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FINANZA: Istituti di Pagamento
Attività Caratteristiche degli Istituti di Pagamento (IP).
Quanto agli IP, conviene partire dalla lettura della disposizione in
proposito maggiormente
significativa: l’art. 16, § 2, della direttiva dispone che “Gli
istituti di pagamento
ai sensi del paragrafo 1, lettera a), possono detenere soltanto
conti di pagamento
utilizzati esclusivamente per le operazioni di pagamento; i fondi
che gli istituti di pagamento
ricevono da parte degli utenti di servizi di pagamento in vista
della prestazione
di servizi di pagamento non costituiscono depositi o altri fondi
rimborsabili ai sensi
dell’articolo 5 della direttiva 2006/48/CE, né moneta elettronica ai
sensi dell’articolo 1,
paragrafo 3, della direttiva 2000/46/CE”.
Non vi è dubbio che la disposizione è funzionale a distinguere
l’attività degli IP
rispetto alla più tradizionale attività bancaria, ma essa è anche
funzionale a distinguere
all’interno della fattispecie conto di pagamento, della quale ho sin
qui parlato, una fattispecie
più specifica di conto di pagamento di cui sia titolare un IP. La
ragione della
specificità è condensata in quell’avverbio “esclusivamente” che,
necessariamente, connota
i contratti di questi ultimi. Ma si proceda con ordine svolgendo
dapprima alcune
considerazioni sull’attività degli IP.
Si può facilmente prevedere che l’inserimento nell’ordinamento
bancario nazionale
della figura degli IP condurrà, in sede di attuazione,
all’introduzione di un nuovo comma
nell’art. 11 t.u.b., del tenore di quello già previsto per gli Imel,
al fine di ribadire il concetto,
espresso nella direttiva 2007/64/CE, che “non costituisce raccolta
del risparmio
tra il pubblico la ricezione di fondi connessa alla prestazione di
servizi di pagamento”.
Tuttavia, nell’atto stesso in cui si ribadirà una riserva piena a
favore delle banche dell’attività di raccolta del risparmio, si
genererà un vulnus ulteriore e notevole alla riserva
di attività delle banche che rinfocolerà il dibattito circa la
“morte della banca” secondo
l’icastica espressione – da noi efficacemente ripresa nella recente
monografia di Mario
Porzio. A proposito degli Imel, è bene ricordare che esigenze
sistematiche hanno indotto
la dottrina maggioritaria ad escludere sia che siano vere e proprie
banche sia che essi
godano di un particolare privilegio, in quanto i menzionati
Istituti, al contrario delle banche,
non hanno la facoltà di fare credito, in particolare è loro vietato
di utilizzare i fondi
raccolti per fare credito.
Il caso degli IP presenta elementi di confusione più accentuati sia
perché, ancorché
con alcune cautele, possono concedere credito (v. art. 16, § 3,
direttiva 2007/64/CE), sia
perché – in prima approssimazione – essi sembrano svolgere una
funzione monetaria in
quanto il loro compito è proprio quello di effettuare la raccolta
dei fondi a vista in funzione
della gestione dei mezzi di pagamento.
Gli IP sono, dunque, banche? L’ipotesi può al più esprimere una
tendenza di lungo
periodo, ma allo stato essa deve essere radicalmente esclusa, oltre
che per la già evidenziata
sottolineatura circa l’affermata (dal legislatore comunitario)
diversità dell’attività
dei due istituti, per il fatto che la fattispecie banca, sia
nell’ordinamento comunitario sia
in quello interno, è fortemente formalizzata e sta ad indicare il
soggetto autorizzato come
tale a svolgere attività di raccolta di risparmio tra il pubblico in
modo professionale
(tale ultimo aggettivo è aggiunto dalla direttiva comunitaria e non
dalla legge nazionale).
È inutile aggiungere che le due caratteristiche summenzionate sono
le due facce della
medesima medaglia: a mano a mano che la banca perde i connotati
socialmente tipici, è
necessario che essa sia riconosciuta come tale in virtù di requisiti
legali con un grado di
formalità più accentuato.
Il ragionamento che si va sviluppando obbliga a chiedersi se gli IP
abbiano la facoltà
di svolgere l’attività bancaria – pur non essendo banche – in virtù
di un privilegio loro
consentito dal legislatore comunitario. L’affermazione coglie una
parte della verità ma
non tutta; ancora una volta, la volontà del legislatore comunitario
è volta a ribadire che
permarrà pur sempre una riserva di attività a vantaggio delle banche
e, pertanto, si impone
all’interprete la necessità di trovare una via intermedia idonea a
differenziare l’attività
degli IP da quella delle banche. L’art. 16, § 4, direttiva
2007/64/CE, non ammette dubbi
in proposito; esso recita: “Gli istituti di pagamento non effettuano
l’attività di raccolta di
depositi o altri fondi rimborsabili ai sensi dell’articolo 5 della
direttiva 2006/48/CE”.
La raccolta bancaria, come è ampiamente noto, ha una peculiarità,
vale a dire quella
di potere essere riutilizzata dalla banca al fine di concedere
prestiti; sotto il profilo contrattuale,
tale facoltà è garantita dalla disposizione in sede di deposito
bancario secondo
la quale la banca “acquista la proprietà” della “somma di danaro”
depositata (art. 1834
c.c.) (tanto nei depositi a risparmio quanto in quelli in conto
corrente). In quanto proprietaria
la banca è libera, fatta salva la riserva di liquidità necessaria a
far fronte alle richieste
di rimborso dei clienti depositanti, di utilizzare le somme per
finanziare i prenditori
netti di credito: imprese, ma anche famiglie.
Da tale intermediazione la banca trae i propri guadagni; ma in
definitiva la ragione
per la quale il legislatore concede alla banca la possibilità di
disporre delle somme depositate
dalla clientela sta nel fatto che l’intermediazione creditizia
produce un effetto
moltiplicatore della moneta, con conseguenti ricadute benefiche per
l’intera economia.
Proprio per questo l’attività della banca è intrinsecamente
pericolosa e, dunque allo stesso
tempo, il legislatore (anche comunitario) la sottopone a controllo e
regolazione e, specularmente, ha predisposto una garanzia collettiva
dei depositanti contro il rischio di
insolvenza mediante i c.d. sistemi di garanzia dei depositi.
Il raffronto tra banche e IP può essere colto con immediata evidenza
sotto tutti i
profili sinteticamente evidenziati: 1) in primo luogo, i controlli e
la regolazione degli
IP sono di gran lunga più modesti rispetto a quelli delle banche,
perché – come si legge
nel considerando 11 – questi ultimi “esercitano attività più
specializzate e limitate, che
generano rischi molto più ristretti e più facili da monitorare e
controllare di quelli derivanti
dalla più ampia attività degli enti creditizi”; 2) in secondo luogo,
non sono affatto
prefigurati sistemi di garanzia a favore dei clienti che depositano
somme presso gli IP,
proprio perché agli IP “dovrebbe essere vietato raccogliere depositi
da utenti [sic!] e
dovrebbe essere consentito usare i fondi consegnati solo per la
prestazione di servizi di
pagamento” (considerando 11).
Si tratta di una scelta politica precisa del legislatore comunitario
intesa ad abbattere,
a favore degli IP, i costi diretti e indiretti inerenti alla
regolazione delle banche al fine di
introdurre un grado maggiore di concorrenza nel mercato dei servizi
di pagamento; si
possono leggere in tale senso tutti i primi considerando, ma in
particolare il n. 10, della
direttiva 2007/64/CE. Fa da contrappeso all’abbattimento di tali
costi, la rigorosa esclusione
degli IP dalla raccolta dei depositi fra il pubblico dei
risparmiatori che, tuttavia, in
altro non si sostanzia se non nella funzionalizzazione assoluta
delle somme depositate
al servizio di pagamento. Tali somme servono, al pari di quelle
depositate presso una
banca, a garantire la funzione di pagamento, ma non possono essere
utilizzate per la
funzione creditizia.
Dunque, dirimente è il riferimento al citato art. 16, § 2, che
contiene l’elemento
funzionale qualificante del contratto conto di pagamento degli IP:
tale conto di pagamento
può essere utilizzato esclusivamente per le operazioni di pagamento.
La differenza
rispetto al conto corrente bancario sta nell’avverbio
esclusivamente. Quest’ultimo
delimita la funzione in un doppio senso: da un lato perché il
riferimento è solo a quei
servizi di pagamento coperti dalla direttiva bancaria,
essenzialmente dunque bonifici,
addebitamenti diretti, gestione delle carte di pagamento, con
l’importante esclusione
del mezzo di pagamento più tradizionale anche se in via di
obsolescenza, vale a dire
l’assegno bancario, nonché delle operazioni di pagamento effettuate
in contante (considerando
19). Dall’altro, delimita la funzione alle somme depositate quale
provvista per
i servizi di pagamento, quali bonifici e ordini di pagamento
ricorrenti. Sembra, dunque,
che le somme consegnate agli IP siano destinate a rimanere in cassa
quale provvista per i
successivi pagamenti. Ho detto in precedenza che gli IP possono fare
credito, ma è bene
a questo punto precisare che tra le condizioni (le cautele) poste
dalla direttiva vi è quella
che il credito non sia “concesso utilizzando fondi ricevuti o
detenuti ai fini dell’esecuzione
di un’operazione di pagamento”, art. 16, § 3, lett. c), direttiva
2007/64/CE.
Mi si consenta, a questo punto, un’osservazione incidentale ma di
non scarso rilievo.
Se il ragionamento che si va svolgendo è esatto, la conseguenza sarà
che gli IP non
potranno essere partecipi del processo che dà luogo al
moltiplicatore del credito; orbene,
da un punto di vista dei costi-benefici delle scelte legislative
avrebbe dovuto essere
accertato con maggiore cura se tale conseguenza negativa, in termini
economici, sia più
che compensata dal vantaggio atteso della riduzione dei costi
nell’intermediazione dei
pagamenti. Non mi risulta che tale valutazione sia stata fatta.
Il fatto che l’art. 16, § 2, direttiva 2007/64/CE, esprima in
termini funzionali il
connotato tipologico differenziale del contratto “conto di pagamento
dell’IP”, rispetto al contratto conto corrente bancario, quando
precisa – lo si ripete ancora – che i conti
di pagamento degli IP devono essere “utilizzati esclusivamente per
le operazioni di pagamento”,
deve necessariamente riverberarsi in termini contrattuali. Sicché,
ai conti di
pagamento degli IP, si dovrà escludere l’applicazione della
disposizione dell’art. 1834
c.c. che prevede il passaggio della proprietà delle somme dal
depositante al depositario.
Un’ulteriore conseguenza, in termini di disciplina del contratto,
consisterà nell’esclusione
dell’applicazione dell’art. 1853 c.c. Infatti, il forte vincolo di
destinazione
delle somme all’operazione o alle operazioni specificamente
richieste dal cliente, impedisce
che l’IP possa vantare l’ampia facoltà di compensazione, di cui
invece si avvantaggiano
le banche ai sensi dell’art. 1853 c.c.; in altri termini viene meno
la giustificazione
di una regola speciale e si ripristina la norma generale dell’art.
1246, n. 2, secondo la
quale la compensazione non si verifica a fronte di “credito per la
restituzione di cose
depositate”.
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