Coscienza
letteraria e questione della lingua nel Bembo di
C. DIONISOTTI
Nelle Prose della volgar lingua il Bembo fonda anzitutto la coscienza critica della tradizione letteraria italiana, indicandone gli esempi più significativi nell'ambito dei grandi scrittori del Trecento. La ricchissima esemplificazione di modi e di parole che il Bembo dà, ricavandoli dai suoi ammirati trecentisti, è volta a costituire una lingua che abbia dignità ed eleganza letteraria e al tempo stesso la vivacità e la naturalezza dell'uso toscano.
Agli italiani non si poteva imporre una unità linguistica toscana solo per le
virtù naturali, che il Bembo apprezzava, del linguaggio toscano. In tanto questo linguaggio si era già imposto su ogni altro dialetto, in quanto era linguaggio di una nobile tradizione letteraria, di Dante, del Petrarca, del Boccaccio. Ma di questi documenti fondamentali, familiari a tutta Italia, bisognava ancora dimostrare la pertinenza a una tradizione, a una storia, e farne paragone, e di ciascuno spiegare i pregi e i difetti con i procedimenti critici stessi che erano stati applicati alle letterature classiche. La storia della letteratura italiana non comincia con le Prose del Bembo, comincia col De vulgari eloquentia di Dante, ma è certo che il ponte di quella storia che sul corso di quattro secoli congiunge la riva del De vulgari eloquentia a quella della Ragion poetica del Gravina ha a mezza via nelle Prose il suo pilastro centrale che regge l'intera struttura. Di li viene, al di là delle indicazioni dantesche e petrarchesche, l'inquadramento della poesia italiana nell'ambito di una originaria poetica romanza, la scoperta cioè di un medioevo letterario diverso da quel che per la storiografia umanistica erano i relitti anonimi, informi, della decadenza latina; di lì la discussione in termini tecnici, propriamente letterari, di lingua e stile e forme, metriche, dell'influsso provenzale sull'antica poesia italiana, e di questa stessa poesia, e dell'antica prosa, dal Novellino al Villani. In poche pagine delle Prose, con un rigore teorico e una sottigliezza di analisi sorprendenti, i capolavori della letteratura volgare, Dante, Petrarca, e in parte Boccaccio, apparvero per la prima volta definiti in termini di lingua e di stile, per quei caratteri che soli, secondo il Bembo, erano propri dello scrittore, di qualunque materia e in qualunque lingua scrivesse.
Al di là del Petrarca e del Boccaccio, era, secondo il Bembo, la decadenza.
Il terzo libro delle Prose è una meravigliosa selva dove l'esemplificazione della parola e del suo uso prevale sulla classificazione e sulle regole. Senza dubbio, e i primi due libri nel complesso lo attestano, il Petrarca era lo scrittore più vicino al cuore e alla mente del Bembo, ma, come già nella composizione degli
Asolani, così in questo terzo libro delle Prose il gusto della lingua boccaccesca prevale, trabocca al di là dei precisi confini del linguaggio lirico e petrarchesco, assapora anche la parola umile, comica. Più ancora che negli Asolani, il Bembo è qui strettamente
fedele alla tradizione trecentesca. Dove ha in mente l'uso corrotto, moderno o contemporaneo, sottolinea con una affermazione più recisa la forma trecentesca corretta, non aggiunge, neppure per condannarla, quella moderna errata. Per contro le parole antiche, gli arcaismi attestati da rime e prose predantesche o da Dante, nelle Prose compaiono, a volte accompagnati da un monito al lettore e a volte
no. In questo recupero della lingua arcaica, che è, anche per il moderno lettore, uno degli aspetti più caratteristici e nuovi delle Prose, concorrevano e si intrecciavano in un gioco delicato motivi retorici e filologici. Già negli Asolani il Bembo si era indirizzato verso una lingua dissueta dall'uso moderno e aveva derivato dal Boccaccio parole e costrutti che non erano passati oltre nell'uso, che dunque erano testimonianze di un uso anteriore al Boccaccio stesso. La filologia umanistica insegnava reverenza per la parola antica, curiosità per le origini. A sua volta la retorica classica ammetteva che una misurata dose di parole antiche giovasse a illustrare il discorso. Di questa concessione il Bembo umanista non era incline a far uso: Cicerone gli era sufficiente modello. Ma nel campo volgare il suo rigore retorico si adattava al fervore di una ricerca che dava un volto alla lingua predantesca, un termine di paragone all'eccellenza del Petrarca e del Boccaccio; disegnava il processo storico della rapida gloriosa ascesa del volgare da quelle rozze origini. Anche si incontrano nelle Prose; alcuni pochi riferimenti ad altri dialetti italiani, ma è troppo chiaro che su questo punto, di un interesse per la parola in sé, comunque parlata, e fuori del suo uso letterario, il Bembo non poteva fermarsi. Più notevole è il suo disinteresse per la ricerca etimologica, e la preoccupazione di sottolineare piuttosto la novità che la dipendenza del volgare nei confronti del latino. E si spiega: non si poteva ridare indipendenza e dignità retorica al volgare mantenendolo al tempo stesso sotto la filologica tutela del latino. Continua e si esaspera nel medio Cinquecento, la distinzione retorica sulla quale già il Bembo aveva insistito nelle Prose, fra l'uso poetico e quello prosastico. Era una distinzione inevitabile, profondamente radicata già nella tradizione classica; ma non di facile applicazione nel campo della letteratura volgare, per la prevalenza qui, netta, della poesia sulla prosa, e, a giudizio del Bembo, del Petrarca, di un modello cioè lirico, con un suo linguaggio estremamente scelto, su ogni altro modello. A dispetto del suo petrarchismo il Bembo sembra essersi preoccupato di rilevare l'eccezionalità dell'uso poetico, dove esso diverge dalla prosa; piuttosto che di cristallizzare, come poi avvenne, su piani paralleli il doppio uso. Di questa cristallizzazione non mancano esempi nelle Prose, ma prevalente è l'altra tendenza. L'eccezione poetica petrarchesca poteva essere bellissima, ma restava eccezione. La norma doveva trovarsi nella « naturale toscana usanza ». Fermissimo nel richiamare la lingua letteraria indietro di due secoli circa, all'uso testimoniato dagli scrittori, il Bembo intendeva però,
così facendo, risalire al nucleo incorrotto di una lingua viva: elegantemente, letterariamente viva. E infatti questo fu il risultato delle Prose, l'imposizione a tutta Italia di una lingua che si impara sui libri, che si sovrappone, su un piano di raffinata cultura, al linguaggio familiare, ma che ciò nonostante si parla e scrive come lingua comune e viva. Meno di vent'anni dopo la pubblicazione delle Prose, intorno al 1540, quella lingua era diventata ormai normale, facile anche a mediocri scrittori, lombardi e meridionali: più accomodante nella prosa, tanto che in essa potevano cercare rifugio scrittori delusi dall'esperienza cortigiana, come il Bandello, più rigorosa e esclusiva, nonostante il successo dell'Ariosto e la continuità della tradizione giocosa toscana, nella
poesia. |