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4.4) Dalla città come macchina banale alla città come ecosistema complesso Già all’indomani della rivoluzione industriale,
nasceva la nuova scienza dell’urbanistica, con la finalità principale di
mitigare i “nuovi” conflitti sociali che si verificavano in ambito urbano
attraverso la funzionalizzazione degli spazi. L’urbanistica si propone di pianificare
oggettivamente e scientificamente il territorio, dare ordine ai luoghi
attraverso i supporti tecnici necessari per eliminare le contraddizioni dello
sviluppo e del progresso. Nata nel periodo di massima fiducia nel modello di
sviluppo occidentale, l’urbanistica ha finito con il rispecchiarne i valori:
la centralità dell’uomo, il riduzionismo, la marginalizzazione della natura,
vi trovano un punto d’incontro. La città diviene la “macchina banale” che
può essere scomposta e ricomposta, attraverso processi reversibili; diventa un
insieme di pezzi che si aggiungono l’uno di fianco all’altro
[1]. Uno dei limiti principali di questo tipo di
pianificazione è di aver considerato, in chiave matematica e statistica,
processi tanto complessi quali quelli che legano la comunità insediata al
proprio ambiente di riferimento; la “macchina territoriale”, fedele alle
regole dell’economia capitalista, è stata oggetto, fino agli anni ’70, una
pianificazione “accentrata” del tutto estranea alle comunità locali
interessate dai “programmi” di intervento[2]. Per la ricerca dell’equilibrio
dell’organismo-città, è necessaria, più di ogni forma di pianificazione,
l’opera dell’uomo, della società locale, la riscoperta delle complessità
locali; questo non sarà possibile fin quando la città, ecosistema complesso,
sarà considerata come un prodotto statico e scomponibile della società di
massa. Il delicato equilibrio dell’ecosistema città è
continuamente sottoposto a pericolose “oscillazioni” dovute alle enormi
masse di rifiuti e scarti della produzione (inquinamento) da una parte, e dalla
funzionalizzazione degli spazi che riducono l’abitante a supporto tecnico
della macchina urbana, dall’altra[3]. Per andare oltre l’approccio quantitativo allo
sviluppo, bisognerebbe considerare l’ambiente antropico come il prodotto di un
lungo processo insediativo. Nell’approccio territorialista, si è visto, si
focalizza l’attenzione sulle interazioni tra ambiente costruito, ambiente
antropico e ambiente naturale; oggetto di analisi privilegiato diviene
l’ecosistema territoriale, definito come un sistema ambientale in cui una
società umana trova la maggior parte delle risorse di cui ha bisogno per il
proprio sviluppo naturale e culturale[4].
Al suo interno trova spazio la città, un organismo in continuo movimento
attraverso i suoi flussi in entrata e in uscita; l’approccio che vedeva la
città come “ambiente artificiale” statico, come “macchina banale”,
sembra dunque allontanarsi e perdere di validità; ma, a un’analisi più
attenta, i risultati non sono così scontati come sembrano. Considerare la città come ecosistema è utile per
studiarla come un organismo in movimento, che entra in relazione con
l’ambiente circostante; se però prendiamo come termine di paragone gli
ecosistemi naturali, non possiamo fare a meno di evidenziare delle differenze
sostanziali. L’ecosistema naturale è sempre in movimento, non
genera mai staticità, è in equilibrio continuo; al suo interno i flussi in
entrata e in uscita tendono ad equipararsi[5].
Quando questi sistemi non sono in equilibrio, si attivano al loro interno
particolari processi che tentano di ristabilirlo: le omeostasi
dell’ecosistema, però, riusciranno a trovare un nuovo punto di equilibrio a
condizione che i mutamenti esterni non oltrepassino un livello massimo di
tollerabilità (carrying capacity). Gli ecosistemi naturali si presentano come ecosistemi
complessi, cicli chiusi, nei quali una fonte energetica primaria (il sole) è in
continuo circolo; il degrado qualitativo dell’energia disponibile è molto
lento (dissipazione dell’energia) [6]. L’elemento antropico, trasformando drasticamente
l’ambiente in un habitat artificiale, rende l’ecosistema instabile. L’ecosistema città, infatti, si caratterizza per
un ciclo dell’energia sostanzialmente aperto; i cicli produttivi generano una
dissipazione costante di energia sotto forma di inquinamento. L’inquinamento
rappresenta un incremento di entropia, energia non più disponibile. L’impatto ambientale risulta quindi massimo;
l’equilibrio non può essere ritrovato grazie alle omeostasi naturali: l’urban
ecological footprint[7],
l’impronta ecologica dell’insediamento urbano, può rappresentare un valido
strumento per misurare il grado di sostenibilità ambientale[8]. La città ecosistema complesso, in relazione con
l’ambiente circostante, deve riuscire a raggiungere un livello di
auto-organizzazione che le garantisca una gestione più efficiente del suo
territorio, e, nello stesso tempo, un rapporto dinamico con le “altre” realtà
territoriali. In quest’ottica un ruolo principale sarà ricoperto
dal progetto territoriale, attraverso la negazione dei valori universalistici;
un progetto locale, multidisciplinare, che si inizia a muovere in un universo di
variabili emergenti (le comunità locali), trovando attuazione in infinite realtà
possibili[9].
[1] Cfr. Scandurra E. (1999), op. cit. , pp. 146 e segg.. [2] Cfr. Campeol G. (1998), La pianificazione ambientale, in Magnaghi A. (a cura di), Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibilità, Angeli, Milano, pp. 332 e segg.. [3] Cfr. Vernetti G. (1998), La città come ecosistema territoriale, in Magnaghi A. (a cura di), Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibilità, Milano, Angeli, pp.305 e segg. . [4] Cfr. Saragosa C. (1998), L’ecosistema territoriale: verso il progetto ecologico dell’ insediamento umano, in Magnaghi A. (a cura di), Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibilità, Rimini, Maggioli, pp. 163 e segg.. [5] Negli ecosistemi naturali, per flussi in entrata si intende la disponibilità di energia primaria (il sole), indispensabile per attivare i processi di fotosintesi; per flussi in uscita, invece, gli “scarti” dei cicli trofici (principalmente anidride carbonica). [6] Cfr. Vernetti G. (1991), op. cit. , pp. 322 e segg. [7] L’ecological footprint (impronta ecologica), è definito come “il territorio di supporto ecologico che sta ad indicare la dipendenza dell’ecosistema urbano dal suo ambiente d’ingresso”; cfr. Scandurra E. (1995), op. cit., p. 233 e AA. VV., Linee guida per le Agende 21 locali, Manuale ANPA, pp.112-113. [8] Cfr. Saragosa C. (1998), op. cit. , pp. 167 e segg.. [9] Ibidem, pp. 177 – 178. |