LA
"VIRTU'" DEL CELLINI
di
BRUNO MAIER
La Vita è frutto tipico della concezione individualistica del Rinascimento, accentuata dall'adesione agli esemplari eroici dell'arte michelangiolesca e da un'esasperata coscienza del proprio valore. Cosí in questo libro rivive nella forma autobiografica il conflitto fondamentale fra «virtù» e « fortuna », cioè fra l'azione del protagonista intesa al dominio delle cose e degli eventi, e l'oscura resistenza della natura e del caso.
Quello spirito accesamente individualistico, che sta alla base della letteratura biografica e autobiografica del Rinascimento, costituisce, l'elemento dominante della Vita celliniana; la quale è tutta pervasa dal sentimento vigoroso e gagliardo che il nostro autore ha della propria personalità d'uomo e di artista, o dalla coscienza della sua inarrivabile «virtù», nel significato che il termine aveva in quell'epoca - e si pensi, ad esempio, al Machiavelli, al Castiglione, al Vasari, ecc., magari risalendo al Boccaccio del Decameron, poeta della «virtù» e dell'«intelligenza» -, ossia di abilità, d'ingegno, di capacità di fare. È questo motivo che conferisce alla Vita il suo caratteristico accento; e viene anche incontro a quella ricordata esigenza autoapologetica, per cui il Cellini, dipingendosi in quel modo, voleva far vedere chi fosse l'uomo che Cosimo de' Medici, piccolo duca d'una piccola corte - quanto diverso dal magnanimo re Francesco I I, che batteva familiarmente una mano sulla spalla di Benvenuto, chiamandolo «mon ami»! -, si azzardava a mettere in disparte, concedendo a mediocri «praticonacci» i propri volubili favori. Ne deriva che e un simile scopo perseguito dal Cellini nella sua narrazione, (ma non tale da pesare su questa sì da dirottarne il valore rappresentativo e artistico verso risultati oratorii) e il motivo-guida della «virtù» rendono la Vita un libro serio, e non già d'intonazione comico-novellistica; o ne fanno una sorta di protratto conflitto, per dirla col Machiavelli, tra «virtù» e «fortuna», tra la «virtuosa» figura del protagonista e la malvagità degli uomini, delle circostanze e del medesimo destino (il che giova per altra via a dimostrare la profonda « rinascimentalità » del volume).
Si comprende perciò come nell'autobiografia Benvenuto appaia costantemente impegnato in una gigantesca lotta col mondo che l'attornia, solo colla sua astuzia e «bravura» umana e colla sua perizia d'artista, e quasi superstiziosamente convinto che il «Dio della natura» lo guarda, lo protegge dall'alto e gli concede, dopo mille avversità e traversie, la finale vittoria sui rivali e sui nemici. E si comprende altresí come nella Vita il protagonista sia visto in una luce d'eroismo e di grandezza, dominando con l'imponenza della sua straordinaria figura il «coro» meschino e spregevole degli oppositori: prospettiva, questa, fortemente chiaroscurata, col risultato artistico della costruzione d'un personaggio a tutto rilievo, plastico, campeggiante sopra uno stuolo di pigmei, con qualche lieve cenno ambientale e paesistico. Sicché vien fatto di pensare, per analogia, all'arte del Buonarroti, ai suoi «profeti», alle sue «sibille», ai suoi «prigioni», ecc.; o al «gigantismo» proprio di tutta la scultura fiorentina di tendenza o di scuola michelangiolesca, alla quale, ad onta di certe squisite eleganze decoratíve e di talune sottili raffinatezze manieristiche, il medesimo Cellini si gloriava di appartenere.
Nella figura del protagonista della Vita è passato dunque alcunché dello spirito michelangiolesco. Tale osservazione, che procura di puntualizzare con un'approssimazione critica attinta alla più alta espressione dell'arte figurativa dell'epoca, dal nostro autore profondamente ammirata, lo spirito animatore dell'autobiografia (e si può anche parlare di accento epico o da chanson de geste, e talora di clima biblico), dev'essere chiarita e documentata attraverso un'analisi del motivo della «virtù», quale si dispiega nel capolavoro celliniano. Fin dal sonetto proemiale (Questa mia vita travagliata io scrivo) appare perfettamente delineato il conflitto tra le «alte diverse imprese» del Cellini, sorretto dalla divina protezione, ed il «crudel destino»; mentre nel capitolo in cui sono narrati il matrimonio di Giovanni Cellini e la nascita del futuro artista e scrittore, il tono solenne del racconto, intessuto di gravi sentenze e di iperboli miranti ad esaltare la «virtù» della stirpe celliniana, discendente per li rami - potenziata al massimo - nel personaggio di Benvenuto, e l'accento di biblica austerità e grandezza, che si ravvisa nella stilizzazione delle diverse figure, simili a degli antichi patriarchi, riescono già a creare quell'atmosfera di eccezionalità, non rifuggente da esiti di magico e prodigioso surrealismo - mi riferisco agli episodi dello scorpione e della salamandra -, che sarà peculiare dell'intero libro.
La fisionomia di drammatico scontro tra la «virtú» del Cellini e l'avversa fortuna, di volta in volta individuata nei molteplici nemici incontrati nella lunga esistenza, continua nelle pagine successive, in cui è rievocata la rissa che costringe Benvenuto a rifugiarsi a Roma; in quelle che ci presentano il nostro autore eroico difensore della Roma attaccata dai lanzichenecchi - «Orazio sol contra Toscana tutta», per usare un verso del Petrarca intento al «diabolico esercizio» delle artiglierie e desideroso di emergere, oltre che nell'arte, in qualità di «bombardieri», secondo la concezione, propria del Rinascimento, dell'uomo «totale», capace di mostrare la sua bravura in ogni campo della vita; e in quelle in cui sono descritti la morte del fratello Giovanfrancesco, la vendetta che ne fa il Cellini e il colloquio col Papa dopo l'omicidio; e la «maravigliosa» fuga dalla prigione di castel Sant'Angelo, sullo sfondo d'una notte rutilante di stelle.
La figura dell'uomo superiore alla legge perché «unico» nella sua professione - non a caso il Cellini, con un procedimento a lui congeniale e frequente nella Vita, mette in bocca al medesimo Pontefice un simile riconoscimento del suo valore - si tramuta in quella d'un
martire della fede, ingiustamente condannato, nei capitoli sulla seconda carcerazione, improntati ad un clima di fervido e, in fondo, sincero misticismo. Ed è naturale che anche le visioni avute dal Cellini, o quella sorta di soprannaturale commercio con la Divinità, di cui egli si vanta, accompagnato da lagrime, deliqui, estasi, vaneggiamenti, allucinazioni, contribuiscano a conferire all'eroe un'aureola di religiosità e come di miracolo. Non diversamente la partecipazione alle pratiche di negromanzia nel Colosseo - le quali si collegano al più ampio filone surrealistico e onirico dell'autobiografia - era servita ad attestare non solo il suo coraggio e la sua presenza di spirito, ma la sua capacità di evocare e di padroneggiare le oscure potenze del inondo demoniaco. E ciò ancora ci riporta ad uno degli aspetti caratteristici della mentalità del Rinascimento, volta ad affiancare all'idea dell'orgoglioso, cosciente dominio del mondo fisico e delle umane vicende e alla fede nella Divinità un senso di sgomento di fronte alla «fortuna», arbitra capricciosa della storia e ostile alla «virtù» dell'individuo, ed un assillo dell'ignoto e del misterioso; e dedita, di conseguenza, ai complicati esercizi della magia e della
negromanzia. |