Il 1967 è passato alla storia della musicologia commemorativa come l'anno monteverdiano
tante furono le iniziative messe in atto per «commemorare» il quadricentenario
della nascita del Cremonese e tanti furono gli spunti che portarono un po' tutti
ad eseguire Monteverdi ed a scrivere su Monteverdi.
Tanto fu l'ardore di neofiti dell'ultim'ora e di incalliti patiti della
revisione e della elaborazione ad ogni costo che quel bel musicista e sincero
studioso di Monteverdi che fu Gian
Francesco Malipiero, non esitò a pubblicare, per i tipi di Vanni Scheiwiller
di Milano, quello stupendo «Così parlò Claudio Monteverdi» che
dovrebbe essere la voce della coscienza di chiunque si dovesse
accingere a revisionare o elaborare la musica del XVI e XVII secolo.
Conviene riportare qui un passo significante di quell'opuscolo scritto da
Malipiero che immagina di essersi messo in
contatto, per vie medianiche, con il divino Claudio
che così, medianicamente, si esprime :
«... L'anno 1967 sarà il mio anno, il secondo di questo XX secolo. Nel 1943,
terzo anniversario della mia morte, la guerra mi risparmiò, troppi morti si
dovevano sotterrare quotidianamente per dissotterrare uno che fece
intervenire Arianna per implorare che lo si lasci morire.
Tutti piansero allora.
Il 1967 sarà una gran festa per la musicologia e questa certamente mi farà
la festa, eppure ci vorrebbe molto poco per riammettermi com’ ero nel
consorzio di quei musicisti che parlarono un linguaggio nuovo, ma chiaro e
graficamente ebbero sempre a propria disposizione il segno corrispondente al
suono desiderato...».
Si può concludere questa
citazione della pubblicazione di G. F. Malipiero con questo successivo passo:
«Un mio
compagno di scuola
(scrive Malipiero), deciso a diventare un gran chirurgo guardava tutta
l'umanità con occhio
amoroso perché ogni essere umano egli lo immaginava sulla tavola operatoria,
sotto i suoi ferri. La presenza di una
malattia non era necessaria, bastava quella di un corpo da scorticare e in
questo fu un precursore degli specialisti raddrizzatori di musica antica,
persino di quella che va dritta al cielo e appunto perché pochi riescono a
seguirla, per comodità le tarpano le ali».
Questo è quanto porta a ricordare, non senza un senso di doloroso umorismo,
musicologicamente e commemorativamente il 1967 anno di grazia in cui Monteverdi fu condito in ogni salsa per una abbuffata generale di madrigali,
genere rappresentativo, «recitar cantando» e musica sacra.
Le spese maggiori le fecero il «Combattimento di Tancredi e Clorinda», il «Ballo delle Ingrate»,
il «Vespro della Beata
Vergine» e, soprattutto, l’«Orfeo». Tanti e tanti
portarono il proprio contributo, non certamente disinteressato, alla grande «Kermesse» del 1967; le revisioni
e le elaborazioni si sprecarono. Tanti cantanti si cimentarono con il... racconto
della Messaggera, con il canto di Orfeo senza avere mai saputo cosa
fosse il trillo, il gruppo,
ecc., da parte strumentista senza tener conto che le stonature si sentono
anche... nei cornetti.
Ad onor del vero bisogna riconoscere che il più delle volte si risolse la
difficoltà di trovare viole da braccio e da gamba, chitarroni e liuti con...
l'orchestra sinfonica.
Né mancarono i Madrigali a 4 e 5 voci eseguiti da complessi di 30 e passa
elementi, naturalmente sprovveduti, come i solisti, della tecnica, peraltro
difficilissima, del «parlar cantando», del «cantar parlando» e del «cantar
di garbo» (ciò è ovvio poiché i programmi dei Conservatori di musica non contemplano queste
discipline!).
Si arrivò, perfino e, sullo slancio e quasi per forza d'inerzia, si arriva
ancora, a correggere il testo dello Striggio («Orfeo»)! E' facilmente documentabile la
sostituzione di «Permesso amato» con «Parnasso amato» forse sol perché
qualche revisore, elaboratore e direttore d'oltr'Alpe ha potuto rimanere perplesso di fronte a questo «Permesso» traducibile (sic) con «erlaubt» o con «durfen» indubbiamente vocaboli troppo lontani dall'ambiente in cui agiscono la Musica, Euridice ed Orfeo
!
Basterebbero però, poche nozioni di mitologia per appurare che il «Permesso» era il fiume delle
...Muse! Senza contare che, foneticamente, «Parnasso» con la precisa notazione monteverdiana, è stonato; la movenza musicale non può che «pronunciare» «Permesso», ma indubbiamente qui entriamo in un
contesto estetico e culturale con cui non è facile aver dimestichezza specie se si
proviene dall'operismo ottocentesco e si ignora cosa sia stata la Seconda Pratica musicale.
Passiamo oltre che, altrimenti, si andrebbe troppo lontano dal tema di questo
breve scritto e torniamo ai Caccini per i quali (precisamente per la
Francesca) si avvicina minaccioso il 1987 quadricentenario della nascita.
Attualmente, difatti, viviamo un momento magico del revival della
musica ....antica.
E se da un lato ciò è altamente positivo e non possiamo che
rallegrarci di questo desiderio, specialmente nei giovani, di ritorno alle copiose e
meravigliose fonti del nostro grande passato musicale, da un altro lato è preoccupante il
fatto che ci si possa avvicinare a quei irripetibili capolavori senza una accurata
preparazione specifica sia culturale che tecnica. Si parla molto, oggi, di Giulio Caccini
e si incomincia a parlare anche molto della Francesca Caccini e già si notano le prime
avvisaglie di... festeggiamenti vari che rischiano di far la festa a questi
magnifici artisti di Casa Bardi e della Firenze medicea.
Crediamo opportuno perciò, suffragati da una ricerca e da uno studio
approfondito da anni di verifiche e di confronti a livello di Docenza con la seria
musicologia internazionale e durante Convegni e Rassegne che giungono quest'anno alla
loro IV e V edizione, mettere in guardia da mistificazioni e dare alcune notizie
di base, con adeguata documentazione, sulla realtà artistica della Monodia Italiana
del XVI e XVII secolo, in generale, e di Giulio Caccini, in particolare.
E' un breve scritto che si rivolge soprattutto ai giovani ed a quanti si
apprestano ad avvicinarsi in umiltà di intenti alla stagione più
affascinante dell'arte che, realizzando l'ascolto della Poesia, crea la Musica al di là di ogni
costruzione sonora, alla stagione che vide fiorire la grande polifonia espressiva di
Gesualdo da Venosa e di Claudio Monteverdi e la grande monodia di Jacopo Peri e di Giulio
Caccini.
E' uno scritto, anche, e non potrebbe essere diversamente, che vuole
essere informativo e formativo; formativo, cioè, di una coscienza del conoscere senza la quale si rischia di rimanere impaniati in un nozionismo
velleitario che è frutto di citazioni fuori luogo e di deduzioni,
ovviamente, erronee.
Si parla, ad esempio, di Monodia del XVI e XVII secolo e si vorrebbe
inquadrare in essa l'arte della «Diminuzione» che è, invece, frutto di una tecnica della
improvvisazione virtuosistica propria di un periodo, ben preciso, della polifonia ; si parla
di «recitar cantando» (e qui si tocca in prima persona i Caccini ed il Peri) e nello
stesso tempo si parla sempre di «Diminuzioni» da comporre su Madrigali ed Arie
di Giulio Caccini, dimenticando che Caccini scrive egli stesso i «Passaggi» (non
«diminuzioni») e dichiara perentoriamente che pubblica le sue «Nuove Musiche»
(di cui esistono in commercio edizioni in notazione moderna con riproduzione anastatica dell'originale, uscite in questi ultimi anni), perché troppe sono
le manomissioni da parte di sprovveduti (ogni epoca ha i suoi!) di cui soffrono
le sue musiche.
Ecco qui un esempio di informazione sbagliata, che porta a varie
conseguenze facilmente intuibili e che forse decorre da voci di enciclopedie
non certo compilate con il necessario rigore storico.
Non possiamo non
sottolineare le assurdità estetiche e tecniche avanzate, proprio in riferimento a Giulio
Caccini, da A. Schering in «Geschichte der Musik in Beispielen», Lipsia 1931, pag.
193-197, a proposito di «Amarilli» (ed. 1601). Evidentemente sia lo
Schering,
sia (e questo è più grave ancora) chi ha portato ed avallato il pensiero della elaborazione
delle diminuzioni,
martoriando la bellissima pagina cacciniana, non hanno letto
la «prefazione» scritta da Giulio Caccini per le «Nuove Musiche» (1601) e se l'hanno letta, indubbiamente non l'hanno intesa; duro destino quello di «Amarilli» che dopo le elaborazioni del Parisotti e del Perinello ha dovuto soffrire anche
l'offesa storico-estetica inflittale dallo Schering.
Non è il caso, qui, di scendere in polemica con
chi ha riportato, magnificandone gli esiti, tale bruttura interpretativa ;
è più edificante riprodurre il passo della « prefazione » del Caccini sicuri che
l'intelligenza dei lettori saprà far piazza pulita delle evidenti incongruenze di
revisori ed
elaboratori affrettati :
« Ai lettori. . (al settimo rigo della
prefazione
nell'originale del 1602)
Ma ora veggendo andare attorno molte di esse
(musiche) lacere e
guaste, et inoltre malamente adoprarsi quei lunghi giri di voci semplici e doppi, cioè
raddoppiate,
intrecciate l'una nell'altra, ritrovate da me per isfuggire quella
antica maniera di
passaggi che già si costumarono,
più propria per gli strumenti di fiato e di corde che per le voci, et
altresì usarsi indifferentemente il crescere o scemare della voce, l'
esclamazioni, trilli e gruppi, et altri cotali ornamenti alla buona maniera
di cantare; sono stato necessitato et anco mosso da amici, di far stampare
dette mie musiche...».
Caccini, dunque, dà alle stampe le sue musiche perché troppi sono coloro
che per ignoranza o altro vanno guastando le sue opere con passaggi incongrui
e, poiché l'arte del canto non patisce la mediocrità, egli dà tutti i ragguagli
possibili sia dal punto di vista estetico sia dal punto di vista prettamente tecnico.
Ma quanti sono,
oggi, coloro che hanno letto con attenzione le 9 pagine di questa « prefazione »,
vero trattato di interpretazione e di esecuzione vocale? Ben pochi; e quanti
ne hanno
recepito i contenuti?
Purtroppo pochissimi !
In caso contrario non leggeremmo tutte le
castronerie che da circa un secolo si vanno scrivendo su l'argomento CANTO e, soprattutto, non si assisterebbe allo scempio che si va perpetrando ai danni
di grandissimi artisti in cambio di cinque minuti di un
briciolo di notorietà
acquisita con la mistificazione e giocando sulla buona fede di ascoltatori ignari.
Si parte sempre da quel grossolano falso ideologico che nasce da deduzioni
assurde propiziate da «Le origini del Melodramma» di Angelo Solerti
(Torino 1903) che riporta vari documenti pur chiarissimi riuscendo a presentarli in maniera tale da
istradare ogni deduzione su binari assolutamente pericolosi a percorrere; binari su cui si
sono lanciati i convogli del nozionismo di maniera tutto XIX e XX secolo; e
questo nozionismo trova accoglienti palestre su tante, troppe enciclopedie
compiacenti.
Quanto la Musica deve invidiare le consorelle Poesia, Pittura, Scultura ed
Architettura ! Tutte sono viste d'acchito sotto la loro vera luce e nella
loro realtà artistica; la Musica, no ; deve soggiacere all'estro interpretativo di questo
o quell'esecutore! Mettere i mutandoni alla Venere del Botticelli, è reato ;
mettere la pipa in bocca al Mosè di Michelangelo, è reato; costruire tettoie e canaloni sul
Campanile di Giotto, è reato ; ma chiunque può deliberatamente... «diminuire» i Madrigali di Caccini; anzi si rischia anche di essere lautamente premiati!!!
Quanto pressapochismo vi sia nel riportare un documento essenziale quale la
«prefazione» alle «Nuove Musiche» di Giulio Caccini, lo
si nota nella stesura del Solerti che ignora completamente le dimostrazioni musicali
dell'Autore e
liquida le 5 pagine di esempi profondamente tecnici con {seguono alcune
righe di musica} (vedi : «Le origini del
Melodramma» cit., pag. 55-71).
Eppure l'opera del Solerti viene citata a documentazione sicura in varie voci
di varie enciclopedie.
Ovvio che,
poi, qualcuno parta deciso, a elaborare e
«diminuire» Madrigali, Arie e «Genere rappresentativo» !
Eppure Giulio Caccini è assolutamente preciso nell'indicare ciò che
realmente vuole in fatto di interpretazione, di esecuzione vocale e di realizzazione del
basso continuo nella sua Musica.
Difatti scrive: «... così ne madrigali come nelle arie, ho sempre
procurata
l'imitazione de i concetti delle parole.. . » « E perché negli
ultimi due versi sopra le
parole "Ahi dispietato amor", in aria di romanesca e nel
madrigale appresso "Deh,
dove son fuggiti", sono dentro tutti i
migliori affetti, che si possono usare intorno alla nobiltà di questa
maniera di canti, gli ho voluti perciò descrivere; sì per mostrare dove si
deve crescere e scemare la voce, a fare esclamazioni, trilli e gruppi, et in
somma tutti i tesori di quest'arte... ».
Chiaro che Caccini ha scritto nelle sue musiche tutto quanto andava eseguito,
«passaggi» compresi, ed ha dato anche tutte le indicazioni
tecniche di come e dove tutto andasse eseguito. Pertanto errerebbe (come hanno errato
grossolanamente
lo Schering, il Parisotti, il Perinello e quanti hanno pensato di "diminuire"
— usando tra l'altro un termine inesatto se riferito a Caccini e alle «Nuove Musiche»,
«Fugilozio» e «Euridice») chi pensasse di aggiungere una sola nota a quelle
scritte dall'Autore.
Occorre
assolutamente, invece, saper eseguire le «esclamazioni affettuose»,
il «trillo» o nota ribattuta, la «ribattuta
di gola», la «cascata scempia», la «cascata doppia», il «gruppo»,
l'«esclamazione
spiritosa», lo «scemar la voce», l'«accrescer la voce», la «sprezzatura».
Ma questi sono
elementi di altissima tecnica e non certo riconducibili ad una avveniristica e velleitaria prassi
elaborativa.
E quanti sono oggi i cantori e le cantatrici capaci di eseguire il vero
Caccini? Non certo quelli «made» in opera lirica !
In quanto, poi, alla realizzazione del continuo
c'è ben poco da voler elaborare poiché è impensabile un qualsiasi movimento anche
larvatamente contrappuntistico nelle parti intermedie strumentali sul basso.
Non esisterebbe più l'espressione degli affetti né la voce avrebbe modo
di cesellare il canto e far «sprezzatura»; bisognerebbe eseguire a metronomo e ciò non
sarebbe più il «recitar cantando», terminologia, oggi, fin troppo e malamente
adusata ed abusata.
A proposito di proprietà esecutiva ed interpretativa riferita, anche, alla
prassi ed allo stile del XVI e XVII secolo, valga quanto scrive il Rognoni, nel 1620
(« Selva de
varii passaggi »), negli AVVERTIMENTI AI CANTANTI:
« Sendo che la Vaghezza del canto principalmente consiste, nell'
esprimer e
bene, et distintamente la parola che si canta... Perciò che non essendo
altro la voce, articolata che l' in strumento d' esplicare il concetto dell'anima che la parola, vedano loro sij in
maggior consideratione l'instrumento con che si fa una cosa, o pure l’istessa
parola che si canta. S'hanno ancora a guardare da passaggi sopra parole significanti
doglia, affanni, pene, tormenti, et simili cose, perché invece de passaggi, s’ usano fare
gratie, accenti, et esclamationi, scemando hor la voce, hor accrescendola, con movimenti dolci, e soavi, et tal'hora
con voce mesta, et dogliosa, conforme il senso dell'oratione.
Ne è lodevole ciò ch'oggidì molti cantanti abusano quali havendo un
puoco di dispositione naturale, ancorché facciano passaggi senza termine, et regola
non fanno nondimeno altro che gorgheggiare sopra tutte le sillabe, mandando in si
fatta guisa in ruina del tutto l'armonia, dal che ben si scorge che non hanno imparato
buone
regole da buoni maestri. Et il suddetto errore si trova anco ne i suonatori
»
(questa precisazione finale è dovuta al fatto che la « Selva de varii
passaggi » di Francesco Rognoni tratta della tecnica per vari strumenti, oltre che per
la voce).
Ma, come si è già visto, questi dotti e cordiali avvertimenti sono
superati, per quanto specificamente attiene alla musica di Giulio Caccini, dal fatto
incontrovertibile che non consente scappatoie di comodo e fuga ogni dubbio :
Caccini scrive
tutto quanto è da farsi, in chiaro, e quando non segna trilli, esclamazioni,
gruppi, ecc., ha già indicato negli esempi della «prefazione» quando, dove, e come
vadano messi in atto
«tutti i tesori di quest'arte... per non essere necessitato altra
volta a dimostrar ciò in tutte le
opere che appresso seguiranno: et accioché servano per esempio in
riconoscere in esse musiche i medesimi luoghi, ove saranno più necessari secondo
gli affetti delle parole; avvenga che nobile maniera sia così appellata da me
quella che va usata senza sottoporsi a
misura ordinata, facendo molte volte il valor delle note la metà meno
secondo i concetti delle parole, onde ne nasce quel canto poi in sprezzatura,
che si è detto;».
Come si vede Caccini parla sempre dei «tanti
effetti da usarsi per l'eccellenza de essa arte», ma non tocca mai l'argomento «passaggi» poiché i passaggi (che molti erroneamente
chiamano «diminuzioni») — sono parte integrante dell'espressione compositiva di Giulio Caccini e quindi non sono avocabili al proprio estro
peregrino da nessun pur intraprendente elaboratore. Far ciò che ha fatto lo
Schering è vera e propria manomissione di opera d'arte; è esattamente come
porre baffi e barba alla Gioconda di Leonardo da Vinci ! Come vero e
proprio incitamento a manomettere i Madrigali di Caccini sarebbe il proporre di
«diminuire» (sic) la «Melodia» nelle sue composizioni.
Se poi si pensi che Caccini specifica che «egli (il cantore) deve
cantar solo sopra chitarrone, o altro strumento di corde...», appare
chiaro quanto sia velleitario, antistorico ed antiestetico, oltre che interpretativamente e tecnicamente condizionante, il tentare accompagnamenti,
ed... orchestrazioni sia pur nobilitati dalla presenza di strumenti dell'epoca,
presenza indubbiamente non desiderata da Giulio Caccini; e questi tentativi,
frutto di tentazioni culturalmente peccaminose, non sono mancati e non mancano,
con l'unico risultato di travisare completamente il pensiero e l'estetica da cui
nasce e su cui poggia l'arte eccelsa di Giulio Caccini.
E' interessante rendersi conto di come si sia giunti, da parte di certa
musicologia, a tanta incomprensione ed ai conseguenti travisamenti non soltanto
della musica di Caccini, ma, copiosamente, di tutta la musica di Seconda
Pratica, decorrente, esteticamente, dalle tre forme distinte da Platone (imitativa,
narrativa semplice, drammatica) e basata sulla realizzazione della « Melodia
», sempre in senso platonico (Orazione, ritmo e armonia, in cui ritmo ed
armonia sono determinati dalla scelta delle parole della orazione
in espressione emotiva). Non staremo, qui, a dilungarci in disquisizioni che
porterebbero lontano ed esulerebbero dal fine di schietta sollecitazione a non
prestar fede alle varie manomissioni che avviliscono creazioni artistiche
magistrali, a cui tende questo semplice S.O.S.; crediamo più utile ed immediato
riportare quanto scrive Monteverdi a proposito della Seconda pratica musicale
:
«Melodia, overo seconda pratica musicale. Seconda (intendendo io)
considerata in ordine alla moderna, prima in ordine all'antica .. . Vado
credendo che non sarà discaro al mondo posciache ho provato in pratica che
quando fui per scrivere il pianto di Arianna, non trovando libro che mi aprisse
la via naturale alla imitatione ne meno che mi illuminasse che dovessi essere
imitatore, altri che Platone per via di un suo lume ...»
(lettera del 22
ottobre 1633, verosimilmente al Doni; Firenze, Biblioteca « L. Cherubini ») ed
ancora :
«... lascio lontano nel mio scrivere quel modo tenuto da Greci con parole
e segni loro, adoperando le voci e gli carateri che usiamo ne la nostra pratica;
perché la mia intentione è di mostrare con il mezzo de la nostra pratica
quanto ho potuto trarre da la mercé di que' filosofi a servitio de la bona
arte, et non a principii de la prima pratica, armonica solamente...»
(lettera del 2 febbraio 1634, verosimilmente al Doni; Firenze, Biblioteca « L.
Cherubini »).
Né possiamo dimenticare la lettera allo Striggio (9 dicembre
1616; Mantova, Archivio Gonzaga, autografi, lettere del Monteverdi), nella quale
fa esplicita differenza fra il parlar cantando, il cantar parlando
ed il cantar di garbo, ascrivendo il primo alla realizzazione di « Arianna
» ed « Orfeo » ed il secondo e terzo ad una realizzazione che può
inquadrarsi nel carattere compositivo dell’ « Intermedio ».
Per semplice e seria deduzione è logico vedere nell'«Arianna»
e nell’«Orfeo» la realizzazione della Melodia nella
parola modulata e quindi della Seconda pratica musicale.
Ed è evidente, anche, che la Seconda pratica non sia da considerarsi
come espressione monodica soltanto, ma come prassi musicale che si esplica
ugualmente nella Polifonia; tanto è vero che G. C. Monteverdi indica
quali artisti di 2a pratica, Cipriano de Rore, Marenzio, il
Principe Gesualdo da Venosa (polifonisti), Giulio Caccini, Jacopo Peri (monodisti)
(vedi «Dichiarazione» apparsa nel 1607 negli «Scherzi Musicali»).
E', inoltre, poco esatto considerare la Seconda pratica quale fatto
artistico in cui «la parola s'immedesima con la musica determinandone il
carattere espressivo, ne costituisce l'anima, le dà l'accento», ed è
poco esatto perché si pone sempre così un rapporto fra emblema sonoro ed
emblema letterario, mentre la Seconda pratica, alla luce di quanto
scrivono gli artisti e letterati di Casa Bardi e Claudio Monteverdi, è la
realizzazione notizzata di quella unicità poesia-musica che è alla base
della ricerca umanistico-rinascimentale che anima il Galilei, Caccini, Peri,
Chiabrera, Rinuccini, Monteverdi, ecc. per cui la parola viene assunta nella sua
funzione totale significante, sonora e dinamica. Ed è questo il « recitar
cantando » dei Fiorentini o il « parlar cantando » di Monteverdi
cioè il ritorno alla concezione platonica della espressione fonetica del
pensiero, in contrapposizione ad una costruzione armonica in cui la parola sia
la suscitatrice di una atmosfera emotiva attraverso il proprio significato
assumendo non il ruolo di protagonista, ma quello di ancella. Ed è ciò,
appunto, che Caccini (torniamo ovviamente a lui) non vuole perché, come egli
scrive :
«... convinto .. . ad attenermi a quella maniera cotanto
lodata da Platone et altri filosofi, che affermarono la musica altro non essere
che la favella e il ritmo et il suono per ultimo, e non per lo contrario, a
volere che ella possa penetrare nell'altrui intelletto e fare quei mirabili
effetti che ammirano gli scrittori, e che non potevano farsi per il contrappunto
nelle moderne musiche (contrappunto di 1a pratica) ... ».
Siamo cioè alla ricerca della verità espressiva in contemporaneità di
concetto, andamento dinamico e suono emotivo; e Monteverdi (9 dic. 1616) scrive:
«L'Arianna mi porta ad un giusto lamento et l'Orfeo ad una giusta
preghiera, ma questa (si tratta delle « Nozze di Tetide », adatta, dirà
Monteverdi, per un « Intermedio ») non so a qual fine...».
Vi è ancora qualcosa da notare con particolare attenzione ed è la dizione
«genere rappresentativo» o «stile rappresentativo» che non
è da intendersi quale spettacolo in scena. Ciò è molto importante poiché
anche l’ «Intermedio» andava in scena, ma non era «stile
rappresentativo», «Stile rappresentativo» è essenzialmente
uguale a recitazione, a dire. Da qui il termine «Favola
rappresentata in musica», cioè, dramma, azione drammatica, recitata,
detta, parlata in musica e, quindi, recitar cantando o parlar
cantando; mai cantar parlando. Ed è da questo bisticcio che nasce
quella grande mistificazione che è il confondere assurdamente lo «stile
rappresentativo», il parlar cantando di ,«Arianna», «Euridice», «Orfeo» con l'Opera o il Melodramma che sono
spettacoli musicali nei quali si canta, decorrenti, cioè, dagli «Intermedi» in cui si attuava il cantar parlando ed il cantar di garbo.
Illuminante è quanto scrive a G.B. Doni nel 1634, Pietro de' Bardi Conte di
Vernio a proposito dello «stile rappresentativo» che, molto
gratuitamente, il Solerti (al quale faranno passivamente eco molti, troppi,
musicologi) riporta come testimonianza sull'origine del melodramma (cfr. A.
Solerti, op. cit., pag. 143-144-145-146-147).
«...col ritrovare l'antica musica, ...di migliorare la musica moderna,
e levarla in qualche parte (il canto a solo) dal misero stato, nel
quale l'avevano messa principalmente i Goti, dopo la perdita di essa, e delle
altre scienze e arti più nobili. Perciò fu egli (V. Galilei) il primo a
far sentire il canto in stile rappresentativo (il lamento del Conte Ugolino
di Dante cantato su "un corpo di viole esattamente suonate")...
Era allora nella camerata di mio padre (Giovanni Bardi) Giulio Caccini,
d'età molto giovane, ma tenuto raro cantore, .. .il quale sentendosi inclinato
a questa nuova musica... cominciò a cantare sopra un solo strumento varie
ariette, sonetti e altre poesie, atte ad essere intese, con meraviglia di chi lo
sentiva... La prima poesia, che in istile rappresentativo fosse cantata in
palco, fu la "favola di Dafne"...».
Ecco dunque il punto di rottura in tutta la sua evidenza; lo «stile
rappresentativo» non è tale perché sia determinatamente scenico e quindi
fatto di spettacolo, ma perché rappresenta, modulando emotivamente la
voce, gli affetti. Siamo molto lontani, perciò, dal melodramma e dall'
operismo e siamo lontanissimi da un canto virtuosistico fine a se stesso nel
quale e per il quale si possano inventare «diminuzioni»,
accompagnamenti elaborati e... orchestrazioni.
Circa l'incompatibilità della espressione verbale con le «diminuzioni» e con i «passaggi» indiscriminati (per tale ragione il Caccini
notizza tutto ciò che, in fatto di «passaggi», vuole sia eseguito),
valga quanto egli specifica ancora (riferito a esclamationi, trilli, gruppi,
ribattuta di gola, scemar di voce, che vedremo) : «quei mirabili
effetti ... che non potevano farsi... nelle moderne musiche : e
particolarmente cantando un solo sopra qualunque strumento di corde, che non se
ne intendeva parola per la moltitudine di passaggi, tanto nelle sillabe brevi
quanto lunghe ...» (ma questo, lo Schering, e quanti hanno redatto voci di
enciclopedie che ad esso si rifanno, non lo hanno letto con la dovuta attenzione
! ).
Si potrebbe continuare con citazioni del Vitali, Della Valle, Peri,
Brunelli,
ecc. ; ma si reputa più utile e dimostrativo riportare gli esempi che Giulio
Caccini scrive affinchè valgano per tutti i luoghi simili (oltre, cioè, ai «passaggi» sempre scritti in chiaro); vedi, ad esempio, quanto egli scrive nella quarta
pagina della «prefatione» alle «Nuove Musiche» (1601):
«Ma
perché molte sono quelle cose, che si usano nella buona maniera di cantare... mi faranno ora dimostrare prima, in che guisa è stato descritto da me il
trillo et il gruppo... il trillo, descritto da me sopra una corda sola...
perché... non ho osservato altra regola che la stessa nella quale è scritto...
».
Prima di riprodurre gli esempi di Giulio
Caccini, esempi che, come tutto
quanto da lui esattamente spiegato, non ammettono nessuna peregrina
interpretazione, è opportuno spendere, qualche parola su ciò che è monte di
qualsiasi processo tecnico-esecutivo atto a permettere una esatta ed
artisticamente qualificata realizzazione della Monodia Italiana del periodo che
va dal XVI al XVII secolo, in genere, e cacciniana in particolare, cioè l’
EMISSIONE DELLA VOCE.
Tre sono le terminologie che ricorrono con assoluta insistenza: respirazione
diaframmatica, cantar sul fiato e portare in maschera. Quanti sono coloro, oggi,
che sanno effettivamente cosa queste locuzioni significhino realmente?
Indubbiamente pochi; in caso contrario non si ascolterebbero tante voci calanti
e cariche di battimenti, tante voci fisse e crescenti, tante voci che non portano
ed esauriscono il proprio potenziale a pochi metri nonostante il gran pigiare
sul diaframma, tante voci con una dizione impossibile.
Tutto, invece, è molto semplice seppur di difficilissima attuazione:
non bisogna spingere sul diaframma, ma curare una respirazione profonda sotto
il diaframma, occorre emettere il fiato e su di esso produrre il suono, bisogna
che il suono si formi molto avanti, oltre le labbra; solamente in tal modo
(senza ingoiare e senza tubare) si può ottenere quella omogeneità in tutta la
gamma senza la quale emergono vari registri che condizionano l'espressione
vocale al punto da determinare quella antiestetica ed antilogica
caratterizzazione del personaggio attraverso la voce che è frutto dell'
Ottocento operistico che ha dimenticato tutto del «bel canto». E
non è con siffatte voci condizionate e condizionanti che si può lontanamente
pensare di eseguire Caccini, Peri, Monteverdi, Luzzaschi, ecc. senza andare a
scomodare, altresì, i grandi specialisti della «diminuzione», fine
'500 e primi '600, né i virtuosi dell'«Ars Nova» fiorentina.
Concludiamo con la riproduzione della esemplificazione voluta da Giulio
Caccini, sicuri di far cosa gradita ed utile a chiunque si interessi di
vocalità italiana dei secoli d'oro e, «... Fia testimonio al ver che la
dispensa».
Oltre a ciò non credo ci sia altro da dire; tutto è molto chiaro e per
rendere effettivamente ciò che Giulio Caccini desidera sia reso, non occorre
che intelligenza, tenace volontà di apprendere e molta umiltà.
Artimino, giugno 1979
Annibale
Gianuario