CRITICA LETTERARIA: IL CINQUECENTO MINORE - TASSO

 

Luigi De Bellis

 
 
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LA RELIGIOSITA' DEL TASSO

di EUGENIO DONADONI



Il critico indica nell'esperienza del Tasso la mancanza di un autentico sviluppo religioso; non ci sono in lui vere crisi spirituali e rinnovamenti interiori, ma soltanto aspirazioni generiche alla tranquillità, alla sicurezza dell'uomo e del letterato. Anche l'angoscia, che è il momento più vivo e profondo della sua vicenda spirituale, si risolve nell'aspirazione a un conforto tutto terreno.

Sarebbe non meno ovvio che bello, rappresentare il poeta dell'Aminta e della Gerusalemme, il cantore dell'amore e del piacere, dell'eroismo e dell'orgoglio, domato dalla sventura lunga, illuminato da una luce dall'alto, staccarsi a poco a poco dalla terra e dalle preoccupazioni mondane, raccogliersi in un mondo più intimo e profondo, trovare in Dio finalmente la pace che gli uomini non danno, e che vale troppo più del misero trionfo che anche gli uomini possono dare. Sarebbe bello e seducente, condurre la storia spirituale del poeta sulla via tipica tracciata all'anima cristiana. I momenti della illuminazione, della conversione, della rinuncia, della pace sono sempre superiormente interessanti. Ma un Tasso delineato e conchiuso cosí sarebbe falso e convenzionale. Anche negli anni più fecondi della produzione religiosa, il Tasso non arrivò mai ad un senso profondo e vivo della religiosità. La quale è il portato di una crisi spirituale, che si rivela in una sicura calma o ín una intima beatitudine; giacché è lo stato di animo dell'uomo nuovo, che sa di aver superato il vecchio. Non che l'uomo vecchio sia caduto dalla coscienza; ma è più un ricordo che un terrore; è svalutato del tutto, anche se non del tutto disarmato; è un ammonimento, assai più che un pericolo. Anche, la religiosità è pace e luce: perché è visione armonica del mondo, dopo la cecità e il dubbio: è l'arrivo e la quiete, dopo il pellegrinare lungo e senza direzione. Il pessimismo non è della religiosità che quel lato che guarda la terra: o non ne è che l'involucro; dentro, essa è tripudio sereno. Perciò la religiosità è fervore di vita; è espansione e attività: tende ad assumere le forme dell'apostolato, della polemica, del martirio. La fede senza le opere è morta, disse lo spirito più ebbro di religiosità che abbia avuto la storia cristiana.
Non è di questa specie la religiosità di Torquato. Egli non conobbe crisi. Non mai senti invitto il bisogno di elevarsi ad una vita di purità e di dignità superiore. La sua volontà rimane attaccata alla terra sempre. Egli non rinunzia mai a nessun diritto, a nessuna esigenza del suo io. Sant'Anna lo abbatte, anche più che non lo umilii: demolisce il poeta, non trasforma l'uomo. La sventura non lo innalza, Dio non gli parla nella solitudine: nella solitudine gli parlano e lo tribolano gli spiriti beffardi. Vede, si, la Vergine, tra San Benedetto e Santa Scolastica: e fa voto di andare pellegrino, come accadrà, alla Madonna di Loreto; ma quella è brama di uscire di malattia e dal carcere, intercedendo per lui il fondatore dell'Ordine monastico caro a lui sin dalla fanciullezza Z. Nella solitudine egli pensa al mondo, che è rimasto alle sue spalle: ai carnevali, che egli non può godere: a curarsi con medicine non meno efficaci che gradevoli: a stancare di preghiere il Duca, e quanti possono arrivare al Duca: a difendere il suo poema. Rimase sempre inferiore alla sua sventura. Non giunse ad accettare il dolore mandato da Dio, a subire l'ingiustizia permessa da Dio, a scrutare, nella propria coscienza, le miserie che dovevano espiarsi: ad abbandonarsi, abbandonato dal mondo, in Dio. Egli non intese la consolazione evangelica: Non angustiatevi del domani. Né il monito: Basta a ciascun giorno il suo male. Da sé non seppe staccarsi mai. La pace di Monte Oliveto e di Santa Maria la Nova e di Sant'Onofrio sono il riposo momentaneo, o il sonno ultimò di uno stanco o di un vinto, non le stazioni dell'anima a Dio: Gli anni più apparentemente religiosi della vita del Tasso sono forse quelli, in cui piú lo angosciano le cure e le preoccupazioni: in cui più piatisce per essere ben trattato nelle Corti: in cui la sua vanità più chiede di essere soddisfatta ed accarezzata: in cui gli pare conveniente che Napoli lo mantenga a spese pubbliche. Sino l'ultima lettera al Costantini non è meno un certo presentimento della morte, e della vita che sarà dopo la morte, che la parola dell'orgoglio: della coscienza, nel poeta, della sua grandezza: del suo diritto a vivere fra gli uomini, per la gloria.

2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it