Montisviridi

Home
S.O.S.
Estetica
Il  Sorriso
Lull
L' e(ste)tica
La Voce Umana
The Camerata
Madrigaux
Malipiero
L'Intellettuale
Montisviridi
VEHEMENCE
Masterclass
Monteverdi
Museum
Chassez
Poppea
In Memoriam
Su "L' Alternato"
Corpus
E-MAIL

 

Fondazione Centro Studi Rinascimento Musicale

XXXII CONVEGNO INTERNAZIONALE DI MUSICOLOGIA

Artimino - Villa Medicea "LA FERDINANDA"

21 - 22 Luglio 2003

" Nel nuovo Millennio Monteverdi, questo sconosciuto. Estetica e Vocalità "

Renzo Cresti

"La ripresa della musica monteverdiana nel primo Novecento, D’ Annunzio e le prime revisioni. Gian Francesco Malipiero e Annibale Gianuario".

Claudini Montisviridi la musicalità del dire.

"Bisogna glorificare il più grande degli innovatori che la passione e la morte consacrarono veneziano, colui che ha il sepolcro nella chiesa dei Frari, degno di un pellegrinaggio: il divino Claudio Monteverde"

 Gabriele  D' Annunzio

Pubblichiamo integralmente, la relazione del prof. Renzo Cresti al XXXII Convegno Internazionale di Musicologia, dedicato a Claudio Monteverdi.

ARTIMINO (FI) - "Claudini Montisviridi", così si legge nel frontespizio del primo lavoro che Monteverdi pubblica nel 1582, Sacrae Cantiunculae, presso il famoso editore Gardano di Venezia, "è un allievo di Ingegneri" e in questa Antologia di Mottetti, pur nell'evidente ricalco di certi stilemi del grande polifonista sacro, Maestro della Cattedrale di Cremona e col quale il giovane Monteverdi studia, dimostra una sottigliezza di scrittura che rimarrà una felice costante: i Mottetti sono a tre voci (non a cinque come usanza) e questo ci dice che il giovane Monteverdi non è tanto attratto dalle grosse sonorità quanto piuttosto dal raffinato rapporto con la parola, in tal senso Monteverdi è davvero il grande continuatore della Scuola di canto che ha origine nelle Corti italiane del Quattrocento. La relazione parola/suono costituisce il cardine dell'e(ste)tica musicale umanistico-rinascimentale, per la quale la musica dev'essere "trasparente", in modo da rendere intellegibile il testo. La creazione di senso è il fine più alto. La rigogliosa cultura del Quattrocento italiano influenza l'Europa tutta, un esempio musicale è il De modo bene cantandi, pubblicato nel 1474 da Conrad von Zabern, in cui si critica con severità le cattivi abitudini dei cantori che "nasalizzano" e che non pronunciano bene le parole "generando confusione nella pronuncia". Il rapporto col testo è, insieme alla "voce sonora" e ad alcuni princìpi tecnici, la base su cui s'imposta l’e(ste)tica della grande Scuola di canto italiana, un'estetica che si contrae in etica . L'intellettuale, formatosi alla scuola umanistica, propugnava i concetti di virtù, conoscenza e ragione, aveva formulato un programma di collaborazione col Principe, un ideale proposto da Baldassare Castiglione, nel dialogo Il cortigiano del 1528. Scrive il grande letterato e diplomatico: "bella musica parmi il cantar bene al libro, ma ancor molto più il cantare alla viola perché tutta la dolcezza consiste in uno solo, e con molto maggiore attenzione si nota ed intende il bei modo e l'aria non essendo occupate le orecchie in più che in una sola voce, e meglio ancora vi si discerne ogni piccolo errore, il che non accade in compagnia perché l'uni aiuta l'altro. Ma soprattutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare, il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole eh'è gran meraviglia" (1). La ricognizione della musicalità del dire, che il Doni scrive "non si è più attuata dopo l'antichità greco-latina", è uno degli ideali forti del Rinascimento che, conoscendo Platone, Aristotele, Filodemo, Archita, Cicerone, Aristosseno, possiede la documentazione per capire come poesia e musica erano tutt'uno. La musica era l'arte del dire, infatti il pubblico dello scrittore antico non era un pubblico di lettori, ma di uditori, la retorica diviene, quindi, la base per la realizzazione fonetica del pensiero. "La via della persuasione percorre la strada che attraverso il delectare e il muovere giunge al docere, le arti devono assumere questa triplice funzione persuasiva /.../ stabilito come il fine proprio della musica sia il rappresentare gli affetti," "oggetto è il suono, il fine è il dilettare e commuoverci con gli affetti più diversi" (Cartesio), l'indagine dei musicisti e dei teorici si volge a indagare tutti i possibili riscontri tra gli stati d'animo e i mezzi musicali più adatti a rappresentarli" (2). Per raggiungere tali obiettivi si riutilizzano i metri antichi, da Bernardo Tasso a Cesare Monteverdi, al Tolomei, Trissino, Chiabrera... fino ai tentativi della Pléiade. È chiaro, comunque, che il ricorso ai piedi greci o il riportare alla luce altri stilemi antichi, non è sufficiente a creare un unicum parola/concetto/suono (è per questo che la Pléiade rimane sospesa a metà strada) (3).

La voce sonora e Monteverdi

Da un punto di vista tecnico, i cantanti devono utilizzare la risonanza superiore, infatti il suono perfettamente emesso viene creato nelle cavità di risonanza superiori, poggiando sul fiato, realizzando quel "cantare sul fiato" di cui parlano i teorici: il Giustiniani descrive le meraviglie canore delle corti di Ferrara e di Mantova: "facevano a gara nel moderare e nel crescere la voce, assottigliandola e ingrossandola, hora strascinarla, hora smorzarla, con l'accompagnamento di un soave sospiro /.../ accompagnavano appropiatamente la musica e li concetti". La rappresentazione degli affetti richiede quindi uno stile che vada in profondità, entri dentro alla parola e ne esalti le innumerevoli possibilità di declamazione. La naturalezza espressiva fa ricorso anche a un uso sapiente della pausa che deve seguire il respiro e dar rilievo alla sensibilità dell'interprete. Sotto il profilo canoro, l'estrema purezza e fragilità del suono-poetico richiede la stessa perfezione della emissione che permette la realizzazione dello spiccato (tipico della esecuzione della virtuosità) che deve far risaltare bene ogni suono-sillaba e, per realizzare questa pronuncia, occorre creare il suono utilizzando al massimo i risonatori sopra-laringei che hanno sede nelle fosse nasali e nei seni paranasali, cosa che oggi non si ascolta quasi più. La risonanza totale quindi (la "voce sonora" del Caccini) è possibile solo mediante il meccanismo dell'appoggio che permette il registro unico e quindi l'omogeneità e la purezza dell'intonazione. C'è un grande "segreto" per giungere alla perfetta vocalità ed è quello di considerare che esiste un punto unico dell'appoggio per tutti i suoni della scala musicale (nessun testo italiano antico, e ciò è significativo, accenna ai cosiddetti "passaggi di registro"). Inoltre l'emissione va realizzata sul fiato, creando così un suono vivo e vibrato e permette di portar la voce attuando i particolari effetti cromatici tipici del canto affettuoso. Il crescere e lo scemare della voce dev'essere basato su una buona respirazione (alcune conformazioni facciali possono aiutare la buona risonanza, come la forma del naso).

Lo stile rappresentativo non è tale perché realizza una visione scenica del testo, quanto perché rappresenta gli affetti, modulando emotivamente la voce, quindi, come dice Annibale Gianuario, "siamo molto lontani dal melodramma e dall'operismo e siamo lontanissimi da un canto virtuosistico fine a se stesso nel quale e per il quale si possono inventare diminuzioni, accompagnamenti elaborati e... orchestrazioni" (4). Oltre a Cremona, il giovane Monteverdi ha contatti con Milano, dove vi suona più volte la viola, e con Ferrara, dove conosce le celebri tre dame che cantavano trii scritti appositamente per loro da vari musicisti (fra cui Luzzaschi), ma è certamente Mantova la città fondamentale per la messa a punto della Seconda pratica. In una lettera del 1611, indirizzata al cardinale Ferdinando Gonzaga, Monteverdi scrive: "ogni venerdì sera, nella Sala degli specchi, si tiene un concerto. La signora Adriana canta, regalando ai sensi tutti un tale piacere e donando alla musica un tale potere e una grazia così particolare che quel luogo diviene un nuovo teatro". Lo specchio è uno dei simboli dell'estetica seicentesca, verità del riflesso e, contemporaneamente, apertura di uno spazio illusorio. "Come potremmo vivere senza specchi? /.../ sono le finestre attraverso le quali vediamo noi stessi /.../ vi piace la Sala degli specchi? State osservando il soffitto, i quattro cavalli e l'auriga /.../ notate che i cavalli sembrano galoppare nella direzione opposta. Un'illusione ottica, come molti nostri affreschi. Giochiamo con le dimensioni. Tutto ciò che potete vedere nella Sala è il vuoto, e voi stessi riflessi negli specchi. Non sentite, seppur debole, la musica che filtra attraverso il sudario del tempo? /.../ le nostre pareti, là dove non sono ricoperte di specchi, risplendono con le opere di Tiziano e di Rubens. Il nostro direttore della musica, il maestro di Cappella, è il migliore d’Italia il divino Claudio.Il duca Vincenzo ha riconosciuto il suo suo talento la prima volta in cui lo ha visto a Cremona, un giovane violinista" (5). La signora Adriana, citata nella lettera di Monteverdi, è Adriana Basile, cantante di grande fama già a Napoli, prima di giungere a Mantova; la lettera è del 1611, l'anno dopo, il 18 Febbraio, muore Vincenzo I, quarto duca di Mantova, sposato in prime nozze, con un matrimonio annullato a Margherita Farnese, poi a Eleonora de' Medici (era nato nel 1562), gli succede, per breve tempo, Francesco (nato nel 1586 e sposato a Margherita di Savoia) ma in quel tempo breve combinerà il guasto di licenziare Monteverdi, insieme al fratello Giulio Cesare, e invano il successore, il cardinale Ferdinando (al quale è indirizzata la lettera citata) cercherà di riportare a Mantova il divino Claudio che la Repubblica Serenissima di Venezia aveva ingaggiato come Maestro nella Basilica di San Marco. È grazie all'ammirazione e all'aiuto che Monteverdi avrà dal duca Vincenzo che il Maestro potrà realizzare, con agio, le sue composizioni maggiori (è un rapporto felice quello fra i due, a parte la vicenda della figlia del violinista Cattaneo, Claudia, che il duca corteggia strettamente, poi sposata da Monteverdi nel Maggio del 1599), fra i capolavori alcuni Madrigali e le due Opere Orfeo e Arianna, sulla quale il librettista, Ottavio Rinuccini, in una lettera del 1607, fa questa riflessione: "queste cose cantate sono più difficili e più belle di quello che pensa la gente: richiedono grande squisitezza di versi." La difficoltà viene dunque sciolta nella squisitezza, ossia nel modo di porgere la parola e qui la dissonanza assume un ruolo decisivo. Monteverdi farà della dissonanza la manifestazione dinamica della sua musica, realizzando la visione platonica del concetto espresso in suono. Il pensiero che il testo esprime si deve concretizzare nell'aderenza della musica alle parole: la messa di voce (il suo aumentare o diminuire), l'esclamazione languida o spiritosa, le cascate (volatine), gli effetti espressivi del legato e il trillo (a imitazione del canto degli uccelli, come dice Caccini) e tutti gli altri elementi che vanno a costituire la Sprezzatura (andamento a tempo libero per seguire l'arsi e la tesi della musica) sono allora in funzione dell'espressione poetica e devono essere realizzati a voce "sonora" naturale, in cui cioè è operante la completa fusione dei due registri. Nel parlare modulando le sillabe, come dice Caccini, devono essere conservati gli accenti tonici e le caratteristiche delle vocali. Il pathos garbato delle musiche di Autori quali Andrea Gabrieli, Giovanni Croce, Luca Marenzio, deriva dall'uso blando della dissonanza "mai dura da offendere l'orecchio" che ben si addatta ai circoli cortesi, ma Monteverdi, quando passa da Cremona a Mantova, scopre il Manierismo e con esso l'andare a fondo nelle passioni, superando gli statici schemi su cui si basa la polifonia accademica, quelli che aveva in mente il monaco Artusi quando dice che Cruda Amarilli è pieno di errori, dimostrando una visione della scrittura musicale arretrata. Le dissonanze iniziali servono per dare fin da subito il climax della composizione, mentre le ornamentazioni intensificano l'espressività, approdando a uno stile tormentato che supera di gran lunga ogni schema fìsso e getta le basi di una nuova concezione della musica a servizio della parola. La dissonanza serve appunto a creare quell'affondo altrimenti impossibile seguendo le regole tradizionali e tale affondo è guidato dal significato delle parole e dalla ricerca della loro comprensibilità. Per esempio, in alcuni Madrigali del Quarto Libro come Cor mio, non mori? oppure Anima mia, perdona o ancora in Anima dolorosa non una sola parola va perduta, in Sfogava con le stelle un infermo d'amore le parole sono addirittura declamate. È interessante ricordare che Monteverdi utilizza la notazione comune per i Salmi, limitandosi a indicare le note dell'accordo che devono essere cantate, lasciando le durate libere, in modo che il cantante si avvicini il più possibile al parlato. Il Quinto Libro di Madrigali (che ha un grandioso successo ed è ristampato più volte), poi l'Orfeo (anch'esso ristampato nel 1615), quindi L’ Arianna e, infine, il Sesto Libro (pubblicato dopo che Monteverdi aveva lasciato Mantova, ma scritto negli ultimi anni del soggiorno mantovano) dimostrano come questo affondo riesca in maniera perfetta, facendo di Monteverdi "il divino Claudio". Certo gli Scherzi musicali, gli ultimi Libri di Madrigali e la musica sacra scritta a Venezia, per non parlare delle due ultime Opere per il teatro, aggiungono molte tematiche e approfondiscono i tanti aspetti della produzione monteverdiana, ma l'apice pare già raggiunto nei primi 15 anni del Seicento: per esempio l'apprendimento della tecnica legata alla pratica del basso continuo, così importante per le composizioni veneziane, risale all’epoca di Mantova, è infatti alla Corte dei Gonzaga che Lodovico Grossi da Viadana, organista della Cattedrale, sviluppa tale tecnica, descrivendola nella Prefazione del suo Primo Libro di Concerti (1602). Anche il balletto Tirsi e Clori, pubblicato nel Settimo Libro (1619) era stato scritto per il Duca di Mantova, dove Monteverdi aveva conosciuto Giovanni Giacomo Gastoldi (allora Direttore della Cappella privata in santa Barbara) e del quale si ricorderà quando comporrà, a Venezia nel 1632, gli Scherzi musicali, dal tono leggero proprio come quello del Gastoldi. Inoltre, molta della musica sacra veneziana si avvicina allo stile profano già messo a punto a Mantova, per esempio il Mottetto Pianto della Madonna è una rivisitazione del Lamento di Arianna, oppure Laudate Dominum come pure Ab aeterno ordinata sum, pezzo ricco di pittoreschi effetti. Infine, nella Prefazione all'Ottavo Libro il Maestro sente il bisogno di ricorrere ancora una volta a Platone e alla sua idea di "imitazione", ribadendo, anche a Venezia, la sua educazione formatasi dentro la cultura delle grandi Corti italiane del Cinquecento.

Il problema dell'armonia

In una lettera del 1633, Monteverdi chiarisce la differenza fra l'armonia fondata sulle ragioni della Prima pratica, dove il testo viene adattato alla musica, e quella basata sulla Seconda che è la realizzazione del suono della dizione emotiva dell'espressione poetica la quale, seguendo le indicazioni di Platone, dev'essere scelta per il suo valore spirituale. Da questa differenza era partita la polemica dell'Artusi, che nel 1600 aveva pubblicato L'Artusi ovvero delle imperfezioni della moderna musica, nel quale aveva accusato Monteverdi di "procedimenti che offendono l'orecchio", perché realizzati non in nome delle ragioni squisitamente musicali, ma in nome di quelle del testo, quindi per l'Artusi la musica ha le sue regole in sé, mentre per Monteverdi la "perfetione della moderna musica" consiste nel seguire "l'oratione" (così scrive nella Prefazione al Quinto Libro di Madrigali, nel 1607). Come dice il grande esperto del periodo Annibale Gianuario (6). per Monteverdi la Seconda pratica è dunque il ritorno alla concezione della musica come realizzazione della poesia nei suoi tre elementi unitari: il significato, il ritmo e il suono, elementi che il musicista plasma seguendo la rappresentazione degli affetti. Nel suo studio sulla Modalità e realtà fonetica nel "Lamento di Arianna" di Monteverdi (7) , Gianuario fa una considerazione interessante sull'armonia e dice: "si potrebbe analizzare la modalità del "Lamento" basandosi sul basso continuo, cioè considerando indicativa la finale del basso stesso /.../ non ci sembra una soluzione attendibile, in quanto la modalità viene determinata dal verso e il continuo è da considerarsi rivelazione di particolari "armoniche" evidenziate dalla dizione che altresì determina quelle componenti armoniche che Monteverdi notizia sul basso". E' quindi l'individuazione del suono vocalico e sillabico che determina l'espressione e di conseguenza la modalità, come nella musica degli antichi greci ai quali gli umanisti si richiamavano, il modo allora dev’essere determinato dalla sonorità della frase, in un'unità fonico-semantica, articolata in accenti e timbri. È il come particolare dell'esprimere l'emozione che il testo suscita che determina la mese e la finalis e, in ultimo, il modo di essere dell'armonia. Le edizioni moderne delle composizioni di Monteverdi tradiscono spesso il lavoro originario, inquadrandolo nel sistema armonico delineatosi dopo l'epoca monteverdiana, s'ignora la poiesis e la semiografia del Cremonese, e si dà vita a interpretazioni vocali che non conoscono le flessioni toniche derivate dall'espressione verbale e producono falsi storici. Si crede oggi di conoscere Monteverdi, ma in realtà, per colpa delle troppe falsificazioni storiche si ascolta una musica altra, riadattata alle mode della early music. La grande scuola italiana, da Maffei a Caccini, a Tosi, Fedi, Pistocchi, Brivio, Peli, Redi, Amadori fino a Porpora tiene ancora saldi quei principi che Giambattista Mancini riassumeva nel suo Riflessioni pratiche sul Canto figurato e cioè: acquisizione del portamento di voce che è il passaggio, legando i suoni, d'una nota all'altra; messa di voce cioè l'azione di attaccare una nota sul pianissimo, aumentare la sonorità fino al fortissimo e ritornare al pianissimo utilizzando sempre lo stesso fiato e terminando, se l'espressione lo richiede, con un trillo; il trillo (che dev'essere uguale, battuto, granito e moderatamente veloce); l'appoggiatura semplice o doppia è l'accentuazione su una o più note trattenute sia nel discendere (un tono) che nel salire (mezzo tono); il mordente è una nota reale il cui battimento è dato da una nota inferiore di mezzo tono; la cadenza è un'esecuzione importantissima ed è una creazione espressiva dell'interprete. Mancini scrive che "le voci, anche se adatte all'espressione, non possono eseguire che il canto di note e parole". È un'osservazione molto pertinente e che non lascia alcun dubbio sulla realtà del Canto nei secoli che ci interessano, in opposizione al canto che a partire dal XIX secolo tenderà all'espressione verista, seguendo un'estetica completamente diversa dalla rappresentazione degli affetti. Già nell'appello alla "verisimiglianza" della cultura illumistica si era intravisto il passaggio dal mito all’epos, un cambiamento che avrà progressive ripercussioni sulla drammaturgia e sul modo di descrivere col canto personaggi e situazioni. Si perde il contatto con la parola a favore della scena, le sottili trasfigurazioni emotive espresse dal dire musicale diventano crassi sentimenti urlati, le raffinatezze vocali si volgarizzano, inseguendo un malinteso senso del popolare. Ci si allontana dai principi che hanno radice nella grande Scuola che parte dal Caccini e ci si avvicina all'impostazione verista, che si basa su un'estetica dai segnali forti, molto differente da quella del muovere gli affetti come, e ancor più, da quella wagneriana. La grande scuola persiste ancora fino al primo Romanticismo, come dimostra il testo del 1847 di Manuel Garcia, Traité complet de l'art du chant (trattato in due volumi, il secondo mai pubblicato in Italia!) ma, contemporaneamente, aveva iniziato la sua decadenza, Garcia suddivide la voce addirittura in tre registri! Non è un caso che Rossini, nel 1858, constati la mancanza di cantanti adatti alle opere di Cimarosa, Bellini e sue proprie. E ancora qualche anno più tardi, il lamento di Rossini si ripete, in una lettera al figlio di Vaccai del 1864. Lo stesso Verdi, più volte, dichiara che il suo canto deve basarsi sulle regole auree dell'antica scuola. Bellini risulta essere una sorta di spartiacque, ma egli appartiene ancora alla grande scuola. "L'ideale vocale di Mozart, che fra il 1774 e il 1775, aveva studiato a Londra con il castrato Giovanni Manzuoli rispecchia completamente la buona scuola italiana, nelle sue lettere afferma che ciò che conta nella vocalità è la purezza e l'omogeneità" (8), ovvero quelle qualità che permettono lo "spiccato" del quale parlano Burney e Chopin. La fusione dei registri e la fioritura sono caratteristiche indispensabili per eseguire correttamente Mozart, ma anche Bellini, Donizetti, Mercadante, Paganini e gli operisti di inizio Ottocento, prima che la pratica del "grand cri" alla francese (che, nel 1839, faceva inorridire Liszt), il verismo romantico e il wagnerismo si affermassero.

D'Annunzio, la Raccolta Nazionale delle Musiche Italiane e le prime revisioni

Le fioriture delle Opere di Bellini, le cadenze per quelle di Donizetti e la giusta messa di voce è realizzata da cantanti come Crescentini, Rubini, Cinti-Damoreau, Malibran, Catalani ecc. che dimostrano virtuosità e capacità espressiva. D'Annunzio a Tosti, in una lettera del 1913, testimonia che anche alla cultura francese lo stile verista risulta sgradito: "Pierre Lalo, in uno scritto recente, cercava di individuare le ragioni della rottura totale e atroce fra la musica italiana di un tempo e quella odierna, fra la sublime nudità di Monteverdi e "ce grossier étalage d'emotion popula-cière" che voi conoscete bene". Nel suo romanzo II fuoco, il Poeta scrive: "Claudio Monteverde /.../ di che materia era composta la sua bellezza? /.../ una sola linea del discorso melodico, sostenuta da un accompagnamento che nella più nobile semplicità trova la più intensa espressione: niente altro. E ogni sillaba ritmica è come il polso del dramma; e ogni inflessione della melodia partecipa della forza centrale del dramma è come il cuore attivo nel corpo respirante: e ogni contorno, pur concorrendo alla divina proporzione del tutto, si svolge con una flessibilità e una libertà indefinite e infinite. Le altre musiche, al confronto, ci sembrano scolastiche, rigide, artefìciate, imprigionate nella formula e nella convenzione. Qui l'amore, il dolore, la voluttà, la magnanimità, la preghiera, la temenza, tutti gli affetti umani parlano con la loro stessa voce, col loro accento profondo e originario, con la realtà stessa della carne, del sangue e delle ossa ma sublimata dal più alto stile. M'ardisco nel dire che tutto qui è umano e trasumanato nel tempo medesimo. La musica rischiara il fondo reale che produce le creature ideali. La potenza e l'innocenza della melodia è pari alla potenza e all'innocenza degli elementi primitivi. E, sopra ogni altro sentimento, sta in noi ascoltanti un sentimento di necessità: di quella necessità che è la vera musa tragica". Abbiamo voluto citare l'intero passo perché centra bene alcune caratteristiche della musica monteverdiana: la "nobile semplicità", l’ "intensa espressione", il fatto che "ogni sillaba ritmica è come il polso del dramma", la "flessibilità" e lo stato di "necessità" in cui musica e dramma si svolgono. Inoltre la passione di D'Annunzio per Monteverdi anticipa la riscoperta che ne farà la musicologia, infatti l'edizione dell'Opera omnia di Monteverdi realizzata da Gian Francesco Malipiero ha inizio nel 1926 (per terminare nel 1942). D'Annunzio, nel Libro segreto, descrive il momento in cui fu attirato dalla forza della musica, grazie a Palestrina, del quale aveva ascoltato, nella chiesa bolognese di Santa Maria della Vita, il Mottetto Peccatum me quotidie: "in quel punto io nacqui alla musica /.../ in quell'ora, in quella chiesa parata di porpora, in quel senso mistico che fluttua tra l'estremo della carne e il limitare dell'anima, veracemente sentii dedurre e condurre il mio filo di porpora dalla dita della Musica, e non per diletto e non per blandizia e non per oblio, sì per vocazione di dolore e per vocazione di martirio", dunque la musica è una forma di aspirazione sublime, meravigliosa e terribile a un tempo, come dimostrerà anche Andrea Sperelli, il protagonista de Il Piacere, dove la musica, in specie la wagneriana, costituisce il filo rosso del romanzo. D'Annunzio era arrivato a Wagner per due vie parallele, quella della letteratura francese dei simbolisti e della Revue wagnerienne, e quella delle letture al pianoforte delle opere di Wagner, realizzate nell'appartamento napoletano dall'amico Nicolò Van Westerhout. È ancora la Francia a costituire il terreno d'incontro con i protagonisti della cosiddetta Generazione dell'Ottanta: Casella (che era a Parigi fin dal 1896, quando, tredicenne, si era recato per studiare con Fauré), Pizzetti (che nel 1905 aveva già musicato un testo del poeta, Nave, e col quale D'Annunzio avrà una prolifica e proficua collaborazione) e Malipiero che giunge a Parigi nel 1913 proprio per chiedere al Vate il permesso di musicare Sogno di un tramonto d'autunno (poi musicherà anche I Sonetti delle Fate, il Ditirambo terzo (dalle Laudi) e quattro delle Stagioni italiche (inoltre dedicherà a D'Annunzio la sua Missa pro Mortis). È da Malipiero che nasce l'idea della Raccolta Nazionale delle Musiche Italiane, con lo scopo di riscoprire e di valorizzare la nostra musica del Sei-Settecento, e di rivolgersi a D'Annunzio per una Prefazione prestigiosa. L'idea nasce nel 1916, al Caffè Cova in piazza della Scala a Milano; qui Malipiero espone a Massimo Bontempelli, Alberto Savinio e Umberto Notari il progetto.In un primo momento si pensa a Boito come tutore dell'iniziativa, ma questi rifiuta, allora Notari prova a sentire D'Annunzio che accetta la direzione dell'impresa. La Raccolta Nazionale delle Musiche Italiane, curata dall'Istituto Editoriale Italiano, inizia con un paragrafo intitolato "Notizie generali" in cui si dice: "è noto a tutti che coloro che crearono e stabilirono le forme principali della composizione musicale e diedero vita alla tecnica vocale e strumentale moderna furono italiani", segue un elenco di Autori, di costruttori e di stampatori, poi si pone l'accento sull'esigenza di riproporre questo immenso patrimonio: "sino a poco tempo fa esistevano solo singole ristampe /.../ il più era sparso per i musei, per le biblioteche pubbliche o private, dimenticato /.../ un simile stato di cose doveva finire /.../ animato da ferma fede nell'immancabile rinnovamento dell'arte musicale nazionale /.../ l'Istituto Editoriale Italiano deliberò procedere alla pubblicazione di una grande Raccolta Nazionale delle Musiche Italiane, il titolo sintetizza con limpidità e con precisione la natura e gli scopi dell'iniziativa affidata al genio animatore di Gabriele D'Annunzio e alla dottrina dei maestri Gian Francesco Malipiero, Carlo Perinello, Ildebrando Pizzetti e Ballila Pratella". La Prefazione di D'Annunzio non è incentrata sulla musica, cosa che il Poeta poteva fare benissimo, viste le sue competenze specifiche, ma sull'amor patrio. La Prefazione viene stesa nel Marzo del 1917, durante il terzo anno di guerra, è da questa situazione tragica che D'Annunzio parte, scrivendo: "intraprendere per le stampe una raccolta di antiche musiche in questa nostra terza primavera di guerra /.../ può forse parere impresa intempestiva /.../ ma dallo smisurato travaglio umano nasceranno le forme necessarie della vita nuova /.../ la tavolozza è rasa, la pagina è bianca. Che valgono le mestiche e gli inchiostri davanti allo splendore perpetuo del sangue? /.../ ma l'immateriale musica è dappertutto presente, simile a uno spirito di novità /.../ la musica è oggi la sola fra le arti attive /.../ non per tornare all'antico ma per riconoscerlo e per vendicarlo - nel nome del Monteverdi, del Frescobaldi, del Palestrina - contro un lungo secolo di oscuramento e di errore". Il Poeta sottolinea quindi, più che gli aspetti squisitamente musicali, il tratto storico-politico, e questo sarà una costante di quegli anni. Il piano della Raccolta prevedeva 150 Quaderni dedicati alla musica antica, 50 alla musica Moderna e altri 50 a quella nuova. Gli Autori presi in considerazione per la musica antica sono: Banchieri, Bassani, Caccini, Carissimi, Cavalli, Cavazzoni, Corelli, Del Cavagliere, Durante, Frescobaldi, Gabrieli (Andrea e Giovanni), Galuppi, Gesualdo, Jomelli, Marcello, Martini, Monteverdi, Paisiello, Palestrina, Paradisi, Pergolese, Peri, Platti, Porpora, Rossi, Sammartini, Scarlatti (Alessandro e Domenico), Tartini, Vecchi, Veracini e Zipoli. Di Monteverdi, in particolare, si dice: "trascrizione in notazione moderna, armonizzazione e riduzione per canto e pianoforte a cura di Carlo Perinello de Il ballo delle Ingrate, Tirsi e Clori e del Lamento di Arianna". Con tutti i limiti evidenti, rimane il fatto che questa Raccolta segna un confine fra il disinteresse del periodo precedente verso la musica pre-romantica e l'inizio di una nuova e travagliata fase che porterà, non senza cedimenti, a riconsiderare la musica del Cinque-Sei-Settecento in maniera sempre più attenta e precisa. Vediamone brevemente alcune tappe. Proseguendo, una data importante che va ricordata è il 1909 quando, al Conservatorio di Milano, viene eseguito L’Orfeo che però non entusiasma affatto la critica musicale, tant'è che Carlo Censi, sul n. 30 de "La musica", scrive: "l'analisi particolareggiata del lavoro sarebbe opera misoneista, cadrebbe nel calcolo scientifico che è il contrario di estetico",come dire abbandoniamoci al flusso emotivo "lasciamoci guidare dal nostro sentimento /.../ lasciando da parte ogni gretto criterio storico", come scrive Domenico Alaleona sulla stessa Rivista qualche anno più tardi (Aprile 1912). Seguendo una malintesa estetica crociana, si dà importanza ai sentimenti misconoscendo il valore del documento storico, evocando lo spirito del passato come richiamo a un'idealità generica e generale, non rispettando quindi alcuna verità storica ma adattandola alle svariate esigenze della cronaca dell'epoca. La musica italiana pre-ottocentesca viene esaltata in modo da opporla allo strapotere di quella tedesca, di quella wagneriana e di Richard Strauss in particolare; bruciava anche il fatto che l'Opera omnia di Palestrina fosse stata realizzata, dal 1862 al 1894, da Breitkopf e Haertel, proprio Palestrina che era stato indicato da Verdi quale padre putativo della musica italiana (nel 1910 i tedeschi costituiranno anche una Pergolesi-Gesellschaft). È interessante ricordare come Verdi per "tornare all'antico" raccomandava di studiare Palestrina, ma non "quel Monteverdi che muoveva male le parti" (!). Anche la storia del Melodramma serve, all'inizio del Novecento, più da generico contraltare politico-sociale-culturale che non specificatamente musicale, da Verdi tornando indietro a Monteverdi, viene esaltata come un carattere tipicamente italiano (9), ma ben poco approfondita attraverso la documentazione storica ed estetica. Nel 1908 s'istituisce a Ferrara l'Associazione dei Musicologi Italiani, in anni in cui nessuna Università del nostro bel Paese canoro ha una Cattedra di musica! Ma non sono i musicologi gli artefici della renaissance della musica antica e monteverdiana, quanto piuttosto i compositori della Generazione dell'Ottanta: Pizzetti ricostruisce il sistema medioevale e al Canto gregoriano più volte fa riferimento nella sua produzione; Respighi trascrive molti brani, dalla Ciaccona di Vitali alla Pastorale di Tartini, dalla Passacaglia in DO minore di Bach al Lamento di Arianna e all’Orfeo di Monteverdi (1931).Si tratta di trascrizioni libere e composite stilisticamente, orientate verso il pastiche, ma, d'altra parte, le revisioni dell'epoca se non pagano dazio alla fantasia dei compositori lo pagano all'imbarazzo stilistico dei musicologi, come nelle revisioni di musica monteverdiana di Giacomo Benvenuti. Come dire che, in quegli anni, non c'è scampo per la verità storica: ideologia e sentimentalismo si mescolano in una miscela deprecabile, come dimostra anche la prima Settimana musicale senese dedicata a Vivaldi. Un ostacolo alla diffusione della musica pre-romantica viene posto da Giulio Ricordi che ha tutti gli interessi a sostenere il Teatro d’opera, come ben denuncia il Parigi, in un libro pubblicato nel 1921 dall'editore Vallecchi di Firenze, ma scritto nel 1917, II momento musicale italiano: "il popolo italiano nel teatro c'era, e Ricordi ve lo ha seguito, e ve lo ha lasciato, non solo, ve lo ha inchiodato".

Gian Francesco Malipiero

Va sottolineato il fatto che Malipiero si scrive da solo quasi tutti i libretti delle sue numerose Opere, a dimostrazione della sua cultura letteraria, perciò acquista particolare rilievo il fatto che si rivolga con insistenza a D'Annunzio che sa leggere profondamente, abbagliato quindi dalla qualità della scrittura del Poeta e non solo dalla sua fama, conscio anche di "dover superare la musicalità dei versi d'annunziani" per non sacrificare la musica. L'avventura della grande Raccolta delle Musiche Italiche, cementò poi il rispetto reciproco, basato anche sull'amore della musica pre-romantica. "Bisogna penetrarne lo spirito per ritrovare le nostre origini" - scriveva nel 1920, in una lettera a Guido Maria Gatti, Gian Francesco Malipiero, riferendosi all’Orfeo di Monteverdi -"spero di riuscire a pubblicare le opere complete di questo grande musicista /.../ l’Orfeo è veramente un capolavoro e le edizioni che esistono sono delle infamie". Spetterà a Malipiero approfondire le origini della musica moderna, aderendo con curiosità a un'aura culturale che il magico mondo antico suscita, in primis quello veneziano, mostrando un gusto e una consapevolezza che lo qualificano in maniera del tutto differente da quella di altri musicisti a lui coevi. "Monteverdi, sostengo che nessuno lo conosce" -scrive a ragione Malipiero nel 1928 - "e la sua musica religiosa chi la conosce?" E l'anno seguente, rivolto ancora a Gatti, parla della "ignobile edizione di D'Indy" (10). La metodologia seguita da Malipiero si basa sul reperimento delle fonti: "ho raccolto tutti i documenti che illuminano la sua vita e ho cercato di tracciare una linea di Monteverdi come uomo e come artista" - scrive nel 1930, quindi nel 1935, rispondendo a delle critiche di Redlich, dice: "il dott. Redlich continua a deformare le opere monteverdiane sovrapponendovi contrappunti, anacronistiche istrumentazioni ecc./…/ io ho messo in opera tutte le mie esperienze per realizzare il basso senza togliergli il carattere di improvvisazione. Forse egli crede che non sarei stato capace di imbastardire i capolavori di Claudio Monteverdi con dei vaghi contrappuntini accademici. Le improvvisazioni sul basso venivano appunto improvvisate perché dovevano restare in secondo piano, umilmente, onde non soverchiare il canto." Un amore, quello per il Divino Claudio, vivo per tutta la vita, anche dopo la realizzazione dell'Opera omnia, come testimoniano anche le ultime lettere dove Monteverdi viene citato fino all'anno della morte di Malipiero. Malipiero ha effettuato numerose trascrizioni, come i Concerti per organo e archi o orchestra da Corelli, Domenico Scarlatti, Veracini, Tartini; inoltre Madrigali per orchestra da Monteverdi, e infine La Cimarosiana (1921), Vivaldiana (1952) e Gabriellana (1971). Fra le revisioni le Canzoni amorose di Bassani, La rappresentazione di Anima et di Corpo di de' Cavalieri, // Filosofo di Campagna di Galuppi (tutte revisioni realizzate nel 1919), La passione di Gesù Cristo di Jommelli (1919), venendo poi a Monteverdi con Orfeo (1923) e Combattimento di Tancredi e Clorinda (1931) e altre opere di Lotti, Benedetto Marcello, Stradella, Sarti, e altri ancora. Malipiero muore il 1° Agosto 1973. Nello stesso mese, Annibaie Gianuario lo ricorda in un Convegno al Centro Studi Rinascimento Musicale di Artimino, di cui Malipiero faceva parte, con una relazione - purtroppo introvabile perché fu stampata dal Centro in soli 200 esemplari - mettendo subito in risalto come gli studi di Malipiero fossero volti principalmente a ritrovare l'essenza fonico-semantica della creazione del Cremonese.

Malipiero e Gianuario

Ricorda Gianuario: "ci accingevamo nel lontano 1965 ad approfondire lo studio sull'Arte musicale del XVI e XVII secolo in genere e di Monteverdi in particolare e, dopo aver consultato e schedato tutto quanto era stato scritto sul grande Claudio, eravamo ragionevolmente pronti ad iniziare la vera e propria ricerca su quel periodo fascinoso e sull'artista eccelso. Un concetto ci aveva particolarmente colpito, un concetto espresso dal Prunières (vedi Henry Prunières, "La vie et l'oeuvre de C. Monteverdi", Paris 1924-1926; pagg. 7-8): "... En face de Zarlino, défenseur de la tradition, se dresse Vicentino dont le traité "L'Antica Musica ridotta alla Moderna prattica" (1555), fut le bréviaire des musiciens d'avant-garde" e ripreso con una punta polemica da Malipiero nel suo "Claudio Monteverdi" (Milano 1930): "II Monteverdi, senza né punto né poco rinunciare alle risorse infinite dell'intuizione, preferì seguire le teorie di Nicola Vicentino /. . ./, ma non si può dire per questo che il "Monteverdi disponeva male le parti"! /. . . / (cfr. op, cit. pagg. 26-27)". Fu questa la molla che fece scattare il congegno e ci portò a trascrivere i 5 libri del battagliero Don Nicola. L'approfondito studio di questa opera e la conoscenza dei teorici e pratici dell'epoca: Aaron, Agazzari, Artusi, Banchieri, Berardi, Bononcini, Bottrigari, Caccini, Diruta, Foliani, Peri, Lanfranco, Zacconi, Tevo, Zarlino, ecc. e soprattutto l'analisi dei concetti espressi nelle due lettere di Monteverdi del 1633 e 1634 (gli autografi si trovano presso la biblioteca del Conservatorio di Musica "Cherubini" di Firenze) ci consentivano una notevole apertura conoscitiva. Ed era questa maturata conoscenza che ci portava a collegarci con Colui che, molto prima di noi e lavorando su basi dedotte da una metodologia indubbiamente ancora lacunosa, era pur riuscito a sollevare il velo sul segreto della Seconda pratica monteverdiana. Il collegamento fu semplice, spontaneo e fortemente stimolante. Il carteggio stringato, essenziale e chiarissimo che ho avuto con Gian Francesco Malipiero doveva fugare le ultime perplessità circa una nuova interpretazione da dare alla semeiografia monteverdiana soprattutto riferita alle alterazioni." Proprio nel 1967 (anno della baraonda delle commemorazioni monteverdiane) usciva, per i tipi di Schweiwiller, il caustico Così parlò Monteverdi in cui Malipiero scriveva: "1967 sarà una gran festa per la musicologia e questa certamente mi farà la festa /.../ Non valgono nemmeno i documenti, il più importante è il libretto della "Proserpina rapita" di Giulio Strozzi, purtroppo la musica è andata perduta, ma in esso sono precisati i modi di ogni singola Aria, vale a dire il Frigio, il Lidio, il Missolidio e l'Eolio /... / Da trent'anni insisto pubblicando il fac-simile di queste importantissime testimonianze, ma è troppo comodo annullarle alterando gli accidenti che determinano appunto i modi ai quali gli elaboratori preferiscono le armonie care a Saverio Mercadante. È effettivamente essenziale definire il valore espressivo dell’ alterazione, sia per l'individuazione della modalità, sia per riconoscerne il genere. In Monteverdi l'alterazione valeva per la sola nota davanti a cui era posta, troppe pagine monteverdiane sono state lette male e da ciò è derivato un evidente appiattimento della tensione emotiva ed un impoverimento delle espansioni armoniche del continuo. "Questo dato di fatto che si desume quale corollario dalla esposizione di Malipiero" - dice Gianuario nella citata relazione commemorativa di Malipiero - "è stato il punto di avvio per una nuova impostazione da dare alla esplorazione dell'opera monteverdiana; nuova impostazione alla cui realizzazione il Centro Studi Rinascimento Musicale subito si accinse. Procedendo da una attenta disamina della prassi semeiografica dell'epoca, seguendo una serrata casistica prettamente monteverdiana e confortati dalle preziose affermazioni espresse da Malipiero nei Suoi scritti dal 1967 in avanti, a quarant'anni dalla pubblicazione maestosa dell'Opera Omnia, dovremmo oggi impegnarci tutti alla redazione di una edizione critica delle opere di Claudio Monteverdi. Scriveva Friedrick Blume nel saluto rivolto al Convegno di Siena del 28-30 Aprile 1967 (cfr. Rivista Italiana di Musicologia, Vol. II, Olschki, Firenze 1967): " tutti gli sforzi si basano ancor oggi su fondamenta oscillanti, perché ci manca un'Opera omnia critica e fedele alle fonti. L'edizione di Francesco Malipiero iniziò negli anni venti: nessuno misconoscerà i suoi grandi meriti, ed io posso attestare ancor oggi per mia propria esperienza, quale illuminazione essa sia stata allora, per noi / . . . / Quasi tutte le edizioni che conosco direttamente, contengono sbagli: errori di notazione, errori nel basso continuo, modifiche arbitrarie, ritocchi, ecc. ecc.".

L'argomento è rimasto di pressante attualità, occorre procedere al confronto delle diverse edizioni originali apportando alla monumentale Opera Omnia quelle precisazioni indispensabili alla determinazione indiscutibile del testo esatto. Gianuario fa l'esempio del Lamento d'Arianna monodico che esiste in un unicum del 1623 (Biblioteca dell'Università di Gent) la cui stesura non trova esatta corrispondenza con quello contenuto nell'Opera Omnia (nel citato saggio Modalità e realtà fonetica nel "Lamento di Arianna" Gianuario ha svolto riflessioni sostanziali); altro esempio può essere quello dell’Orfeo di cui esistono due edizioni originali del 1609 e del 1615, fra le quali non vi sono differenze degne di nota, mentre l’Orfeo di Malipiero (come tutte le edizioni moderne) ha una stesura che sembra esser stata redatta sulla scorta di un esemplare del 1615 (Biblioteca di Wroclaw - Polonia) nel quale furono apportate correzioni a mano visibilmente apocrife. Procedendo ad un auspicabile perfezionamento della conoscenza di Monteverdi, ci si trova di fronte al rinnovato problema del continuo; e su questo tema la musicologia ufficiale segna ancor oggi il passo, irretita com'è in cognizioni inesatte della tecnica armonica dell'epoca. "Il continuo era certamente un semplice sostegno alla espressione verbale (in caso contrario l'autore lo avrebbe realizzato)" — precisa Gianuario - "e può darsi che fosse da improvvisare. Comunque è solare che l'Armonia del Cinqueseicento era molto più ricca e complessa di quanto per strana ed inveterata consuetudine si continua a credere, basando i giudizi sulle realizzazioni del Settecento e sulla non conoscenza della Seconda pratica che è una luminosa parentesi fra il mondo contrappuntistico che si dissolve e l'instaurarsi di una estetica che avrà le proprie assisi nelle formule della regola d'ottava e nella pararmonia con la completa perdita della individuazione fonico-semantica della espressione verbale". È necessario allora procedere ad un completo riesame della praxis compositiva dei Marenzio, Mazzocchi, Peri, Caccini, Luzzaschi, Frescobaldi, Da Venosa". La tendenza ad adagiarsi nel comodo servizio di revisione, rielaborazione, ecc., che ha portato alla deturpazione del volto sublime dell'Arte monteverdiana è stata smascherata per primo da Gian Francesco Malipiero che rimane lo scopritore più valido dell'Arte monteverdiana, ma occorre, ora, ristudiare attentamente anche gli scritti di Gianuario e quanto il Centro Studi Rinascimento Musicale ha pubblicato per far sì che fiorisca la conoscenza completa del grande Claudio.

Indispensabili sono le realizzazioni canore di Nella Anfuso che di tutti gli studi, molti realizzati da lei medesima in una serie stupefacente di compct-disc, fa tesoro e mette in pratica correttamente, perseguendo la verità storica della grande scuola di Canto italiana. Purtroppo oggi più di prima, seppur in una situazione diversa, bisogna combattere ciò che Malipiero chiamava "i raddrizzatori di musica antica"; le conoscenze sono ben maggiori a livello storico, estetico e tecnico, ma troppo spesso vengono utilizzate male, cinicamente piegate a interessi personali. I continui fraintendimenti messi in opera dalla early music derivano solo in parte dall'ignoranza, principalmente sono realizzati di proposito, seguendo una logica commerciale (basterebbe pensare all'uso improprio del falsettista, alla ridicola pronuncia della parola e al ruolo del direttore d'orchestra, inesistente all'epoca di Monteverdi). È necessario un richiamo alla correttezza, se non si vuole correre il rischio, davvero irrimediabile, della scomparsa della grande Scuola di canto italiana. Occorre lavorare sui documenti musicali, seguendo la linea della grande Scuola, purtroppo oggi misconosciuta per ignoranza o per interesse; fra questi documenti ce ne sono di importantissimi che possono guidare ogni cantante coscienzioso. La speranza è che si recuperi, con onestà e rigore, la grande tradizione italiana di canto, fornendo così un indispensabile punto di riferimento per studiosi e studenti, analizzando e relazionando i fatti musicali con quelli culturali e specialmente estetici, difendendo ciò che Monteverdi chiamava il giusto.

Renzo  Cresti

NOTE

  1. E noto come il "meravigliare" sarà proprio della concezione manieristica e ancor più barocca dell'arte, per la quale diventa essenziale commuovere, dilettare, persuadere, legandosi alla Retorica classica. Va ricordato, onde evitare interpretazioni errate, che il termine "maniera" indica, nel Cinquecento, il modo di essere, per cui ogni artista ha la sua maniera, il suo stile. E che "Barocco" è una definizione di comodo che non va equivocata.

  2. D. Bertoldi — R. Cresti, Per una nuova Storia della Musica, III vol., Eximia Forma, Roma 1994.

  3. Cosa dobbiamo intendere per studio basato sull'estetica? Una ricognizione sui caratteri scientifici ed artistici di un lavoro, mentre va curato contemporaneamente l'approfondimento dell'analisi dei caratteri poetici del lavoro stesso, intendendo per poetico il carattere della struttura espressiva di esso, per esempio la Camerata dei Bardi, Monteverdi e tutti i cultori della Seconda pratica seguono la concezione estetica di Platone; non dimentichiamo che Firenze fu uno dei centri più importanti del neo-platonismo rinascimentale (Marsilio Ficino, nel 1460, vi tenne l'Accademia Platonica). Purtroppo la storia della musica ha inteso gli affetti nell'accezione romantica dei sentimenti e così la Seconda pratica è diventata sempre più un'arte dell'affresco sonoro. Questi errori possono essere evitati studiando attentamente l'estetica, uno studio invece del tutto disatteso sia nei Conservatori, sia nelle Università, sia nei Corsi di canto.

  4. A. Gianuario, La monodia di Giulio Caccini, la sua realtà Artistica e le manomissioni in atto. Rivista II Pasquino musicale, anno II, nn. 5/6, Lucca 1992.

  5. C. Colvin, La musica dei Gonzaga, TEA, Milano 2000.

  6. A. Gianuario, Saggio musicologico al CD Stilnovo SN 8813, Nella Anfuso Parlar cantando I.

  7. A. Gianuario, Modalità e realtà fonetica nel "Lamento d'Arianna" di Claudio Monteverdi, Centro Studi Rinascimento Musicale, Artimino 1999.

  8. Cfr. CD Stilnovo SN 8806, Nella Anfuso Il canto figurato da Mozart a Bellini.

  9. Cfr. Primo Levi, in "Nuova Antologia", anno XLVI, Maggio 1911.

  10. Cfr. G. F. Malipiero il carteggio con Guido Maria Gatti, 1914-1972, Leo S. Olschki, Firenze anno 1997.

 

 

Home S.O.S. Estetica Il  Sorriso Lull L' e(ste)tica La Voce Umana The Camerata Madrigaux Malipiero L'Intellettuale Montisviridi VEHEMENCE Masterclass Monteverdi Museum Chassez Poppea In Memoriam Su "L' Alternato" Corpus E-MAIL