La
Stampa 04 12 2009
BOSS
E POLITICA - L'INCHIESTA SULLE STRAGI
Mafia,
Spatuzza accusa Berlusconi
Il
pentito depone in aula a Torino:
«Il boss Graviano mi parlò di lui e
disse: "Ci ha consegnato il Paese"»
TORINO
Sono le 12.35 quando Gaspare Spatuzza, il boss affiliato al clan dei
fratelli Graviano, cita per la prima volta il presidente del Consiglio,
Silvio Berlusconi, «quello di Canale 5». È nell’aula bunker del
tribunale di Torino e sta ricostruendo davanti alla Corte d’Appello di
Palermo di un incontro a Roma con Giuseppe Graviano prima dell’attentato
allo stadio Olimpico: «Con espressione gioiosa - dice il boss - Giuseppe
Graviano mi riferisce che abbiamo chiuso tutto e ottenuto quello che
volevamo grazie alla serietà delle persone che ci hanno messo il Paese
nelle mani».
È il momento-clou dell’udienza d’appello contro Marcello Dell’Utri,
celebrata a Torino tra stringenti misure di sicurezza e il divieto assoluto
per telecamere e fotografi di riprendere il boss. Si va aventi per tutto il
giorno: prima il respingimento della Corte dell’inammissibilità di
Spatuzza a testimoniare chiesta dalla difesa di Dell’Utri. Poi il
procuratore generale, Antonino Gatto, inizia l’interrogatorio. Una pausa
di un’oretta a metà giornata e tocca ai legali della difesa, Nino Mormino
e Alessandro Sammarco. La corte a quel punto si ritira in camera di
consiglio e decide che occorre ascoltare Filippo e Giuseppe Graviano, per
avere un riscontro sulle dichiarazioni del pentito. Lo farà l’undici
dicembre a Palermo nell’aula della prima sezione penale della Corte
d’appello.
In aula a Torino questa mattina c’era anche Dell’Utri, che è già stato
condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.
Spatuzza parla nascosto da un paravento, e ricostruisce il colloquio al bar
Doney di via Veneto a Roma con Giuseppe Graviano: «Con espressione gioiosa
come se avesse vinto alla Lotteria o avesse avuto un figlio - dice -
Giuseppe Graviano mi riferisce che hanno chiuso tutto e ottenuto quello che
volevamo grazie alla serietà delle persone che avevano portato avanti
quella storia e non come quei quattro crasti socialisti che avevano preso i
voti nel 1988 e 1989 e poi ci avevano fatto la guerra». Dietro i «quattro
crasti» di cui parla Spatuzza ci sono i socialisti che il clan Graviano ha
sostenuto nelle elezioni alla fine degli anni Ottanta. «Nel 1988 o 1989
Giuseppe Graviano mi disse portare avanti le candidature socialiste -
racconta - All’epoca Claudio Martelli era capolista, c’era Fiorino e
altri che non ricordo. A Brancaccio facemmo di tutto per farli eleggere e i
risultati si videro: facemmo bingo».
Il killer affiliato al clan di Giuseppe Graviano, che considera «una padre»,
parla di una serie «anomalie» che ha individuato negli anni in cui ancora
agiva per Cosa Nostra. Racconta di cinque lettere affidategli prima delle
stragi del 1993 da parte di Giuseppe Graviano: due, secondo le sue
ricostruzioni, sono state inviate ai giornali Il
Messaggero e Corriere
della Sera le altre non
ricorda a chi fossero destinate. Poi spunta quella che per lui è un’altra
anomalia: quella dei «morti che non ci appartengono» nelle stragi di
Firenze e Milano. Si era permesso di chiedere spiegazioni a Giuseppe
Graviano che invece gli aveva spiegato essere un «bene» perché con quei
morti «chi si deve muovere si dà una mossa». E arriva l’altra anomalia:
l’unico supermercato Standa aperto al quartiere Brancaccio a Palermo: «La
parola Standa mi dice tutto oggi - dice - È l’unica a Palermo e visto che
il signor Berlusconi ha la proprietà della Standa mi sembra un’anomalia».
Ma nelle deposizioni di Spatuzza c’è anche spazio per le ragioni del suo
pentimento e della decisione di collaborare con la giustizia. Ammette di
aver «vigliaccatamente gioito» delle stragi di Capaci e di via D’Amelio
in cui vengono ammazzati i giudici Falcone e Borsellino. È il 2000 quando
comincia la sua dissociazione verso Cosa Nostra e i fratelli Graviano. «Avevo
iniziato un percorso di ravvedimento personale: è stato un bellissimo
cammino - racconta - Un cappellano mi ha accompagnato in questo bellissimo
percorso e mi ha fatto conoscere le sacre scritture. È padre Pietro
Capoccia di Ascoli Piceno. Io in quel momento ho deciso di amare Dio e
ripudiare mammona dove mammona è Cosa Nostra». Ora ritiene che la sua «missione»
sia quella di «restituire la verità alla storia». «Non mi fermerò di
fronte a niente - dichiara - È una mia missione per dare onore a tutti quei
morti, a tutta quella tragedia. È un mio dovere». E quando la difesa di
Dell’Utri gli chiede perchè abbia fatto i nomi di Berlusconi e Dell’Utri
dopo un anno dall’inizio della colaborazione lui dice: «I timori di
parlare del presidente del Consiglio Berlusconi erano e sono tanti. Quando
cominciano i primi colloqui c’era come primo ministro Berlusconi».
da
Repubblica del 01 12 2009
Durante
un convegno a Pescara, il presidente della Camera non sa che i microfoni sono
aperti
e parla a ruota libera con un magistrato suo amico. E spiega le sue opinioni sul
premier
Fini,
fuorionda su Berlusconi: "Ha il consenso
per governare, ma non l'immunità assoluta"
"Lui
confonde la leadership con la monarchia assoluta... il consenso popolare che lo
legittima a governare, con una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi
altra autorità..."
ROMA -
Il 6 novembre scorso il presidente della Camera Gianfranco Fini partecipa a
Pescara alla giornata conclusiva del "Premio Borsellino". In
quell'occasione discute con il procuratore della Repubblica Nicola Trifuoggi che
è seduto accanto a lui. Tra i due c'è una conoscenza di antica data. Fini,
convinto che la conversazione si svolga a microfoni spenti, parla delle vicende
di stringente attualità, tra cui quelle che riguardano Silvio Berlusconi, le
sue inchieste giudiziarie e le rivelazioni del pentito Spatuzza. Si tratta di
una conversazione dai toni colloquiali nella quale, tuttavia, il presidente
della Camera ribadisce alcuni concetti espressi più volte anche in sedi
istituzionali.
GUARDA IL FUORIONDA
Fini: "A
Scampia c'è un altro sacerdote che si chiama Don Aniello e di cognome
Mancaniello, ed è un personaggio come questo (ndr Don Luigi Merola). Una volta
è venuto un guappo e lui gli ha detto 'Io non sono un prete, so un mancaniello!'"
Subito dopo il presidente della Camera indica a don Merola, che si lamentava del
fatto di non essere ancora mai riuscito ad incontrare il ministro Gelmini, il
suo segretario personale.
Fini: "Qualche
giorno fa rileggevo un libro sull'Italia giolittiana e a Giolitti, che era
considerato il ministro della malavita, un oppositore gli disse: 'Lei
rappresenta lo stato... participio passato del verbo essere'. Efficace,
no?"
Trifuoggi: "Potrebbe
essere riesumata"
Fini: "Infatti
non escludo di farlo, citando la fonte... prima o poi lo faccio"
**********
Fini
(riferendosi ad Aldo Pecora): "Lui
è un creativo nato, perché il movimento lo ha chiamato 'Ammazzateci tutti'...
e sì... il talento è quello"
Pecora nell'ambito del suo discorso afferma: "Noi siamo di passaggio, qua
nessuno è eterno, non si vive in eterno"
E
allora Fini commenta: "...
se ti sente il Presidente del Consiglio si incazza"
**********
Fini: "Sono
un ragazzaccio io... come dicevano i greci... poco se mi giudico molto se mi
confronto... è così, sembra una battuta invece è una massima di vita. E'
l'umiltà e nello stesso tempo la consapevolezza di vivere"
**********
Fini: "Per
i ragazzi come questi (riferendosi a Pecora) .. è chiaro che una delusione a 23
anni, non alla nostra età, ti toglie qualunque possibilità di credere nella
vita"
**********
Fini,
rivolgendosi a Pecora: "Con
la giacca e la cravatta sei ancora più bravo"
**********
Fini: "E'
che con i ragazzi non parli con le parole ma con gli esempi"
**********
Fini: "Il
riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza (ndr il pentito Gaspare Spatuzza)...
speriamo che lo facciano con uno scrupolo tale da... perché è una bomba
atomica"
Trifuoggi: "Assolutamente
si... non ci si può permettere un errore neanche minimo"
Fini: "Si
perché non sarebbe solo un errore giudiziario, è una tale bomba che... lei lo
saprà .. Spatuzza parla apertamente di Mancino, che è stato ministro degli
Interni, e di ... (ndr Berlusconi?)... uno è vice presidente del CSM e l'altro
è il Presidente del Consiglio..."
Trifuoggi: "Pare
che basti, no"
Fini: "Pare
che basti"
Trifuoggi: "Però
comunque si devono fare queste indagini"
Fini: "E
ci mancherebbe altro"
Fini: "No
ma lui, l'uomo confonde il consenso popolare che ovviamente ha e che lo
legittima a governare, con una sorta di immunità nei confronti di... qualsiasi
altra autorità di garanzia e di controllo... magistratura, Corte dei Conti,
Cassazione, Capo dello Stato, Parlamento... siccome è eletto dal popolo...
Trifuoggi: "E'
nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l'imperatore romano"
Fini: "Ma
io gliel'ho detto... confonde la leadership con la monarchia assoluta.... poi in
privato gli ho detto... ricordati che gli hanno tagliato la testa a... quindi
statte quieto"
**********
Fini applaude
Nino Di Matteo ed esclama "Bravo"
Nino Di Matteo, sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia di
Palermo, con il collega Antonio Ingroia, sta raccogliendo le dichiarazioni di
Massimo Ciancimino (ndr figlio di Vito) sulla trattativa avvenuta nel '92 fra
Cosa nostra e pezzi dello Stato.
E' inoltre PM del processo Mori.
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Corriere
della Sera 29 novembre 2009
I
pm e quelle domande
a
Spatuzza sul Cavaliere
Negli
interrogatori del pentito anche il procuratore Quattrocchi si concentra sul
ruolo dei politici
C’
era anche il procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi, il 18 giugno scorso,
nel «luogo riservato non indicato per motivi di sicurezza» dove s’è svolto
l’interrogatorio di Gaspare Spatuzza nel quale per la prima volta (almeno
stando ai verbali trasmessi a Palermo) il pentito ha fatto i nomi di Silvio
Berlusconi e Marcello Dell’Utri. E’ l’occasione in cui l’ex mafioso
della cosca dei fratelli Graviano racconta di quando Giuseppe Graviano gli disse
che s’era chiuso l’accordo politico con quei due personaggi, in un bar di
via Veneto a Roma, a gennaio del 1994.
Durante
quell’interrogatorio il procuratore Quattrocchi è
ovviamen te interessato alle rivelazioni del col laboratore di giustizia, come i
due sostituti Nicolosi e Crini, e di tanto in tanto interviene. Anche per chie
dere particolari apparentemente insi gnificanti, ma utili per la ricerca di
eventuali riscontri. Per esempio vuol sapere se l’incontro tra Spatuz za e
Graviano avvenne di giorno o di sera. E chiede al pentito di ricordare con
esattezza le espressioni usate da Giuseppe Graviano quando gli parlò
dell’attuale presidente del Consiglio che, a suo dire, aveva chiuso l’accor
do con la mafia. «Ma Berlusconi è in teressato a che cosa? — domanda
Quattrocchi —. L’ha detto lui quan do ha fatto il nome di Berlusconi che
mette a paragone dei crasti (cornuti, secondo l’espressione usata da Graviano
con Spatuzza; ndr ) che non avevano adempiuto? Questo Berlu sconi, lui che cosa
ha detto? Che pos sibilità aveva e che interesse aveva a fare queste cose,
l’ha precisato?». Il pentito risponde in maniera molto vaga, ripetendo ciò
che ave va già detto: «Sì, abbiamo chiuso tutto. Per noi a Roma là si è
chiuso tutto. Là è il colpo di grazia (riferi to all’attentato
dell’Olimpico poi fallito; ndr ), quindi a ’sto punto le persone serie gli
avevano dato a lui quello che lui andava cercando». L’interrogatorio prosegue
per altre cinquanta pagine di verbale, e i quesiti si concentrano sulla princi
pale novità introdotta da Spatuzza, cioè il presunto accordo politico tra
Graviano e Berlusconi. Cercan do di approfondire il più possibile il ruolo dei
politici. Le domande, comprese quelle del procuratore Quattrocchi, conferma no
che da quel giorno l’indagine di Firenze sui mandanti delle stragi ma fiose
del ’93 s’è concentrata nuova mente sui possibili retroscena politi ci, già
cercati senza successo nell’in chiesta archiviata undici anni fa.
È
dunque
evidente, e non poteva esse re altrimenti, che
dal momento in cui l’ex mafioso della cosca Gravia no ha parlato di Berlusconi
e Del l’Utri il lavoro degli inquirenti ha preso anche quella direzione. Oltre
agli accertamenti su un paio di ulte riori esecutori materiali, anch’essi
emersi dalle dichiarazioni di Spatuz za, confermati ieri da Quattrocchi. Al di là
dell’aspetto tecnico-forma le dell’iscrizione o meno dei nomi dei due
politici sul registro degli in dagati (o di due pseudonimi, come accadde nel
1996 con l’indicazione di AutoreUno e AutoreDue), dagli at ti fiorentini ora
allegati al processo d’appello contro Marcello Dell’Utri (già condannato in
primo grado per concorso in associazione mafiosa) emerge piuttosto chiaramente
che i pubblici ministeri hanno ripreso a indagare sul loro ipotetico coinvolgi
mento. Attraverso le domande a Spa tuzza, ma non solo. Per verificare la
plausibilità dell’incontro tra il penti to e Giuseppe Graviano al bar Doney
di via Veneto, hanno ripescato verba li di altri pentiti di tanto tempo fa,
acquisito foto e planimetrie del loca le, cercato altri riscontri. E sono an
dati a riascoltare i collaboratori di giustizia che già dieci anni fa aveva no
tirato in ballo il premier e il suo braccio destro siciliano. Un aspetto
dell’indagine strettamente collegato al presunto patto del ’94 tra
Graviano e i politici è pu re quello della «trattativa» prosegui ta, secondo
Spatuzza, nei dieci anni successivi. Anche su questo — come i loro colleghi di
Palermo e Caltanis setta — lavorano gli inquirenti tosca ni. Il pentito
racconta di quando nel 2002 Filippo Graviano, nel carcere di Tolmezzo, gli
confidò che «se non arriva niente da dove deve arrivare», cioè un intervento
di parte politica in favore dei detenuti di mafia, sa rebbe stato il caso di
cominciare a parlare coi magistrati. È un passag gio importante dei rapporti ma
fia- istituzioni scaturiti dalla «strate gia stragista» di Cosa Nostra.
E
sullo
sfondo c’è ancora Berlusconi, visto che nel periodo di cui parla
Spatuzza c’era di nuovo un governo guidato dal fondatore di Forza Italia.
Nell’interrogatorio del 29 giugno 2009 è ancora il procuratore Quat trocchi a
inserirsi con una domanda «a proposito sempre degli interlocu tori politici»,
per sapere se — a giu dizio del collaborante — Filippo Gra viano aveva
parlato col fratello Giu seppe dell’accordo chiuso nel ’94. E
nell’incontro del 3 settembre tra i magistrati e Filippo Graviano, incen trato
proprio sul colloquio di Tolmezzo con Spatuzza di cui Graviano nega il
contenuto, il pubblico mini stero Alessandro Crini espone con grande schiettezza
la posizione della Procura di Firenze: «Con lei si parla bene, un italiano
consapevole, que ste cose le capisce al volo... Noi pen siamo che Spatuzza abbia
capito be ne, e pensiamo che lei si sia difeso molto bene, con
un’interpretazione molto saggia, che però secondo noi non è quella giusta».
Graviano — il boss che in prigione sostiene esami di Economia e commercio con
risul tati lusinghieri, e che ha già dichiara to di essersi dissociato dal suo
passa to, senza però parlare di Cosa Nostra — risponde che lui non dice
bugie; semmai non dice. E ribadisce di «non avere cognizione, né diretta né
indiretta, di questi impegni, accordi, o come si possono chiamare; ma quella
risposta articolata che vi ho dato è per aprirvi un sentiero, dicia mo... ».
Quell’incontro coi magistrati s’è chiuso in fretta, ma l’inchiesta sulle
stragi di mafia prosegue. An che sui presunti «interlocutori politi ci » di
chi metteva le bombe.
Giovanni
Bianconi
29
novembre 2009
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ANSA
29
novembre, 15:16
Stragi
di mafia: tre procure per scoprire la verità
Da
Firenze a Caltanissetta, passando per Palermo, i nuovi filoni
PALERMO
- I filoni d'inchiesta sulla mafia che stanno facendo fibrillare la politica si
incrociano tra le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta. E c'é anche
un'appendice milanese che riguarda il "contesto" di relazioni tra boss
e politici. Molti degli elementi che hanno dato un impulso alle indagini vengono
dalle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, boss di Brancaccio da tempo
avviato a un processo di "riflessione teologica", che il 4 dicembre
sarà interrogato dalla corte d'appello di Palermo in trasferta a Torino per il
processo a Marcello Dell'Utri.
Altri pentiti (Giovanni Ciaramitaro, Pietro Romeo, Salvatore Grigoli) hanno
offerto contributi ai magistrati che in parte confermano le dichiarazioni di
Spatuzza e in parte le integrano. In diversi momenti Spatuzza ha riaperto il
capitolo delle stragi del 1992 e del 1993 che, in una nuova prospettiva, sono
rappresentate come uno strumento di pressione da mettere in campo per
influenzare la "trattativa" tra Stato e mafia di cui ha parlato
Massimo Ciancimino: è la storia del "papello", cioé della lista
delle richieste di benefici e misure repressive attenuate che Cosa nostra
avrebbe formulato per fermare l'attacco alle istituzioni. Solo in uno degli
ultimi otto verbali Spatuzza ha rivelato di avere appreso dal boss Giuseppe
Graviano che la "trattativa" aveva prodotto il risultato tanto atteso.
Graviano avrebbe detto infatti: "Tutto è chiuso bene con i politici,
abbiamo ottenuto quello che cercavamo". E sempre in quella circostanza
Graviano avrebbe indicato, come referenti, Berlusconi e Dell'Utri. Spatuzza ha
parlato con i magistrati di Firenze, che indagano sulle stragi del 1993. Ma i
verbali sono finiti, per connessioni e affinità, alle Procure di Palermo e
Caltanissetta. A Palermo sono stati incanalati nel filone della
"trattativa". A Caltanissetta sono stati acquisiti nell'ambito delle
inchieste ancora aperte sulle stragi del 1992 (Falcone e Borsellino).
Nei giorni scorsi i magistrati delle due Procure si sono incontrati a Palermo
per definire i percorsi possibili. Ciascuno andrà per la propria strada e per
proprio conto sentirà ancora Spatuzza. Da lui si aspettano lumi su diversi
punti. A Palermo si cercherà non solo di risalire all'oggetto reale della
"trattativa" (il generale Mario Mori ha parlato di semplici colloqui
investigativi con l'ex sindaco Vito Ciancimino) ma anche di individuare tutti i
soggetti coinvolti e gli eventuali "referenti" politici che prima
avrebbero avallato i contatti e poi avrebbero dato a Graviano quelle che
Spatuzza ha chiamato le necessarie "rassicurazioni". A Caltanissetta
Spatuzza è ora atteso con molto interesse. Il livello delle sue conoscenze
delle strategie stragiste alimenta aspettative sul fronte dei "mandanti
senza volto" degli attentati di Capaci e via D'Amelio. E' quella stessa
indagine che sfiorò anche Berlusconi e Dell'Utri (iscritti il primo come
"Alfa" e l'altro come "Omega") prima di essere archiviata
nel 2003. Sei anni dopo viene riaperta per approfondire i nuovi spunti offerti
da Spatuzza. Identico sembra il quadro dell'inchiesta di Firenze, diversi i
punti di contatto che stanno collegando il lavoro dei magistrati fiorentini e
quello dei colleghi nisseni. Alcuni giornali hanno prefigurato, non solo come
passaggio obbligato, la possibilità che Berlusconi possa essere iscritto nel
registro delle notizie di reato ("modello 21"). Ma la Procura di
Firenze ha smentito e a Caltanissetta la nuova fase dell'inchiesta è appena
ripartita. E Palermo, che segue solo il caso della "trattativa", non
avrebbe la competenza per farlo.
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Repubblica
28 novembre 2009
L'INCHIESTA
- Il peso del ricatto al premier della famiglia di Brancaccio
sembra legato all'inizio della sua storia di imprenditore
Sono
i soldi degli inizi del Cavaliere
l'asso nella manica dei fratelli Graviano
Più
che un eventuale avviso di garanzia per le stragi del '93, il premier dovrebbe
temere il coinvolgimento da parte delle cosche sulle storie di denaro affari e
politica
di
ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO
Soldi.
Soldi "loro" che non sono rimasti in Sicilia, ma "portati
su", lontano da Palermo. "Filippo Graviano mi parlava come se fosse un
suo investimento, come se la Fininvest fossero soldi messi da tasca sua".
Per Gaspare Spatuzza, da qualche parte, la famiglia di Brancaccio ha "un
asso nella manica". Quale può essere questo "jolly" non è più
un mistero. Per i mafiosi, che riferiscono quel che sanno ai procuratori di
Firenze, è una realtà il ricatto per Berlusconi che Cosa Nostra nasconde sotto
la controversa storia delle stragi del 1993. Nell'interrogatorio del 16 marzo
2009, Spatuzza non parla più di morte, di bombe, di assassini, ma del denaro
dei Graviano. E ha pochi dubbi che Giuseppe Graviano (che chiama "Madre
Natura" o "Mio padre") "si giocherà l'asso" contro chi
a Milano è stato il mediatore degli affari di famiglia, Marcello Dell'Utri, e
l'utilizzatore di quelle risorse, Silvio Berlusconi.
Giuseppe
Graviano
Il mafioso ricostruisce la storia imprenditoriale della cosca di Brancaccio, con
i Corleonesi di Riina e Bagarella e i Trapanesi di Matteo Messina Denaro, il
nocciolo duro e irriducibile di Cosa nostra siciliana.
È il 16 marzo 2009, il mafioso di Brancaccio racconta ai pubblici ministeri del
"tesoro" dei Graviano. "Cento lire non gliele hanno levate a
tutt'oggi. Non gli hanno sequestrato niente e sono ricchissimi".
"Non si fidano di nessuno, hanno costruito in questi vent'anni un
patrimonio immenso". Per Gaspare Spatuzza, due più due fa sempre quattro.
Dopo il 1989 e fino al 27 gennaio 1994 (li arrestano ai tavoli di "Gigi il
cacciatore" di via Procaccini), Filippo e Giuseppe decidono di starsene
latitanti a Milano e non a Palermo. Hanno le loro buone ragioni. A Milano
possono contare su protezioni eccellenti e insospettabili che li garantiscono
meglio delle strade strette di Brancaccio dove non passa inosservato nemmeno uno
spillo. E dunque perché? "E' anomalissimo", dice il mafioso, ma la
chiave è nel denaro. A Milano non ci sono uomini della famiglia, ma non importa
perché ci sono i loro soldi e gli uomini che li custodiscono. I loro nomi forse
non sono un mistero. Di più, Gaspare Spatuzza li suggerisce. Interrogatorio del
16 giugno: "Filippo ha nutrito sempre simpatia nei riguardi di Silvio
Berlusconi e Marcello Dell'Utri, (...) Filippo è tutto patito dell'abilità
manageriale di Berlusconi. Potrei riempire pagine e pagine di verbale [per
raccontare] della simpatia e del... possiamo dire ... dell'amore che lo lega a
Berlusconi e Dell'Utri".
"L'asso
nella manica" di Giuseppe Graviano, "il jolly" evocato dal
mafioso come una minaccia - sostengono fonti vicine all'inchiesta - non è nella
fitta rete di contatti, reciproche e ancora misteriose influenze che hanno
preceduto le cinque stragi del 1993 - lo conferma anche Spatuzza - , ma nelle
connessioni di affari che, "negli ultimi vent'anni", la famiglia di
Brancaccio ha coltivato a Milano. E' la rassicurante condizione che rende
arrogante anche Filippo, solitamente equilibrato. Dice Gaspare: "[Filippo
mi disse]: facceli fare i processi a loro, perché un giorno glieli faremo noi,
i processi".
Filippo
Graviano
Nella
lettura delle migliaia di pagine di interrogatorio, ora agli atti del processo
di appello di Marcello Dell'Utri, pare necessario allora non farsi imprigionare
da quel doloroso 1993, ma tenere lo sguardo più lungo verso il passato perché
le stragi di quell'anno sono soltanto la fine (provvisoria e sfuggente) di una
storia, mentre i mafiosi che hanno saltato il fosso - e i boss che hanno
autorizzato la manovra - parlano di un inizio e su quell'epifania sembrano fare
affidamento per la resa dei conti con il capo del governo.
Le cose stanno così. Berlusconi non deve temere il suo coinvolgimento - come
mandante - nelle stragi non esclusivamente mafiose del 1993. Può mettere fin da
ora nel conto che sarà indagato, se già non lo è a Firenze. Molti saranno gli
strepiti quando la notizia diventerà ufficiale, ma va ricordato che
l'iscrizione al registro degli indagati mette in chiaro la situazione, tutela i
diritti della difesa, garantisce all'indagato tempi certi dell'istruttoria
(limitati nel tempo). Quando l'incolpazione diventerà pubblica, l'immagine
internazionale del premier ne subirà un danno, è vero, ma il Cavaliere ha
dimostrato di saper reggere anche alle pressioni più moleste. E comunque quel
che deve intimorire e intimorisce oggi il premier non è la personale credibilità
presso le cancellerie dell'Occidente, ma fin dove si può spingere e si spingerà
l'aggressione della famiglia mafiosa di Brancaccio, determinata a regolare i
conti con l'uomo - l'imprenditore, il politico - da cui si è sentita
"venduta" e tradita, dopo "le trattative" del 1993 (nascita
di Forza Italia), gli impegni del 1994 (primo governo Berlusconi), le attese del
2001 (il Cavaliere torna a Palazzo Chigi dopo la sconfitta del '96), le più
recenti parole del premier: "Voglio passare alla storia come il presidente
del consiglio che ha distrutto la mafia" (agosto 2009).
Mandate
in avanscoperta, non contraddette o isolate dai boss, le "seconde
file" della cosca - manovali del delitto e della strage al tritolo - hanno
finora tirato dentro il Cavaliere e Marcello Dell'Utri come ispiratori della
campagna di bombe, inedita per una mafia che in Continente non ha mai messo
piede - nel passato - per uccidere innocenti. Fonti vicine alle inchieste
(quattro, Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano) non nascondono però che
raccogliere le fonti di prove necessarie per un processo sarà un'impresa ardua
dall'esito oggi dubbio e soltanto ipotetico. Non bastano i ricordi di mafiosi
che "disertano". Non sono sufficienti le parole che si sono detti tra
loro, dentro l'organizzazione. Non possono essere definitive le prudenti parole
di dissociazione di Filippo Graviano o il trasversale messaggio di Giuseppe che
promette ai magistrati "una mano d'aiuto per trovare la verità".
Occorrono, come li definisce la Cassazione, "riscontri intrinseci ed
estrinseci", corrispondenze delle parole con fatti accertabili. Detto con
chiarezza, sarà molto difficile portare in un'aula di tribunale l'impronta
digitale di Silvio Berlusconi nelle stragi del 1993.
Questo affondo della famiglia di Brancaccio sembra - vagliato allo stato delle
cose di oggi - soltanto un avvertimento che Cosa Nostra vuole dare alla letale
quiete che sta distruggendo il potere dell'organizzazione e, soprattutto, uno
scrollone a uno stallo senza futuro, che l'allontana dal recupero di risorse
essenziali per ritrovare l'appannato
prestigio.
Il
denaro, i piccioli, in queste storie di mafia, sono sempre curiosamente
trascurati anche se i mafiosi, al di là della retorica dell'onore e della
famiglia, altro non hanno in testa. I Graviano, dice Gaspare Spatuzza, non sono
un'eccezione. Nel loro caso, addirittura sono più lungimiranti. Nei primi anni
novanta, Filippo e Giuseppe preparano l'addio alla Sicilia, "la dismissione
del loro patrimonio" nell'isola. Spatuzza (16 giugno 2009): "Nel 1991,
vendono, svendono il patrimonio. Cercano i soldi, [vogliono] liquidità e io non
so come sono stati impiegati [poi] questi capitali, e per quali acquisizioni.
Certo, non sono restati in Sicilia". I Graviano, a Gaspare, non appaiono più
interessati "alle attività illecite". "Quando Filippo esce [dal
carcere] nell'88 o nel 1989, esce con questa mania, questa grandezza
imprenditoriale. I Graviano hanno già, per esempio, le tre Standa di Palermo
affidate a un prestanome, in corso Calatafimi a Porta Nuova, in via Duca Della
Verdura, in via Hazon a Brancaccio". Filippo - sempre lui - si sforza di
far capire anche a uno come Spatuzza, imbianchino, le opportunità e anche i
rischi di un impegno nella finanza. Le sue parole svelano che ha già a
disposizione uomini, canali, punti di riferimento, competenze. "[Filippo]
mi parla di Borsa, di Tizio, di Caio, di investimenti, di titoli. (...). Mi
dice: [vedi Gaspare], io so quanto posso guadagnare nel settore dell'edilizia,
ma se investo [i miei soldi] in Borsa, nel mercato finanziario, posso perdere e
guadagnare, non c'è certezza. Addirittura si dice che a volte, se si benda una
scimmia e le si fa toccare un tasto, può riuscire meglio di un esperto. Filippo
è attentissimo nel seguire gli scambi, legge ogni giorno il Sole 24ore. Tiene
in considerazione la questione Fininvest, d'occhio [il volume degli]
investimenti pubblicitari. Mi dice [meraviglie] di una trasmissione come
Striscia la notizia. Minimo investimento, massima raccolta [di spot], introiti
da paura. "Il programma più redditizio della Fininvest", dice.
Abbiamo parlato anche di Telecom, Fiat, Piaggio, Colaninno, Tronchetti Provera,
ma la Fininvest era, posso dire, un terreno di sua pertinenza, come [se fosse]
un [suo] investimento, come se fossero soldi messi da tasca sua, la
Fininvest".
E' l'interrogatorio del 29 giugno 2009. Gaspare conclude: "Le [mie]
dichiarazioni non possono bruciare l'asso [conservato nella manica] di
Giuseppe" perché "il jolly" non ha nulla a che spartire con la
Sicilia, con le stragi, con quell'orizzonte mafioso che è il solo paesaggio
sotto gli occhi di Spatuzza. Un mese dopo (28 luglio 2009), i pubblici ministeri
chiedono a Filippo in modo tranchant dove siano le sue ricchezze. Quello
risponde: "Non ne parlo e mi dispiace non poterne parlare".
Ora,
per raccapezzarci meglio in questo labirinto, si deve ricordare che i legami tra
Marcello Dell'Utri e i paesani di Palermo non sono una novità. Come non sono
sconosciuti gli incontri - nella metà degli anni settanta - tra Silvio
Berlusconi e la créme de la créme di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo
Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla
latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad
Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di
Porta Nuova (il mafioso, "che poteva chiedere qualsiasi cosa a Dell'Utri",
siede alla tavola di Berlusconi anche nelle cene ufficiali, altro che
"stalliere"). Nella scena che prepara la confessione di Gaspare
Spatuzza, quel che è originale è l'esistenza di "un asso" che,
giocato da Giuseppe Graviano, potrebbe compromettere il racconto mitologico
dell'avventura imprenditoriale del presidente del consiglio.
Marcello
Dell'Utri
Con quali capitali, Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta,
ancora oggi è mistero glorioso e ben protetto. Molto si è ragionato sulle
fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul
flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi
ambiziosi progetti immobiliari. Probabilmente capitali sottratti al fisco,
espatriati, rientrati in condizioni più favorevoli, questo era il mestiere del
conte Carlo Rasini. Ma è ancora nell'aria la convinzione che non tutta la
Fininvest sia sotto il controllo del capo del governo.
Molte testimonianze di "personaggi o consulenti che hanno lavorato come
interni al gruppo", rilasciate a Paolo Madron (autore, nel 1994, di una
documentata biografia molto friendly, Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer),
riferiscono che "sono [di Berlusconi] non meno dell'80 per cento delle
azioni delle [22] holding [che controllano Fininvest]. Sull'altro 20 per cento,
per la gioia di chi cerca, ci si può ancora sbizzarrire". Sembra di poter
dire che il peso del ricatto della famiglia di Brancaccio contro Berlusconi può
esercitarsi proprio tra le nebbie di quel venti per cento. In un contesto che
tutti dovrebbe indurre all'inquietudine. Cosa Nostra minaccia in un regolamento
di conti il presidente del consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui
delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le
scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore
pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia
intuire) le sono state trafugate. In questo conflitto - da un lato, una banda di
assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo,
nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia,
per sottrarsi a quel ricatto rovinoso, anche Berlusconi è chiamato a fare
finalmente luce sull'inizio della sua storia d'imprenditore.
Il Cavaliere dice che si è fatto da sé correndo in salita senza capitali alle
spalle. Sostiene di essere il proprietario unico delle holding che controllano
Mediaset (ma quante sono, una buona volta, ventidue o trentotto?). E allora
l'altro venti per cento di Mediaset di chi è? Davvero, come raccontano ora gli
uomini di Brancaccio, è della mafia? È stata la Cosa Nostra siciliana allora a
finanziarlo nei suoi primi, incerti passi di imprenditore? Già glielo avrebbero
voluto chiedere i pubblici ministeri di Palermo che pure qualche indizio in mano
ce l'avevano.
Quel dubbio non può essere trascurabile per un uomo orgoglioso di avercela
fatta senza un gran nome, senza ricchezze familiari, un outsider nell'Italia
ingessata delle consorterie e prepotente delle lobbies.
Berlusconi, in occasione del processo di primo grado contro Marcello Dell'Utri,
avrebbe potuto liberarsi di quel sospetto con poche parole. Avrebbe potuto dire
il suo segreto; raccontare le fatiche che ha affrontato; ricordare le curve che
ha dovuto superare, anche le minacce che gli sono piovute sul capo. Poche parole
con lingua secca e chiara. E lui, invece, niente. Non dice niente. L'uomo che
parla ossessivamente di se stesso, compulsivamente delle sue imprese, tace e
dimentica di dirci l'essenziale. Quando i giudici lo interrogano a Palazzo Chigi
(è il 26 novembre 2002, guida il governo), "si avvale della facoltà di
non rispondere". Glielo consente la legge (è stato indagato in
quell'inchiesta), ma quale legge non scritta lo obbliga a tollerare sulle spalle
quell'ombra così sgradevole e anche dolorosa, un'ombra che ipoteca
irrimediabilmente la sua rispettabilità nel mondo - nel mondo perché noi, in
Italia, siamo più distratti? Qual è il rospo che deve sputare? Che c'è di
peggio di essere accusato di aver tenuto il filo - o, peggio, di essere stato
finanziariamente sostenuto - da un potere criminale che in Sicilia ha fatto più
morti che la guerra civile nell'Irlanda del Nord? Che c'è di peggio dell'accusa
di essere un paramafioso, il riciclatore di denaro che puzza di paura e di
morte? Un'evasione fiscale? Un trucco di bilancio? Chi può mai crederlo
nell'Italia che ammira le canaglie. Per quella ragione, gli italiani lo
avrebbero apprezzato di più, non di meno. Avrebbero detto: ma guarda quel
bauscia, è furbissimo, ha truccato i conti, gabbato lo Stato e vedi un po' dove
è arrivato e con quale ricchezza!
D'altronde anche per questo scellerato fascino, gli italiani lo votano e gli
regalano la loro fiducia. E dunque che c'è di indicibile nei finanziamenti
oscuri, senza padre e domicilio, che gli consentono di affatturarsi i primi
affari?
E' giunto il tempo, per Berlusconi, di fare i conti con il suo passato. Non in
un'aula di giustizia, ma en plein air dinanzi all'opinione pubblica. Prima che
sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese.
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ANSA
29
novembre, 15:40
Dell'Utri:da
Spatuzza solo falsita'
Modificare
legge sui pentiti.Se cade premier per Fini e' la fine
(ANSA)
- ROMA, 29 NOV - Il pentito Gaspare Spatuzza 'puo' inventarsi qualsiasi cosa':
lo ha detto il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri a 'In mezz'ora'. 'Sicuramente
- ha aggiunto Dell'Utri - si tratta di assolute falsita'. Si dovrebbe modificare
la legge sui pentiti: parlo a nome delle migliaia di persone che hanno avuto la
vita rovinata dai pentiti e che poi sono stati assolti'. 'Se dovesse cadere
Berlusconi - ha concluso - sarebbe la fine per tutti. Anche per Fini. E Fini lo
sa bene'.