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Il fenomeno mafioso si sviluppò nel sistema economico proprio della Sicilia occidentale, basato sullo sfruttamento del
latifondo. Questo sistema, ancora di stampo feudale, era organizzato secondo una struttura a piramide che prevedeva un vertice costituito dal proprietario terriero, un’estesa base di contadini e braccianti che lavoravano direttamente la terra, e un centro composto da una rigogliosa e articolata gerarchia di “vassalli”, affittuari e subaffittuari, intermediari ecc., che controllava l’andamento dei lavori, la quantità e la qualità dei raccolti, la riscossione di affitti e gabelle.
Questa sorta di “classe media”, già utilizzata dall’aristocrazia siciliana in funzione
antiborbonica, venne usata contro la classe bracciantile e contadina allo scopo di preservare i privilegi aristocratici minacciati dalle leggi dello stato unitario tendenti a una riduzione dei latifondi. Sfruttando la diffusa ostilità verso un'autorità statale lontana e ignara della situazione siciliana, la mafia si trasformò, diventando un organismo sostitutivo dell’ordine legale, e intervenne nell'amministrazione della giustizia e nella gestione dell'economia, avviando una serie di attività al limite della legalità (o del tutto illegali) da cui gli affiliati e le loro famiglie traevano sostentamento. Da qui si sviluppò anche la struttura della mafia siciliana – simile per molti aspetti a quella della 'ndrangheta calabrese e della camorra campana –, organizzata per “famiglie” (o “cosche”), autonome e parallele, composte da un numero relativamente basso di componenti e guidate da uno o più capi.
Lo spirito mafioso poggiava su un rigido codice d'onore e sull’omertà; i conflitti, le contese, i reati andavano regolati all’interno della comunità, facendo ricorso alla mediazione, ma anche all’intimidazione e alla violenza. I rapporti con le autorità dello stato venivano condannati e veniva punito soprattutto, anche con la morte, il passaggio di informazioni alla giustizia.
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