I cappelletti di zia Angelina

Come cucinare un’antica ricetta adattandola ai tempi moderni


di Antonietta Tiberia

Angelina era di origine emiliana. Per me era una zia acquisita, avendo sposato uno dei fratelli di mio padre. Zio Luigi l’aveva conosciuta a Roma, dove anche la mia famiglia andò a stare n e durante la seconda guerra mondiale, l’aveva portata in campagna, a stare negli anni ’50. Ma quello che ricordo con piacere sono i pranzi di Natale in casa sua. Il piatto forte erano i cappelletti in brodo di cappone. Zia Angelina, se fosse viva, oggi avrebbe oltre novant’anni: credo che sarebbe contenta di sapere che i suoi cappelletti le sono sopravvissuti, assieme al ricordo di tutta l’atmosfera che ne accompagnava la preparazione. Tutto iniziava due giorni prima di Natale. Lei andava a comprare gli ingredienti giusti per il ripieno; la farina per la sfoglia e le uova, invece, non mancavano mai nella sua casa. Ne aveva sempre in serbo, dopo aver patito le ristrettezze e le privazioni in tempo di guerra. Gliele portavano le “corriere” dalla campagna, assieme al burro e al pollo ruspante, ogni settimana. La zia tagliava a pezzetti le carni e le cuoceva, senza farle arrostire, con un po’ di burro e sale, a fuoco dolce in un tegame coperto. Poi le passava per due volte nel tritacarne, assieme a prosciutto, mortadella e midollo di bue. Le raccoglieva in un terrina e aggiungeva parmigiano, uovo, noce moscata e un pizzico di pepe. Impastava tutto con le mani fino ad amalgamare bene in maniera omogenea. A preparare la pasta era mia madre. Setacciava la farina sulla spianatoia, preparava la fontana mettendo al centro le uova (rotte uno alla volta in un piattino per controllarne la freschezza), un pizzico di sale e un poco d’olio; poi tracciava sulla fontana il segno della croce e cominciava a impastare la farina con dodici uova, perché tanti erano i commensali. L’operazione era delicata, bisognava prendere la farina un poco alla volta e intriderla con le uova rimescolate con le mani, fino a far assorbire tutto il liquido. Lavorava a lungo la pasta che poi tirava a mano, con il matterello, in sfoglie lisce e sottili, una alla volta. Quando la sfoglia morbida e umida era stesa sul piano di lavoro, il momento diventava critico: la pasta andava ritagliava in dischettini rotondi, con l’aiuto di un bicchierino da liquore; con un cucchiaino da caffè si metteva un po’ di ripieno al centro, si piegava in due il disco di pasta per far aderire bene i bordi, si congiungevano le due estremità ad anello avvolgendole intorno al dito mignolo ed eventualmente si aggiustava un po’ la tesa del cappelletto. Il tutto doveva essere fatto in gran fretta, prima che la sfoglia asciugasse, perché se asciuga non aderisce più, e se il cappelletto non è ben chiuso, il ripieno durante la cottura esce. E allora al grido di: -Venite, presto, la sfoglia è pronta!- noi ragazzi (eravamo cinque) lasciavamo i giochi, ci lavavamo le mani e ci precipitavamo in cucina per aiutare. Ci ritrovavamo in otto o più intorno a quel tavolo, in quella cucina che io ricordo molto piccola, lavorando a stretto contatto di gomito. Chi tagliava la pasta, chi ci metteva il ripieno bene al centro, chi la piegava in due, chi la avvolgeva intorno al mignolo, chi allineava i cappelletti chiusi in bell’ordine nei vassoi, chi scansava i ritagli di pasta che sarebbero stati nuovamente rilavorati: una vera catena di montaggio. -Fai attenzione, il ripieno è troppo: il cappelletto non si chiuderà bene! -Metti ancora un po’ di ripieno, il cappelletto è troppo vuoto! -Presto, la sfoglia si sta asciugando! Mi sembra ancora di sentirle, le voci della mamma e della zia, preoccupate che il loro estenuante lavoro fosse guastato dalla giovanile incuria. Quando anche l’ultimo cappelletto era chiuso, il lavoro non era mica finito: bisognava contarli! A noi ragazzi questa sembrava un compito inutile, che svolgevamo di malavoglia, mentre le nostre mamme riordinavano la cucina. Avremmo imparato più tardi che la conta non era fine a se stessa, ma serviva a prevedere quanti tortellini sarebbero stati nel piatto di ciascuno, se le porzioni potevano essere più o meno abbondanti. Non potevamo sapere, allora, che una buona scodella di quei cappelletti così minuscoli ne richiedeva un centinaio. Le nostre mamme erano all’antica, di poche parole, non abbondavano in spiegazioni. I cappelletti riposavano fino alla mattina di Natale, quando veniva preparato il brodo con il cappone precedentemente arrivato dalla campagna. Un’altra zia durante l’estate aveva provveduto ad operare i polli, tagliando le creste e sfilando i granelli. Tutte le donne del vicinato si radunavano nell’aia di zia Giacinta, la chirurga abilitata a questa bisogna, con i loro polli da castrare. E granelli e creste all’ora di pranzo finivano in padella, per la delizia dei nostri palati: un sapore indimenticabile e, purtroppo, irrecuperabile. Come ogni chirurgo che si rispetti, anche la zia teneva in osservazione i suoi pazienti durante il decorso post-operatorio, e per questo li manteneva tutti nella sua aia. Per poterli riconoscere, ciascuna padrona aveva legato un filo di colore diverso attorno alla zampa del proprio pollastro. Se l’operazione riusciva bene, i capponi ingrassavano per finire in pentola il giorno di Natale, quando si cominciava presto a far bollire l’acqua per il brodo, con la carota e il sedano, la cipolla e la patata e naturalmente il cappone . Poi si filtrava per la cottura dei cappelletti, che la zia protraeva per circa un’ora, percontinua da pag. 5 - I cappelletti di zia Angelina ché, essendo stati preparati con tanto anticipo, erano ormai secchi. Ma durante la lunga cottura ricrescevano, diventavano dei veri Borsalino. Durante la degustazione, i commenti non mancavano: -Quelli dell’anno scorso erano più buoni: in questi si sente troppo la noce moscata. -Per me mancavano un pochino di sale. A volte il confronto si faceva anche coi cappelletti mangiati nei vari anni. Ricordo che il primo anno m’ero rifiutata di assaggiarli. A casa nostra mia madre era solita preparare dei semplici quadrucci in brodo, prima delle fettuccine al sugo di regaglie di pollo. Io ero una ragazzina di campagna, caparbia e ostinata, che diffidava delle pietanze elaborate. Di conseguenza, l’anno successivo mi trovai nel piatto solo i ritagli della pasta, cotti a parte solo per me, perché anch’io potessi gustare quel saporito brodo. Fu tale il mio disappunto per la diversità del trattamento (mi sentivo defraudata!) che decisi di mangiare i cappelletti. Adesso quando per le feste li preparo, faccio tutto il lavoro da sola, con la stessa ricetta di zia Angelina. Ho soltanto sostituito il midollo di bue con un goccino di latte, quanto basta per mantenere morbido il ripieno. La sfoglia la impasto con il mixer, perché ho sempre avuto qualche problema con “la fontana” (le uova mi scappano da tutte le parti) e la stendo poco alla volta, con la macchina per la pasta, in lunghe strisce, che taglio in quadratini con l’aiuto del coltello. Li riempio e li chiudo in tondo, nella maniera tradizionale. Il ripieno lo preparo il giorno prima e lo conservo in frigo. La preparazione è più veloce, il sapore non ne risente. Per la cottura bastano venti minuti. E se avanza un po’ di ripieno, niente paura: ci faccio delle polpettine per un sugo, o lo congelo per usarlo un’altra volta. Se qualcuno si volesse cimentare in quest’impresa, ecco gli ingredienti: una braciola di maiale, 1 petto di pollo, 1 etto di prosciutto, una fetta di mortadella, 1 etto di parmigiano, 1 uovo, noce moscata, sale, pepe, latte e burro q.b. Buon appetito a tutti!

Antonietta Tiberia