Una pagina di storia di 140 anni fa.
I Garibaldini a Ceccano

Cronaca di un’invasione


di Giovanni Ruspandini

C’è allarme nello stato pontificio agli inizi di ottobre 1867. Le voci incontrollate di minacce esterne circolate durante tutta l’estate sono diventate, ora, segnali inconfondibili di invasione imminente: le bande garibaldine, forti di migliaia di uomini, si stanno concentrando al di là della frontiera per attaccare da nord, dal centro e da sud il territorio della Chiesa, ormai ridotto al solo Lazio, il piccolo Lazio di allora. Ai governatori delle zone di confine (e anche a quello di Ceccano) arrivano dispacci riservati dalla informatissima direzione di polizia: si teme l’azione di perturbatori venuti da fuori e si invitano le autorità a sorvegliare le persone sospette, a reprimere con decisione disordini e adunate sediziose. A Roma si cominciano a fortificare le porte delle mura aureliane. Attorno alla metà del mese, la colonna meridionale, comandata dal generale Nicòtera, inizia le operazioni militari. Si tratta di operazioni preliminari, circoscritte, che trovano un’opposizione nemica più forte del previsto e che, in territorio di Castro-Vallecorsa e di Monte S. G. Campano, costano morti e feriti agli invasori garibaldini. Poi la situazione precipita. Il giorno 27 tutte le milizie papaline dislocate nel frusinate vengono richiamate con urgenza per difendere Roma minacciata da Garibaldi, il quale, travolto il presidio di Monterotondo, è giunto in vista della città. Il raggruppamento di camicie rosse di Nicòtera può ora attraversare in forze il confine meridionale, senza incontrare resistenza. Domenica 27 c’è la fiera di Santa Fausta a Frosinone. Tra la folla cominciano a diffondersi voci su orde garibaldine pronte all’assalto e i forestieri venuti a vendere e a comprare mercanzie ripartono con i loro carretti prima del solito. L’agitazione in città cresce quando i gendarmi abbandonano la caserma diretti alla Stazione e quando, a sera, si diffonde la notizia che anche il delegato apostolico ha lasciato la sede. I volontari garibaldini (duemila uomini circa) entrano a Frosinone nella mattinata seguente. Provengono dalla via Mària, e passando per Casamari si sono impadroniti dei sai dei frati per sopperire alla carenza di vestiario. Il grosso delle truppe si ferma appena e già nel primo pomeriggio riprende la marcia lungo la via Marittima alla volta di Velletri. Non ci sono disordini, ma nottetempo vengono forzate le porte del comando della gendarmeria e del palazzo apostolico (l’attuale prefettura), e spariscono oggetti e documenti. Il giorno 31, mentre si tiene il plebiscito per l’annessione al regno d’Italia, arrivano a Frosinone dalla via Casilina le milizie regolari dell’esercito regio: una forza considerevole di alcune migliaia di uomini con cannoni e militi a cavallo, che si accampano dentro e fuori la città. La loro presenza ha finalità ambigue: appoggiare i volontari e al tempo stesso controllarli e ristabilire l’ordine. In territorio di Ceccano, per la sua posizione geografica poco strategica, non si hanno scontri né concentramenti di truppe. Ma anche a Ceccano c’è l’atmosfera di ansia e di tensione che precede gli avvenimenti militari. Lunedì 28 ottobre, si riunisce in seduta straordinaria nella sala comunale il consiglio della magistratura, il consiglio delle autorità cittadine cioè, per decidere il da farsi. Si prendono provvedimenti sulla sorveglianza degli 80 detenuti ristretti nel carcere; si decide di lasciare i lampioni accesi per tutta la notte. Per l’ordine pubblico, partiti i gendarmi della locale tenenza, si affida tale compito ai militi della riserva (che si dimostreranno poco affidabili: a sera abbandonano la caserma e se ne tornano a casa. E’ assente alla riunione Filippo Berardi, il gonfaloniere, che preferisce eclissarsi e non farsi coinvolgere, memore della restaurazione pontificia dopo le brevi stagioni della repubblica romana negli anni passati. Il telegramma di Nicòtera che invita il Comune ad aderire al nuovo stato di cose a scanso di dolorose conseguenze e i falò visibili in lontananza nei paesi in mano ai volontari danno forza al partito patriottico filoitaliano. C’è gente in Piazza della Lotta (si chiamava così allora) fino a tarda sera. Si grida: “Abbasso il papa re! Viva Garibaldi! Viva Vittorio Emanuele!” e si sventola il tricolore. La memoria orale ci ha consegnato momenti di spontanea ammirazione e partecipazione popolare. Diffusasi la notizia del transito dei garibaldini lungo la via Marittima, decine di ceccanesi si recano a piedi o sulla barrozza presso le Quattro Strade di Patrica per vederli passare. Poi le camicie rosse arrivano anche a Ceccano. Sono gli uomini al comando del maggiore Antinori, siciliano, (65 volontari ai quali si sono aggiunti alcuni elementi di Ceprano, di Pofi e di Castro), ad occupare Ceccano. Giunti al municipio, sostituiscono lo stendardo pontificio con la bandiera italiana. Un ufficiale alla testa di alcuni uomini sale fino al castello per liberare i detenuti. Resosi conto, però, che si tratta di briganti e di manutengoli si limita a scarcerarne solo due, ritenuti prigionieri politici. A nome del rappresentante municipale Raffaele Sindici, i garibaldini, male armati e peggio vestiti (pochi indossano la tradizionale camicia rossa), visitano botteghe, granai e cantine e requisiscono generi alimentari ed altre mercanzie, rilasciando buoni di prelevamento. Particolare interesse dimostrano per le stoffe e i tessuti rossi. La popolazione (poco meno di sei mila abitanti tutti residenti nel centro cittadino), superate le iniziali paure e diffidenze che la predica domenicale ha contribuito ad alimentare, li accoglie con curiosità e simpatia. Anche i notabili, in generale, si dimostrano collaborativi, alcuni per adesione alle idee risorgimentali, altri per opportunismo facendo buon viso a cattivo gioco in attesa di capire la piega degli eventi; qualche casato facoltoso mette davanti al portone di casa domestici in livrea con in mano candelabri accesi in segno di festa. Dalle cantine dei possidenti i garibaldini prelevano botti e barili e li rotolano fino in piazza. Il vino sgorga copioso e il popolo accorre di buon grado; si beve e si canta al suono dell’organetto. Mentre a Ceccano si festeggia, si accendono grandi fuochi e si prepara il plebiscito, eventi molto più importanti stanno accadendo altrove. A Civitavecchia è sbarcata la flotta francese e le prime truppe sono arrivate a Roma con il treno già il giorno 30. L’interruzione del telegrafo, del servizio postale e della linea ferroviaria (disattivata a ridosso della frontiera dai soldati pontifici), tengono Ceccano e i paesi del circondario nel completo isolamento. Non si sa nulla neppure della grave sconfitta di Mentana del 3 novembre. La notizia arriva nella notte del 4-5 e provoca sgomento e delusione. I volontari garibaldini e i loro collaboratori si dileguano rapidamente. Nella mattinata transita per Ceccano un lungo treno diretto a sud, affollato di truppe regie e di volontari, alcuni dei quali feriti. La campagna garibaldina è fallita. Nel pomeriggio dello stesso 5 novembre le autorità pontificie rientrano alle loro sedi. La bandiera tricolore viene gettata via e al municipio ricompare lo stendardo bianco e giallo. Le campane suonano a distesa fino a sera tarda e i ceccanesi filo-clericali manifestano apertamente il loro giubilo. È il momento della resa dei conti, della corsa a minimizzare il proprio operato, delle delazioni, dei calcoli politici. Uno spettacolo già visto in passato e destinato a ripetersi anche in futuro. Giovanni Ruspandini