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3) Riscoperta del locale3.1) Una nuova dimensione strategica Una tappa importante nel percorso “istituzionale”
della “questione ambientale”, è certamente la United
Nations Conference on Environment and Development
(UNCED), tenutasi a Rio de Janeiro, nel giugno del 1992[1].
A tale Conferenza, conosciuta anche come Earth
Summit, parteciparono 183 paesi e
circa 2400 rappresentanti di organizzazioni non governative, che elaborarono
diversi documenti:1)l’Agenda 21, programma di
obiettivi e azioni ambientali e di sviluppo per il prossimo secolo, con lo scopo
di arrivare a cambiamenti nelle attività economiche per evitare il degrado del
pianeta; 2)una Convenzione quadro sui cambiamenti climatici; 3)una Convenzione
sulla biodiversità, che ha come obiettivi la protezione delle specie animali e
vegetali; 4)una Dichiarazione di principi per la regolamentazione dello
sfruttamento delle risorse forestali; 5)la Dichiarazione di Rio,
consistente in 27 principi generali sulla protezione dell'ambiente e sul diritto
dei popoli allo sviluppo sostenibile. Lo sviluppo sostenibile è indicato
come uno dei comuni obiettivi per il XXI secolo assieme all’impegno di tutti
gli stati contraenti ad elaborare Agende 21 locali. Bisogna, in ogni caso, fare attenzione a non
confondere lo sviluppo locale, in quanto valorizzazione delle specificità
locali (la complessità) e socio-culturali (le tradizioni di un popolo), con il
localismo che, invece, pone angusti limiti spaziali alle rappresentazioni dei
processi di sviluppo[2]. Lo sviluppo locale è, invece, per sua definizione
transnazionale, disegna reti che solo casualmente possono corrispondere a quelle
interne a uno stato, e che, invece, il più delle volte, oltrepassano e si
espandono contro ogni schematizzazione funzionalista, per la quale
ogni nodo intreccia relazioni dettate dal profitto. Il locale non è quindi legato a un concetto
dimensionale, non è il piccolo; è lo specifico, la complessità del luogo. Il
locale è il luogo, una parte di territorio unica, irripetibile, preziosa;
riconoscere quella parte, lontana o vicina, grande o piccola, significa
individuare un percorso di sviluppo certamente impervio. La focalizzazione su una nuova dimensione strategica,
il locale, fa nel 1996 un ulteriore passo in avanti con la United
Nations Conference on Human Settlements [3]
(Conferenza
delle Nazioni Unite sugli
Insediamenti Umani),
tenutasi a Istanbul nel giugno di quell’anno; il documento finale, l’Agenda
Habitat II, risulta particolarmente interessante in quanto porta
l’attenzione sul ruolo dei soggetti coinvolti nel progetto
locale autosostenibile. I
lavori iniziano con un rapporto dettagliato sull’esplosione della popolazione
urbana, stimando in circa 500 milioni coloro che vivono la “città
marginale”[4].
La previsione per cui nel 2025 l’80% della popolazione mondiale urbana
apparterrà alle regioni arretrate disegna un panorama preoccupante per il
prossimo futuro: le città più popolate saranno quasi solo in Asia, America
Latina e Africa. Nell’Agenda Habitat, in ogni caso, si
sottolinea l’importanza delle città come motori dello sviluppo sociale,
economico e ambientale, luoghi quindi cruciali per i destini dei paesi poveri. I
rapidi tassi di crescita della popolazione urbana sottopongono a un’enorme
pressione la capacità dei governi nazionali e delle amministrazioni locali, che
non riescono ad assicurare, il più delle volte, nemmeno i servizi essenziali. Al di là dei contenuti di Habitat II, la
necessità di riuscire a rappresentare la realtà locale in quanto tale, in
quanto specificità irripetibile del luogo, patrimonio unico del locale
ritrovato, rappresenta una conferma della necessità di contestualizzazione dei
progetti. Il contributo che gli organismi internazionali
riusciranno a dare sarà tanto più importante laddove si rendano visibili le
reti riattivate[5]. La compatibilità del progetto con la soggettività,
la volontà della popolazione coinvolta, rappresenta un aspetto particolarmente
interessante della “nuova” forma di sviluppo. La popolazione interessata dal
progetto, infatti, non è un elemento “passivo”, sul quale ricadono le
conseguenze prodotte dell’intervento territoriale esogeno; è, al contrario,
un attore dinamico, capace di portare avanti le linee progettuali, anche grazie
a “organismi intermedi” tra il locale ritrovato e lo Stato burocratizzato
quali le organizzazioni non governative. Viene messa in tal modo in evidenza la self
reliance delle popolazioni locali, la partecipazione attiva, cioè, di un
soggetto ritrovato nel locale; è proprio questa autoreferenzialità che,
qualora venisse meno, renderebbe vano ogni valore effettivo della sostenibilità.
Il tentativo di “calare dall’alto” progetti che non trovano
un’adattabilità specifica alla realtà locale, relegando la self reliance
al margine, rischia di avere effetti paradossalmente opposti a quelli auspicati[6]. Se il ruolo della società locale è fondamentale,
quello di “altri” attori non è meno importante. Nell’attuazione effettiva
del progetto, nella riattivazione di sinergie locali con l’ambiente, infatti,
non esiste una divisione evidente tra un attore e un altro; ciò che si ricerca
è la collaborazione dinamica tra più entità diverse tra loro. L’apporto dei
“tecnici”, degli esperti, sarà importante in ugual misura, dovendosi
necessariamente fondere con l’azione congiunta di tutti coloro che partecipano
al progetto: o.n.g., popolazioni locali, organismi internazionali[7]. La marginalità non è prerogativa di tipologie
specifiche della popolazione, quali gli stranieri, gli extracomunitari, che
possono rappresentare le categorie più colpite; chiunque può essere
potenzialmente “straniero” nel proprio territorio. La rifondazione urbana e
locale è possibile solo attraverso l’attivazione di tutti i soggetti,
espressione delle differenze che sono il segno dei luoghi. Sembra
importante sottolineare come la partecipazione degli attori locali nel progetto
di trasformazione territoriale rappresenti la negazione di una progettualità
“calata dall’alto”, in cui l’attore principale resta lo Stato, o, nella
peggiore delle ipotesi, il mercato globalizzato da un’oligarchia al potere.
[1] Sulla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo si vedano i seguenti indirizzi internet http://www.un.org/documents/ga/conf151/aconf15126-1annex1.htm e http://www.un.org/geninfo/bp/enviro.html sezioni specifiche del sito ufficiale delle Nazioni Unite www.un.org ; cfr., inoltre,Tarozzi A. (1998), op. cit., pp.37-38; Scandurra E. (1995), op. cit. , pp.118 e segg. e Magnaghi A. (2000), Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, pp. 89 e segg. . [2] Cfr. Giusti M. (1991), Locale, territorio, comunità, sviluppo. Appunti per un glossario, in Magnaghi A. (a cura di), Il territorio dell’abitare, Milano, Angeli, pp.140 e segg. . [3]
Cfr. Tarozzi A.
(1998), op. cit. , pag. 38; sulla conferenza di Istanbul, si può
vedere anche il sito di O.N.U. Italia:
http://www.onuitalia.it/calendar/habitat/insediamenti.html
.
[4] Il tema degli insediamenti informali verrà affrontato più dettagliatamente nel secondo capitolo. [5] Cfr. Tarozzi A. (1998), op. cit. , pag. 31 [6] La multinazionale Nestlè, anni orsono, ha diffuso nei pvs un particolare tipo di latte solubile per combattere il flagello delle morti per fame dei neonati.Le conseguenze del progetto, però, furono paradossalmente tragiche: la mancata consuetudine della bollitura dell’acqua, per la maggior parte inquinata, in vaste aree dei pvs, aveva provocato la diffusione di malattie infettive che colpirono migliaia di neonati. Senza self-reliance, il progetto, destinato a aiutare la popolazione locale, si è trasformato in una strage. Cfr. Tarozzi A. (1998), op. cit. , pp. 34 – 35. [7] Cfr. Magnaghi A. (2000), op. cit., pp. 104 – 105. |