L' Espresso 15 ottobre 2009
Stato-mafia,
ecco il papello
di
Lirio Abbate
Ecco
il primo documento sulla trattativa tra le istituzioni e Cosa nostra nell'estate
delle stragi. Fogli consegnati ai magistrati dal figlio di Vito Ciancimino
Sono
12 le richieste che i boss di Cosa nostra avanzarono agli uomini delle
istituzioni nell'estate del 1992, fra le stragi Falcone e Borsellino. Una
trattativa che i mafiosi corleonesi avanzarono con lo Stato per fermare le bombe
e la stagione stragista, e arrivare ad una tregua. I 12 punti formano il 'papello',
cioè l'elenco delle richieste scritte su un foglio formato A4 che adesso
Massimo Ciancimino ha consegnato ai magistrati della procura della Repubblica di
Palermo che indagano sulla trattativa fra Stato e mafia. Ma accanto a questo
elenco spunta a sorpresa un altro 'papello' con le proposte e le modifiche ai 12
punti pretesi dai corleonesi che don Vito Ciancimino avrebbe scritto di proprio
pugno e consegnato all'allora colonnello del Ros, Mario Mori. Il fatto, inedito,
è documentato dal L'espresso con alcune foto dei fogli in cui si leggono al
primo punto i nomi di Mancino e Rognoni; poi segue l'abolizione del 416 bis (il
reato di associazione mafiosa); "Strasburgo maxi processo" (l'idea di
Ciancimino era quella di far intervenire la corte dei diritti europei per dare
diverso esito al più grande procedimento contro i vertici di Cosa nostra);
"Sud partito"; e infine "riforma della giustizia all'americana,
sistema elettivo...".
Su questo "papello" scritto da Vito Ciancimino era incollato un
post-it di colore giallo sul quale il vecchio ex sindaco mafioso di Palermo
aveva scritto: "consegnato al colonnello dei carabinieri Mori dei
Ros". Per gli inquirenti il messaggio è esplicito e confermerebbe il fatto
che ci sarebbe stato una trattativa fra i mafiosi e gli uomini delle
istituzioni.
Mostrare ai giudici l'esistenza del 'papello', rappresenta per i pm una prova
tangibile che la trattativa fra mafia e Stato non solo è esistita, ma è anche
iniziata nel periodo fra l'attentato di Capaci e quello di via d'Amelio. Per gli
inquirenti questo documento, consegnato dal dichiarante Massimo Ciancimino, che
collabora con diverse procure, può dare il via a nuove indagini. Con
l'obiettivo di scoprire fino a che punto può essere arrivato il tentativo di
trattativa rivelato dal figlio dell'ex sindaco mafioso.
I 12 punti richiesti da Riina e Provenzano, che sono anche questi al vaglio dei
magistrati, si aprono, invece, con la revisione del maxi processo a Cosa nostra.
Gli altri spaziano dall'abolizione del carcere duro previsto dal 41 bis agli
arresti domiciliari per gli imputati di mafia che hanno compiuto 70 anni. La
lista si conclude domandando la defiscalizzazione della benzina per gli abitanti
della regione siciliana.
da L' Espresso 15 ottobre 2009
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Corriere della Sera 15 ottobre 2009
LA
COPIA È STATA FORNITA DALL'AVVOCATO DI MASSIMO CIANCIMINO AL PROCURATORE
Trattative
tra mafia e Stato
Il
"papello" consegnato ai giudici
Si
tratta del documento con l’elenco delle richieste per interrompere la stagione
delle stragi
PALERMO —
Le condanne definitive nel maxi-processo di Palermo arrivarono a gennaio del
1992, e da lì si scatenò la ven detta di Totò Riina contro lo Sta to. A marzo
fu assassinato Salvo Lima, a maggio saltò in aria Gio vanni Falcone, e dopo la
strage di Capaci la cancellazione di quel verdetto timbrato dalla Cas sazione
viene messa al primo punto delle richieste mafiose al lo Stato per fermare
l’offensiva terroristica.
«1
- Revisione sentenza ma xi- processo» è
scritto in cima al papello finito nelle mani dell’ex sindaco corleonese di
Palermo, Vito Ciancimino, e consegnato ai carabinieri del Ros (il colonnello
Mario Mori e il capitano Giusep pe De Donno) che andavano a far gli visita per
carpire notizie utili alla cattura dei latitanti. Almeno nella loro versione.
Secondo Mas simo Ciancimino invece, figlio di «don Vito» e prin cipale
testimone di questa vicenda, gli ufficiali dell’Ar ma avevano avviato con suo
padre una vera e propria trattati va, dopo Capaci e pri ma della strage di via
D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino, il 19 luglio ’92. Pure questo è un
punto in cui le rico struzioni non coincido no, uno dei nodi cruciali
dell’indagine in corso a 17 anni dai fatti. A riprova di quello che racconta,
Ciancimino jr ha fatto avere l’altro giorno ai pubblici ministeri di Paler mo
una fotocopia del famigerato papello.
È
un foglio di carta bianco, con
dodici pun ti scritti a mano, in stampatello, senza errori di ortografia tranne
uno (fragranza invece di flagranza), con calligrafia chiara. Che non sembra
quella di Riina, né di Bernardo Proven zano. Secondo i racconti del gio vane
Ciancimino, lui lo ritirò chiuso in una busta, in un bar di Mondello, dal
medico condanna to per mafia Antonino Cinà. Lo portò a suo padre e poi lo
rivide nelle mani del misterioso «si gnor Franco», o «Carlo», l’uomo mai
identificato dei servizi segre ti o di qualche altro apparato che pure partecipò
alla trattativa. L’intermediario disse a Vito Cian cimino che poteva andare
avanti, e l’ex sindaco ordinò al figlio di combinare un altro appuntamen to
con Mori e De Donno. A loro diede il papello, e a riprova di ciò — sempre
secondo Ciancimino jr — sull’originale del documen to è applicato un
post-it scritto a mano dal padre dove si legge «Consegnato in copia spontanea
mente al col. Mori, dei carabinie ri dei Ros». I magistrati non hanno ancora
l’originale, e per adesso studiano il contenuto della fotocopia giun ta via
fax all’avvocato di Massi mo Ciancimino, che l’ha portata in Procura. Dopo
il maxi-proces so i mafiosi si preoccupano di abolire il «41 bis» che prevede
il «carcere duro» per i mafiosi, la revisione della legge Rognoni-La Torre e
di quella sui pentiti.
Poi,
al punto 5, compare un argomen to che
solo anni dopo sarà tratta to dai boss di Cosa Nostra, come possibile via
d’uscita dagli erga stoli: «Riconoscimento benefici dissociati (Brigate
rosse) per con dannati di mafia». Con evidente riferimento alla legge fatta per
gli ex terroristi. È strano che già se ne parli nel ’92, quando i capi sono
tutti latitanti, ma questo ri sulta dal papello. Al punto 7, dopo la richiesta
degli arresti domiciliari per gli ul trasettantenni, s’invoca la chiusu ra
delle carceri speciali. Poi ci si concentra sui rapporti con i fami liari: dalla
detenzione vicino alle abitazioni delle famiglie all’esclu sione della censura
della posta, fi no all’esclusione delle misure di prevenzione per mogli e
figli. C’è poi la proposta di procedere al l’arresto «solo in fragranza di
re ato », come se le manette potesse ro scattare durante una riunione tra
mafiosi o subito dopo l’esecu zione di un omicidio, mai in altri casi. Una
sorta d’immunità per i boss, come per i parlamentari.
Nella
foto Vito Ciancimino
Con
l’ultimo punto ci si preoccupa di tutt’altro argomento: «Le
vare tasse carburanti, come Aosta ». Improvvisamente, dalle condizioni di vita
dei detenuti (e dei loro parenti) e dalle riforme del codice penale, si passa a
que stioni economiche come la defiscalizzazione della benzina. E in sieme al
papello Massimo Cianci mino ha consegnato alcuni fogli manoscritti dal padre
dove, fra varie argomentazioni di tipo poli tico- programmatico, si cita l’abo
lizione del monopolio del tabac co. In quelle carte compaiono an che i nomi di
Nicola Mancino e Virginio Rognoni. Il primo divenne ministro dell’Interno il
1˚ lu glio 1992, il secondo fu ministro della Difesa fino a quella data.
Entrambi hanno sempre detto di non aver mai saputo nulla della «trattativa»
con la mafia, ma il riferimento a Rognoni viene consi derato dagli inquirenti
un altro indizio che il confronto tra lo Sta to e i boss (tramite l’ex sindaco
di Palermo) sarebbe cominciato dopo la strage di Capaci ma pri ma di quella di
via D’Amelio. E che forse Paolo Borsellino morì anche perché era diventato
un ostacolo da rimuovere.
MAFIA
- I CONTATTI SEGRETI
Le
dodici richieste di Riina
per fermare le stragi
Svelato
il mistero del "papello": così il boss cercò di piegare lo Stato
ROMA
Eccolo, dunque, il famigerato «papello», la lista della spesa, la
contropartita che nel 1992 - fra le stragi di Capaci e via D’Amelio - la
Cosa nostra di Totò Riina chiedeva allo Stato per concedere in cambio una
tregua nella sanguinosa mattanza siciliana. E’ un misero foglio di carta,
alquanto sgualcito, dove in caratteri a stampatello sono stati stilati dodici
punti di richieste. Un foglio che, al bar Caflish di Mondello, Massimo
Ciancimino prese dalle mani del «messaggero», il medico mafioso Nino Cinà,
per consegnarlo al padre.
Operazione eseguita alla presenza del famigerato «signor Franco», il
mediatore dei servizi segreti ancora anonimo. Un semplice foglio di carta che
ha tenuto in allerta per anni un esercito di investigatori. La caccia al «papello»,
infatti, è in atto da quando il pentito Giovanni Brusca ne rivelò
l’esistenza per dar forza all’ipotesi (allora era tale) che fra Stato e
mafia si fosse svolta una trattativa che aveva visto protagonisti da un lato
il capo di Cosa nostra, attraverso i buoni uffici dell’ex sindaco Vito
Ciancimino, dall’altro il generale Mario Mori. Non si sa ancora - neppure i
due processi celebrati a carico di ufficiali dei carabinieri hanno risolto
l’enigma - se il Reparto operazioni speciali dell’Arma abbia agito per
iniziativa propria, o se in qualche modo abbia avuto una qualche
sollecitazione e copertura politiche.
Il documento pervenuto alla magistratura palermitana è corredato da un
post-it, con una annotazione attribuibile alla grafia di Vito Ciancimino che
precisa: «Consegnata copia al col. dei CC Mori, del Ros». Dal momento che
Mori, ma anche il colonnello De Donno, altro polo della trattativa, hanno
sempre negato di aver mai ricevuto il «papello» di cui parlò Brusca,
spetterà ai magistrati stabilire se il post-it sia certamente da mettere in
relazione al foglio oppure a una qualsiasi altra «cosa» che Ciancimino abbia
consegnato ai carabinieri.
E veniamo alle dodici richieste: tutte quasi completamente inaccettabili,
tanto che lo stesso Vito Ciancimino, quando ne prese visione, ebbe a
commentare, riferendosi ai mittenti: «Le solite teste di minchia». Al primo
punto la mafia chiedeva la revisione del maxiprocesso, appena chiuso in
Cassazione con dodici condanne all’ergastolo, praticamente la cupola nella
sua interezza. Non è sorprendente, questa richiesta, dal momento che
l’esito negativo (per la mafia) del maxiprocesso rappresenta la causa di
tutti i successivi «disastri», compresa la decisione di Cosa nostra di
intraprendere la strategia stragista. La lista, oggi in mano ai pubblici
ministeri di Palermo, si chiude con una pretesa di natura politica,
probabilmente inserita per dare al «papello» la connotazione di un «documento
di popolo» condiviso dai siciliani. La mafia, perciò, chiedeva la
defiscalizzazione della tassa sul carburante: un pallino, questo, più volte
manifestato da diversi governi dell’Autonomia siciliana.
Ma il «papello» va oltre, con pretese pesanti: la riforma dei pentiti,
l’abolizione della legge Rognoni-La Torre (che regola il sequestro dei beni
illeciti), l’abolizione del «decreto sui carcerati», così viene chiamato
dall’anonimo estensore il «41 bis» che in quel momento era ancora un
decreto, la libertà (anche attraverso il «carcere a casa») per i detenuti
che hanno superato i 70 anni, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e
Asinara (oggi avvenuta senza alcun merito del «papello»), l’abolizione
della censura tra i detenuti e i familiari, il trasferimento dei carcerati
nelle strutture vicine alle proprie famiglie. Ma la richiesta più curiosa,
certamente parto di una fervida mente politico-giudiziaria, riguarda
l’ipotesi di una riforma che introducesse il principio dell’abolizione del
reato di mafia (416 bis) e rendesse possibile gli arresti solo in «fragranza
(testuale, ndr) di reato». In pratica la perfetta imitazione della «immunità
parlamentare» allora non ancora abolita. L’errore linguistico, «fragranza»,
è l’unico riscontrabile in tutto il «papello» che sembra scritto da
persona sufficientemente scolarizzata e, secondo le valutazione dello stesso
Vito Ciancimino, «alquanto giovane».
Il documento è stato recapitato alla Procura di Palermo dal legale di Massimo
Ciancimino. Il figlio di don Vito - che collabora anche coi magistrati di
Caltanissetta - lo ha recuperato in una cassetta di sicurezza all’estero e
trasmesso all’avvocato per fax. Insieme col «papello», ai magistrati sono
pervenuti altri documenti. Si tratterebbe di opinioni, attribuibili all’ex
sindaco di Palermo, scritte e indirizzate ai destinatari delle richieste di
Totò Riina. Un paio di pagine dove c’è di tutto, compreso un riferimento
ad alcune affermazioni di Leonardo Sciascia. In una pagina, che Massimo
Ciancimino definisce «allegato alla trattativa», risaltano i nomi di Rognoni
e Mancino scritti per mano di don Vito.
E’ utile ricordare che entrambi i politici chiamati in causa hanno smentito
di aver saputo mai di una trattativa tra Stato e mafia. Il resto degli appunti
sembrano essere possibili «soluzioni» per ottenere quanto chiesto nel «papello»,
per esempio la revisione del maxiprocesso attraverso il ricorso alla Corte di
Strasburgo. Ma non mancano argomenti di palpitante attualità: il «partito
del Sud» e la «riforma della giustizia».
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Repubblica
20 ottobre 2009
Le
dichiarazioni spontanee dell'ex comandante del Ros al Tribunale di Palermo
nel processo in cui è imputato per favoreggiamento di Cosa nostra insieme al
colonnello Obinu
Mori:
"Tra mafia e Stato
non ci fu alcuna trattativa"
"Ogni
'accordo' del genere implicava una resa vergognosa dello Stato
a una banda di criminali assassini, e sarebbe stata impensabile"
PALERMO -
Non ci fu nessuna trattativa tra la mafia e lo Stato. Lo ha detto il prefetto
Mario Mori, ex comandante del Ros dei carabinieri, che ha reso dichiarazioni
spontanee davanti al Tribunale di Palermo nel processo in cui è imputato di
favoreggiamento aggravato di Cosa Nostra, assieme al colonnello Mauro Obinu, per
la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995. Mori ha spiegato di
aver incontrato più volte l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, ma
ha negato che vi sia stata una trattativa sul così detto "papello",
le richieste dei boss allo Stato, messe nero su bianco da Totò Riina.
"Incontrai più volte Vito Ciancimino - ha detto Mori - e cercai più volte
contatti con la commissione Antimafia senza che avessi obbligo di farlo. Proprio
gli incontri con Ciancimino furono la prova che una trattativa con Cosa Nostra
non ci fu". E poi: "Ogni trattativa del genere e questa in particolare
che implicava una resa vergognosa dello stato a una banda di criminali assassini
- ha aggiunto - sarebbe stata impensabile".
L'ex comandante del Ros ed ex capo del Sisde ha parlato a lungo davanti al
Tribunale, per rivendicare la correttezza del suo operato. Mori ha preso la
parola dopo la deposizione dell'ex presidente della Camera ed ex presidente
della commissione parlamentare Antimafia, Luciano Violante, sentito dai giudici
proprio sui contatti che ebbe all'epoca con Mori.
L'allora alto ufficiale dei carabinieri aveva informato Violante dell'intenzione
di Vito Ciancimino di avere un incontro con la commissione Antimafia.
Circostanze che Violante ha sostanzialmente confermato. "Violante ricorda
seppur lacunosamente, ma conferma quanto ho detto io. Il mio comportamento fu
improntato alla massima trasparenza", ha affermato Mori.
da Repubblica 20 ottobre 2009
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Rai News 24 20 ottobre 2009
Di
Pietro chiede l'audizione dell'ex presidente Violante
La
richiesta riguarda la vicenda di Vito Ciancimino che la Commissione parlamentare
Antimafia, in quegli anni presieduta da Luciano Violante, non ritenne di
ascoltare nonostante l'ex sindaco di Palermo ne avesse fatto espressa richiesta.
Il leader dell'Idv rende noto il passaggio della lettera dell'ex sindaco.
Roma,
20-10-2009
"Oggi,
in commissione Antimafia, abbiamo messo le mani su un documento che dimostra in
modo inequivocabile che, negli anni '92,' 93 e '94, un pezzo di Stato e
importanti uomini politici hanno occultato la possibilita' di conoscere e far
conoscere al Paese le ragioni per cui in quegli anni ci furono le stragi di
mafia". Lo afferma Antonio Di Pietro, presidente dell'Italia dei Valori,
componente dell' Antimafia.
"E'
una questione politica e morale grossa come una casa che deve essere affrontata
e risolta e riguarda i motivi per cui la Commissione parlamentare Antimafia, in
quegli anni, non ritenne di ascoltare Vito Ciancimino che ne aveva fatto
espressa richiesta, addirittura con una lettera scritta, nella quale
testualmente affermava: 'l'omicidio dell'onorevole Lima e di quelli che vanno
oltre la persona della vittima e puntano in alto, un avvertimento, come si suol
dire. Sono stato, per molti anni, testimone ed in parte protagonista di un certo
contesto politico. Sono convinto che questo delitto faccia parte di un disegno
piu' vasto, un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre
cose"'.
Insomma,
prosegue Di Pietro, "Ciancimino era a conoscenza di fatti e circostanze che
riguardavano le stragi di mafia di quell'epoca (Falcone e Borsellino compresi) e
degli oscuri rapporti tra mafia e Stato e voleva informarne la Commissione.
Nonostante cio', la Commissione Antimafia, dopo aver pure deliberato, il 6
luglio '93, di ascoltare Ciancimino, poi se ne e' guardata bene dal farlo.
Evidentemente qualcuno in alto, molto in alto, (come alludeva Ciancimino), non
voleva che si conoscesse la verita' ed ha lasciato cosi' che prima proseguissero
le stragi e poi che si instaurasse un'immorale trattativa tra Stato e
mafia".
"Per
questa ragione - conclude Di Pietro - oggi ho chiesto l'audizione urgente
dell'allora Presidente della Commissione Antimafia, l'onorevole Luciano
Violante, affinche' renda note le ragioni per cui la commissione non ha
ottemperato all'audizione di Ciancimino. Audizione che la stessa Commissione
aveva disposto"
Rai
News 24 20 ottobre 2009
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Il
Secolo XIX 20 ottobre 2009
“Pax
mafiosa”: Mori smentisce Grasso
E ringrazia Violante
20
ottobre 2009
Lo
ha detto Mario Mori, ex comandante del Ros oggi consulente per la Regione
Lombardia sui temi della legalità, che ha reso dichiarazioni spontanee nel
processo di Palermo in cui è imputato per il mancato arresto di Bernardo
Provenzano. Tra i testi d’accusa l’ex ufficiale dell’Arma, il savonese
Michele Riccio. Ciancimino jr chiede protezione. Ascoltato anche Luciano
Violante.
Una
trattativa, per sua natura, deve essere riservata, presuppone il rispetto del
segreto. Io parlai dei miei incontri con Ciancimino prima con Violante, allora
presidente dell’Antimafia, poi con Caselli, che si era appena insediato al
vertice della Procura di Palermo”. Respinge l’accusa di avere dato il via
alla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia il prefetto Mario Mori, ex
comandante del Ros sotto processo a Palermo per favoreggiamento a Cosa nostra.
E, di fatto, risponde e smentisce il Procuratore nazionale antimafia Grasso che
ieri aveva parlato apertamente di trattativa e che questa aveva salvato molto
ministri nel periodo delle stragi mafiose.
Mori
ha chiesto di fare dichiarazioni spontanee dopo la deposizione, al dibattimento,
dell’ex presidente dell’Antimafia Luciano Violante che ha ricostruito i suoi
incontri con l’ufficiale dell’Arma. L’ex politico ha riferito che in
quelle occasioni Mori gli fece presente l’intenzione dell’ex sindaco di
Palermo Vito Ciancimino di essere ricevuto a palazzo San Macuto.
“La
ricostruzione di Violante - ha detto Mori - è per me di grande importanza perché
prova, pur avendo molte lacune, che il mio comportamento fu trasparente”.
LE
DICHIARAZIONI SPONTANEE DI MORI
Non ci fu nessuna trattativa tra la mafia e lo Stato: lo ha detto il prefetto
Mario Mori, ex comandante del Ros dei carabinieri, che ha reso dichiarazioni
spontanee davanti al tribunale di Palermo nel processo in cui è imputato
(insieme con il colonnello Mauro Obinu) di favoreggiamento aggravato di Cosa
nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995. Processo in
cui tra o testi c’è anche Michele Riccio, ex ufficiale savonese dell’Arma
(condannato in appello a Genova a 4 anni per la gestione irregolare di una serie
di operazioni di servizio) che riferì di avere avuto indicazioni da un giovane
confidente (poi ucciso) e di non avere avuto riscontro dalle sue segnalazioni
contenute in tre vecchi floppy disk recentemente consegnati alla magistratura
siciliana.
Mori
ha detto di aver incontrato più volte l’ex sindaco di Palermo, Vito
Ciancimino (condannato per mafia), ma ha negato che vi sia stata una trattativa
sul così detto “papello”, il documento con le richieste dei boss allo
Stato, messe nero su bianco da Totò Riina: «Incontrai più volte Ciancimino e
cercai più volte contatti con la commissione Antimafia senza che avessi obbligo
di farlo. Proprio gli incontri con Ciancimino furono la prova che una trattativa
con Cosa Nostra non ci fu - ha affermato Mori - «Ogni trattativa del genere e
questa in particolare che implicava una resa vergognosa dello Stato a una banda
di criminali assassini sarebbe stata impensabile».
L’ex
comandante del Ros ed ex capo del Sisde (servizi segreti) ha parlato a lungo
davanti al tribunale, per rivendicare la correttezza del suo operato; ha preso
la parola dopo la deposizione di Luciano Violante, ex presidente della Camera ed
ex presidente della commissione parlamentare Antimafia, sentito dai giudici
proprio sui contatti che ebbe all’epoca con Mori. L’allora alto ufficiale
dei carabinieri aveva informato Violante dell’intenzione di Vito Ciancimino di
avere un incontro con la commissione Antimafia; circostanze che Violante ha
sostanzialmente confermato: «Violante ricorda, seppur lacunosamente, ma
conferma quanto ho detto io. Il mio comportamento fu improntato alla massima
trasparenza», ha detto Mori.
LA
DEPOSIZIONE DI VIOLANTE
Ascoltato come testimone, Violante ha raccontato gli incontri, avvenuti dopo le
stragi di Capaci e via D’Amelio, con Mori: dopo il primo, durante il quale
Mori gli disse della volontà di Ciancimino di avere un colloquio, «al secondo
appuntamento il generale Mori mi portò il libro di Vito Ciancimino sulle mafie
che io lessi, giudicandolo mediocre e che presi solo come una sorta di segno di
disponibilità dell’ex sindaco»; infine, il terzo incontro, in cui Violante
ribadì di non avere alcuna intenzione di sostenere colloqui riservati con
l’ex sindaco di Palermo: «La chiave che detti alla richiesta di incontro - ha
spiegato Violante - fu che, visto il momento (era stato appena ucciso Lima, ndr)
Ciancimino volesse parlare dei rapporti tra andreottiani e mafia o della vicenda
relativa alla confisca dei suoi beni, che pendeva in appello davanti
all’autorità giudiziaria di Palermo».
Violante
ha poi riferito di avere chiesto a Mori se la Procura del capoluogo siciliano
fosse stata informata della richiesta di colloquio fatta da Ciancimino: «Lui mi
rispose di no, perché si trattava di affari politici»; i 29 ottobre, dopo i
tre incontri con Mori, Violante avrebbe informato l’ufficio di presidenza
della commissione Antimafia che si sarebbe potuto ascoltare l’ex sindaco perché
aveva ritrattato le condizioni che aveva posto all’ex presidente della
commissione Chiaromonte di essere ripreso, durante l’audizione, dalle
televisioni: «L’audizione - ha concluso Violante - non si fece perché
Ciancimino venne arrestato».
CIANCIMINO
JR, NON PARLO SE NON TUTELATO
“Se non mi tutelano, non parlo più. Ho una serie di problemi e sono stato
costretto a comprare, io stesso, una macchina blindata su cui, però, la scorta
non può salire. Ho paura per la mia famiglia e per me”. E’ una sorta di aut
aut quello lanciato da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di
Palermo Vito, che sta rivelando ai magistrati i particolari della trattativa tra
Stato e mafia. Ciancimino ha denunciato di essere stato vittima di
intimidazioni, nei mesi scorsi, e per questo era stato sottoposto a vigilanza.
Domenica sera, sotto la sua abitazione di Bologna, gli agenti della tutela hanno
fermato due persone armate poi rivelatesi due carabinieri. ”A me - ha rivelato
Ciancimino - hanno detto che erano del Ros; poi è venuto fuori che si trattava
di militari del nucleo investigativo. Comunque stiano le cose è inconcepibile
che il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, che è composto da tutte
le forze dell’ordine, non fosse informato della presenza dei carabinieri
davanti alla mia abitazione”. “Cosa sarebbe accaduto se la mia scorta - ha
aggiunto - vedendo i due uomini armati avesse perso la testa e fatto fuoco. Io
devo tutelare mia moglie e mio figlio”.I difensori hanno dismesso il mandato
in segno di protesta.
PRC
LOMBARDIA, REVOCARE INCARICO A MORI E DE DONNO- Il Prc in Regione
Lombardia ha depositato oggi un’interpellanza in Consiglio Regionale per
chiedere al presidente Roberto Formigoni di «revocare con urgenza, al generale
Mario Mori e al colonnello Giuseppe De Donno, l’incarico di componenti esterni
nel Comitato regionale per la legalità e la trasparenza delle procedure
regionali», organismo istituito lo scorso agosto dal presidente stesso. «Siamo
garantisti e non amiamo le condanne preventive, ma riteniamo - spiega in una
nota il consigliere Luciano Muhlbauer - che l’azione di contrasto al crimine
organizzato in Lombardia, specie ora che si avvicinano gli appalti di Expo 2015,
sia questione troppo seria perché possa essere lasciato spazio a dubbi e zone
d’ombra». Muhlbauer, in particolare, si riferisce al fatto che i due
componenti del Comitato «sono sotto inchiesta a Palermo e a Caltanissetta per
fatti risalenti alla stagione stragista di Cosa Nostra, quando i due alti
ufficiali dell’Arma svolgevano funzioni di direzione del Ros». In
sostituzione di Mori e De Donno, l’esponente del Prc propone di inserire nel
Comitato «due personalità indicate dalla Direzione distrettuale antimafia, al
fine di garantire la necessaria credibilità e trasparenza all’azione di
Regione Lombardia nel contrasto al crimine organizzato e al malaffare».
Il
Secolo XIX 20 ottobre 2009