe. Proseguendo, una data
importante che va ricordata è il 1909 quando, al Conservatorio di
Milano, viene eseguito L’Orfeo che però non entusiasma affatto la
critica musicale, tant'è che Carlo Censi, sul n. 30 de "La musica",
scrive: "l'analisi particolareggiata del lavoro sarebbe opera
misoneista, cadrebbe nel calcolo scientifico che è il contrario di
estetico",come dire abbandoniamoci al flusso emotivo "lasciamoci
guidare dal nostro sentimento /.../ lasciando da parte ogni gretto
criterio storico", come scrive Domenico Alaleona sulla stessa
Rivista qualche anno più tardi (Aprile 1912). Seguendo una malintesa
estetica crociana, si dà importanza ai sentimenti misconoscendo il
valore del documento storico, evocando lo spirito del passato come
richiamo a un'idealità generica e generale, non rispettando quindi
alcuna verità storica ma adattandola alle svariate esigenze della
cronaca dell'epoca. La musica italiana pre-ottocentesca viene esaltata
in modo da opporla allo strapotere di quella tedesca, di quella
wagneriana e di Richard Strauss in particolare; bruciava anche il fatto
che l'Opera omnia di Palestrina fosse stata realizzata, dal 1862 al
1894, da Breitkopf e Haertel, proprio Palestrina che era stato indicato
da Verdi quale padre putativo della musica italiana (nel 1910 i tedeschi
costituiranno anche una Pergolesi-Gesellschaft). È interessante
ricordare come Verdi per "tornare all'antico" raccomandava di studiare
Palestrina, ma non "quel Monteverdi che muoveva male le parti"
(!). Anche la storia del Melodramma serve, all'inizio del Novecento, più
da generico contraltare politico-sociale-culturale che non
specificatamente musicale, da Verdi tornando indietro a Monteverdi,
viene esaltata come un carattere tipicamente italiano
(9), ma ben poco approfondita attraverso la documentazione storica ed estetica. Nel 1908
s'istituisce a Ferrara l'Associazione dei Musicologi Italiani, in anni
in cui nessuna Università del nostro bel Paese canoro ha una Cattedra di
musica! Ma non sono i musicologi gli artefici della renaissance della
musica antica e monteverdiana, quanto piuttosto i compositori della
Generazione dell'Ottanta: Pizzetti ricostruisce il sistema medioevale e
al Canto gregoriano più volte fa riferimento nella sua produzione;
Respighi trascrive molti brani, dalla Ciaccona di Vitali alla
Pastorale di Tartini, dalla Passacaglia in DO minore di Bach
al Lamento di Arianna e all’Orfeo di Monteverdi (1931).Si
tratta di trascrizioni libere e composite stilisticamente, orientate
verso il pastiche, ma, d'altra parte, le revisioni dell'epoca se non
pagano dazio alla fantasia dei compositori lo pagano all'imbarazzo
stilistico dei musicologi, come nelle revisioni di musica monteverdiana
di Giacomo Benvenuti. Come dire che, in quegli anni, non c'è scampo per
la verità storica: ideologia e sentimentalismo si mescolano in una
miscela deprecabile, come dimostra anche la prima Settimana musicale
senese dedicata a Vivaldi. Un ostacolo alla diffusione della musica
pre-romantica viene posto da Giulio Ricordi che ha tutti gli interessi a
sostenere il Teatro d’opera, come ben denuncia il Parigi, in un libro
pubblicato nel 1921 dall'editore Vallecchi di Firenze, ma scritto nel
1917, II momento musicale italiano: "il popolo italiano nel
teatro c'era, e Ricordi ve lo ha seguito, e ve lo ha lasciato, non solo,
ve lo ha inchiodato".
Gian Francesco Malipiero
Va sottolineato il fatto che
Malipiero si scrive da solo quasi tutti i libretti delle sue numerose
Opere, a dimostrazione della sua cultura letteraria, perciò acquista
particolare rilievo il fatto che si rivolga con insistenza a D'Annunzio
che sa leggere profondamente, abbagliato quindi dalla qualità della
scrittura del Poeta e non solo dalla sua fama, conscio anche di "dover
superare la musicalità dei versi d'annunziani" per non sacrificare
la musica. L'avventura della grande Raccolta delle Musiche Italiche,
cementò poi il rispetto reciproco, basato anche sull'amore della musica
pre-romantica. "Bisogna penetrarne lo spirito per ritrovare le nostre
origini" - scriveva nel 1920, in una lettera a Guido Maria Gatti,
Gian Francesco Malipiero, riferendosi all’Orfeo di Monteverdi -"spero
di riuscire a pubblicare le opere complete di questo grande musicista
/.../ l’Orfeo è veramente un capolavoro e le edizioni che esistono sono
delle infamie". Spetterà a Malipiero
approfondire le origini della
musica moderna, aderendo con curiosità a un'aura culturale che il magico
mondo antico suscita, in primis quello veneziano, mostrando un gusto e
una consapevolezza che lo qualificano in maniera del tutto differente da
quella di altri musicisti a lui coevi. "Monteverdi, sostengo che
nessuno lo conosce" -scrive a ragione Malipiero nel 1928 - "e la
sua musica religiosa chi la conosce?" E l'anno seguente, rivolto
ancora a Gatti, parla della "ignobile edizione di D'Indy"
(10).
La metodologia seguita da Malipiero si basa sul reperimento delle fonti:
"ho raccolto tutti i documenti che illuminano la sua vita e ho
cercato di tracciare una linea di Monteverdi come uomo e come artista"
- scrive nel 1930, quindi nel 1935, rispondendo a delle critiche di
Redlich, dice: "il dott. Redlich continua a deformare le opere
monteverdiane sovrapponendovi contrappunti, anacronistiche
istrumentazioni ecc./…/ io ho messo in opera tutte le mie esperienze per
realizzare il basso senza togliergli il carattere di improvvisazione.
Forse egli crede che non sarei stato capace di imbastardire i capolavori
di Claudio Monteverdi con dei vaghi contrappuntini accademici. Le
improvvisazioni sul basso venivano appunto improvvisate perché dovevano
restare in secondo piano, umilmente, onde non soverchiare il canto."
Un amore, quello per il Divino Claudio, vivo per tutta la vita, anche
dopo la realizzazione dell'Opera omnia, come testimoniano anche le
ultime lettere dove
Monteverdi
viene citato fino all'anno della morte di Malipiero. Malipiero ha
effettuato numerose trascrizioni, come i Concerti per organo e archi
o orchestra da Corelli, Domenico Scarlatti, Veracini, Tartini;
inoltre Madrigali per orchestra da Monteverdi, e infine La
Cimarosiana (1921), Vivaldiana (1952) e Gabriellana
(1971). Fra le revisioni le Canzoni amorose di Bassani, La
rappresentazione di Anima et di Corpo di de' Cavalieri, //
Filosofo di Campagna di Galuppi (tutte revisioni realizzate nel
1919), La passione di Gesù Cristo di Jommelli (1919), venendo poi
a Monteverdi con Orfeo (1923) e Combattimento di Tancredi e
Clorinda (1931) e altre opere di Lotti, Benedetto Marcello,
Stradella, Sarti, e altri ancora. Malipiero muore il 1° Agosto 1973.
Nello stesso mese, Annibaie Gianuario lo ricorda in un Convegno al
Centro Studi Rinascimento Musicale di Artimino, di cui Malipiero faceva
parte, con una relazione - purtroppo introvabile perché fu stampata dal
Centro in soli 200 esemplari - mettendo subito in risalto come gli studi
di Malipiero fossero volti principalmente a ritrovare l'essenza
fonico-semantica della creazione del Cremonese.
Malipiero e Gianuario
Ricorda Gianuario: "ci
accingevamo nel lontano 1965 ad approfondire lo studio sull'Arte
musicale del XVI e XVII secolo in genere e di Monteverdi in particolare
e, dopo aver consultato e schedato tutto quanto era stato scritto sul
grande Claudio, eravamo ragionevolmente pronti ad iniziare la vera e
propria ricerca su quel periodo fascinoso e sull'artista eccelso. Un
concetto ci aveva particolarmente colpito, un concetto espresso dal
Prunières (vedi Henry Prunières, "La vie et l'oeuvre de C. Monteverdi",
Paris 1924-1926; pagg. 7-8): "... En face de Zarlino, défenseur de la
tradition, se dresse Vicentino dont le traité "L'Antica Musica ridotta
alla Moderna prattica" (1555), fut le bréviaire des musiciens d'avant-garde" e ripreso con una punta polemica da Malipiero nel suo "Claudio
Monteverdi" (Milano 1930): "II Monteverdi, senza né punto né poco
rinunciare alle risorse infinite dell'intuizione, preferì seguire le
teorie di Nicola Vicentino /. . ./, ma non si può dire per questo che il
"Monteverdi disponeva male le parti"! /. . . / (cfr. op, cit. pagg.
26-27)". Fu questa la molla che fece scattare il congegno e ci portò a
trascrivere i 5 libri del battagliero Don Nicola. L'approfondito studio
di questa opera e la conoscenza dei teorici e pratici dell'epoca: Aaron,
Agazzari, Artusi, Banchieri, Berardi, Bononcini, Bottrigari, Caccini,
Diruta, Foliani, Peri, Lanfranco, Zacconi, Tevo, Zarlino, ecc. e
soprattutto l'analisi dei concetti espressi nelle due lettere di
Monteverdi del 1633 e 1634 (gli autografi si trovano presso la
biblioteca del Conservatorio di Musica "Cherubini" di Firenze) ci
consentivano una notevole apertura conoscitiva. Ed era questa maturata
conoscenza che ci portava a collegarci con Colui che, molto prima di noi
e lavorando su basi dedotte da una metodologia indubbiamente ancora
lacunosa, era pur riuscito a sollevare il velo sul segreto della Seconda
pratica monteverdiana. Il collegamento fu semplice, spontaneo e
fortemente stimolante. Il carteggio stringato, essenziale e chiarissimo
che ho avuto con Gian Francesco Malipiero doveva fugare le ultime
perplessità circa una nuova interpretazione da dare alla semeiografia
monteverdiana soprattutto riferita alle alterazioni." Proprio nel
1967 (anno della baraonda delle commemorazioni monteverdiane) usciva,
per i tipi di Schweiwiller, il caustico Così parlò Monteverdi in
cui Malipiero scriveva: "1967 sarà una gran festa per la musicologia
e questa certamente mi farà la festa /.../ Non valgono nemmeno i
documenti, il più importante è il libretto della "Proserpina rapita" di
Giulio Strozzi, purtroppo la musica è andata perduta, ma in esso sono
precisati i modi di ogni singola Aria, vale a dire il Frigio, il Lidio,
il Missolidio e l'Eolio /... / Da trent'anni insisto pubblicando il
fac-simile di queste importantissime testimonianze, ma è troppo comodo
annullarle alterando gli accidenti che determinano appunto i modi ai
quali gli elaboratori preferiscono le armonie care a Saverio Mercadante.
È effettivamente essenziale definire il valore espressivo dell’
alterazione, sia per l'individuazione della modalità, sia per
riconoscerne il genere. In Monteverdi l'alterazione valeva per la sola
nota davanti a cui era posta, troppe pagine monteverdiane sono state
lette male e da ciò è derivato un evidente appiattimento della tensione
emotiva ed un impoverimento delle espansioni armoniche del continuo.
"Questo dato di fatto che si desume quale corollario dalla
esposizione di Malipiero" - dice Gianuario nella
citata
relazione commemorativa di Malipiero - "è stato il punto di avvio per
una nuova impostazione da dare alla esplorazione dell'opera
monteverdiana; nuova impostazione alla cui realizzazione il Centro Studi
Rinascimento Musicale subito si accinse. Procedendo da una attenta
disamina della prassi semeiografica dell'epoca, seguendo una serrata
casistica prettamente monteverdiana e confortati dalle preziose
affermazioni espresse da Malipiero nei Suoi scritti dal 1967 in avanti,
a quarant'anni dalla pubblicazione maestosa dell'Opera Omnia, dovremmo
oggi impegnarci tutti alla redazione di una edizione critica delle opere
di Claudio Monteverdi. Scriveva Friedrick Blume nel saluto rivolto al
Convegno di Siena del 28-30 Aprile 1967 (cfr. Rivista Italiana di
Musicologia, Vol. II, Olschki, Firenze 1967): " tutti gli sforzi si
basano ancor oggi su fondamenta oscillanti, perché ci manca un'Opera
omnia critica e fedele alle fonti. L'edizione di Francesco Malipiero
iniziò negli anni venti: nessuno misconoscerà i suoi grandi meriti, ed
io posso attestare ancor oggi per mia propria esperienza, quale
illuminazione essa sia stata allora, per noi / . . . / Quasi tutte le
edizioni che conosco direttamente, contengono sbagli: errori di
notazione, errori nel basso continuo, modifiche arbitrarie, ritocchi,
ecc. ecc.".
L'argomento è rimasto di
pressante attualità, occorre procedere al confronto delle diverse
edizioni originali apportando alla monumentale Opera Omnia quelle
precisazioni indispensabili alla determinazione indiscutibile del testo
esatto. Gianuario fa l'esempio del Lamento d'Arianna monodico che
esiste in un unicum del 1623 (Biblioteca dell'Università di Gent) la cui
stesura non trova esatta corrispondenza con quello contenuto nell'Opera
Omnia (nel citato saggio Modalità e realtà fonetica nel "Lamento di
Arianna" Gianuario ha svolto riflessioni sostanziali); altro esempio
può essere quello dell’Orfeo di cui esistono due edizioni
originali del 1609 e del 1615, fra le quali non vi sono differenze degne
di nota, mentre l’Orfeo di Malipiero (come tutte le edizioni
moderne) ha una stesura che sembra esser stata redatta sulla scorta di
un esemplare del 1615 (Biblioteca di Wroclaw - Polonia) nel quale furono
apportate correzioni a mano visibilmente apocrife. Procedendo ad un
auspicabile perfezionamento della conoscenza di Monteverdi, ci si trova
di fronte al rinnovato problema del continuo; e su questo tema la
musicologia ufficiale segna ancor oggi il passo, irretita com'è in
cognizioni inesatte della tecnica armonica dell'epoca. "Il continuo
era certamente un semplice sostegno alla espressione verbale (in caso
contrario l'autore lo avrebbe realizzato)" — precisa Gianuario - "e
può darsi che fosse da improvvisare. Comunque è solare che l'Armonia del
Cinqueseicento era molto più ricca e complessa di quanto per strana ed
inveterata consuetudine si continua a credere, basando i giudizi sulle
realizzazioni del Settecento e sulla non conoscenza della Seconda
pratica che è una luminosa parentesi fra il mondo contrappuntistico che
si dissolve e l'instaurarsi di una estetica che avrà le proprie assisi
nelle formule della regola d'ottava e nella pararmonia con la completa
perdita della individuazione fonico-semantica della espressione
verbale". È necessario allora procedere ad un completo riesame della
praxis compositiva dei Marenzio, Mazzocchi, Peri, Caccini, Luzzaschi,
Frescobaldi, Da Venosa". La tendenza ad adagiarsi nel comodo
servizio di revisione, rielaborazione, ecc., che ha portato alla
deturpazione del volto sublime dell'Arte monteverdiana è stata
smascherata per primo da Gian Francesco Malipiero che rimane lo
scopritore più valido dell'Arte monteverdiana, ma occorre, ora,
ristudiare attentamente anche gli scritti di Gianuario e quanto il
Centro Studi Rinascimento Musicale ha pubblicato per far sì che fiorisca
la conoscenza completa del grande Claudio.
Indispensabili sono le
realizzazioni canore di Nella Anfuso che di tutti gli studi, molti
realizzati da lei medesima in una serie stupefacente di compct-disc, fa
tesoro e mette in pratica correttamente, perseguendo la verità storica
della grande scuola di Canto italiana. Purtroppo oggi più di prima,
seppur in una situazione diversa, bisogna combattere ciò che Malipiero
chiamava "i raddrizzatori di musica antica"; le conoscenze sono
ben maggiori a livello storico, estetico e tecnico, ma troppo spesso
vengono utilizzate male, cinicamente piegate a interessi personali. I
continui fraintendimenti messi in opera dalla early music
derivano solo in parte dall'ignoranza, principalmente sono realizzati di
proposito, seguendo una logica commerciale (basterebbe pensare all'uso
improprio del falsettista, alla ridicola pronuncia della parola e al
ruolo del direttore d'orchestra, inesistente all'epoca di Monteverdi). È
necessario un richiamo alla correttezza, se non si vuole correre il
rischio, davvero irrimediabile, della scomparsa della grande Scuola di
canto italiana. Occorre lavorare sui documenti musicali, seguendo la
linea della grande Scuola, purtroppo oggi misconosciuta per ignoranza o
per interesse; fra questi documenti ce ne sono di importantissimi che
possono guidare ogni cantante coscienzioso. La speranza è che si
recuperi, con onestà e rigore, la grande tradizione italiana di canto,
fornendo così un indispensabile punto di riferimento per studiosi e
studenti, analizzando e relazionando i fatti musicali con quelli
culturali e specialmente estetici, difendendo ciò che Monteverdi
chiamava il giusto.
E noto come il
"meravigliare" sarà proprio della concezione manieristica e ancor più
barocca dell'arte, per la quale diventa essenziale commuovere,
dilettare, persuadere, legandosi alla Retorica classica. Va ricordato,
onde evitare interpretazioni errate, che il termine "maniera" indica,
nel Cinquecento, il modo di essere, per cui ogni artista ha la sua
maniera, il suo stile. E che "Barocco" è una definizione di comodo che
non va equivocata.
Cosa dobbiamo intendere per
studio basato sull'estetica? Una ricognizione sui caratteri scientifici
ed artistici di un lavoro, mentre va curato contemporaneamente
l'approfondimento dell'analisi dei caratteri poetici del lavoro stesso,
intendendo per poetico il carattere della struttura espressiva di esso,
per esempio la Camerata dei Bardi, Monteverdi e tutti i cultori della
Seconda pratica seguono la concezione estetica di Platone; non
dimentichiamo che Firenze fu uno dei centri più importanti del
neo-platonismo rinascimentale (Marsilio Ficino, nel 1460, vi tenne
l'Accademia Platonica). Purtroppo la storia della musica ha inteso gli
affetti nell'accezione romantica dei sentimenti e così la Seconda
pratica è diventata sempre più un'arte dell'affresco sonoro. Questi
errori possono essere evitati studiando attentamente l'estetica, uno
studio invece del tutto disatteso sia nei Conservatori, sia nelle
Università, sia nei Corsi di canto.
A. Gianuario, La monodia
di Giulio Caccini, la sua realtà Artistica e le manomissioni in atto.
Rivista II Pasquino musicale, anno II, nn. 5/6, Lucca 1992.
C. Colvin,La musica dei
Gonzaga, TEA, Milano 2000.
A. Gianuario, Saggio musicologico al CD Stilnovo SN 8813, Nella Anfuso
Parlar cantando I.
A. Gianuario, Modalità e
realtà fonetica nel "Lamento d'Arianna" di Claudio Monteverdi,
Centro Studi Rinascimento Musicale, Artimino 1999.