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La casa delle finestre che ridono |
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Questo è un film che fa paura. Un film di
incubi, morti violente e follia deviata, un racconto concepito per
spaventare narrato con una maestria che, nella storia della
cinematografia italiana non ha davvero eguali.
L'azione si svolge in un sonnacchioso e solare paesino della Brianza, dove un giovane restauratore (Lino Capolicchio) sta lavorando al recupero di un affresco raffigurante il martirio di San Sebastiano. Autore, l'artista maledetto Buono Legnani, un pazzo squilibrato noto come 'il pittore di agonie' che esprimeva il proprio morboso genio artistico dipingendo i morenti. E sotto la muffa e le incrostazioni si cela una storia terribile e allucinata, un passato di sangue ed orrore che pian piano riaffiora sino a svelarsi in tutta la sua terribile mostruosità. La sceneggiatura è fortemente ispirata ai lavori letterari di H.P. Lovecraft, spesso ambientati in tranquille zone di provincia in cui l'incubo si annida in agguato, silenzioso ed invisibile. Ma la cosa che fa davvero paura è che, a parte qualche piccola esagerazione cinematografica, la storia è perfettamente credibile e non dissimile da fatti di cronaca realmente accaduti. I personaggi sono molto 'veri', le situazioni ben studiate, gli effetti molto semplici ma davvero efficaci, come la voce delirante del pittore, ossessiva e malata, che accompagna le prime scene del film. Ci troviamo di fronte ad un ottimo prodotto della vecchia scuola del thriller, quando gli effetti speciali costavano troppo e bisognava affidarsi alle buone idee e ad una recitazione efficace. Niente a che vedere con le ultime produzioni hollywoodiane dal budget enorme ma dal look decisamente sgangherato, ma nemmeno un prodotto alla Blair Witch Project, un film di cui ci si accorge solo grazie all'enorme battage pubblicitario. E in effetti la computer grafica è inutile, se per creare la tensione necessaria bastano dei dipinti sinistri ed un set efficace ed evocativo, come la splendida villa vicino Ferrara in cui sono state girate molte scene. Lo script convince fino in fondo, la verità si svela pian piano in un susseguirsi di eventi che incollano lo spettatore allo schermo, creando quella piacevolissima sensazione di 'voglio vedere come va a finire'. Ed il finale è davvero bello: il regista Pupi Avati lo lascia 'aperto' evitando così in maniera molto abile di ricadere in cliché stantii che deluderebbero il pubblico,e riuscendo a concludere degnamente la vicenda. Come diceva Maupassant, ' Non c'è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto'. 17/07/2002 |
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