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Camilleri: chiesa e mafia

 

Chiesa e mafia quarant' anni di silenzi e ritardi

LA NOTIZIA della "scomunica ai mafiosi", sottolineata nei giorni scorsi da monsignor Mariano Crocetta, segretario generale della Cei, non ha suscitato particolare clamore. È apparsa una notizia scontata. In verità, scontata alla luce del Vangelo, ma meno alla luce della storia della Chiesa, rimasta per anni scandalosamente silenziosa sulla mafia. Un comportamento, come è stato rilevato, che ha delle attenuanti: le particolari condizioni storiche dell' Isola, le stesse radici culturali dei siciliani. a anche le vicende del secondo Dopoguerra, caratterizzate dallo scontro politico-ideologico tra cattolici e comunisti, e la tradizione "eversiva" legata alla polemica risorgimentale dei cattolici nei riguardi dello Stato. Per quanto importanti, le motivazioni storiche non possono però giustificare né cancellare un comportamento strettamente legato alla stessa professione di fede. La Chiesa siciliana si è arroccata per lungo tempo sulle posizioni del cardinale Ernesto Ruffini, che tendeva a ridimensionare l' incidenza del fenomeno mafioso per «troppo amore» nei riguardi dell' Isola, come sostenevano alcuni, o «per scelta politica», come insinuavano altri. Quando con il cardinale Salvatore Pappalardo è cambiato finalmente l' atteggiamento della M vaticana, che gli chiedeva, certamente su suggerimento del nuovo Papa Paolo VI, un intervento specifico contro la mafia e una pastorale adeguata alla situazione. Ricordando il coraggioso manifesto della Chiesa valdese, Dell' Acqua chiedeva al cardinale di valutare «se non sia il caso che anche da parte ecclesiastica sia promossa un' azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri - d' istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale - per dissociare la mentalità della cosiddetta "mafia" da quella religiosa e per confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col triplice scopo di elevare il sentimento civile della buona popolazione siciliana, di pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati alla vita umana». La risposta non si fece attendere, ma non fu quella sperata. Il cardinale mise in dubbio la stessa esistenza della mafia, ma soprattutto respinse infastidito l' insinuazione di una possibile associazione tra la mentalità mafiosa e quella religiosa. «L' apostolato che viene svolto con assiduità in tutte le parrocchie è in netta contraddizione con la delinquenza che, qualunque forma rivesta, è sempre riprovata e condannata, come è palese a tutti. L' azione, cui Vostra eccellenza accenna, "d' istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale" è tutt' altro che trascurata». Da allora sono passati molti anni e tanti atteggiamenti sono cambiati all' interno della Chiesa e della società civile. La mafia è cresciuta, ma è cresciuta anche l' azione di contrasto dello Stato. Eppure l' attualità che conserva la lettera di monsignor Dell' Acqua sorprende e rattrista. Chiesa siciliana, essa non ha avuto, come ha rilevato Cataldo Naro, parole «sue» per parlare della mafia. E non poteva averle. Intervenendo sull' argomento, ha adoperato pertanto quelle parole che venivano dalla mobilitazione antimafia della società civile. Solo in seguito alla morte per mano mafiosa di figure inconfondibilmente cristiane, come quella di padre Pino Puglisi, il linguaggio ecclesiastico ha riattinto dalla specificità cristiana e si è sintonizzato con il linguaggio che Giovanni Paolo II aveva usato nel suo ultimo viaggio in Sicilia, con il ricorso ad antiche parole cristiane quali peccato, giudizio di Dio, diavolo, martirio. A questo linguaggio ricorre adesso il pronunciamento contro il potere mafioso del segretario della Cei. Un intervento quanto mai opportuno. Ancora oggi però, malgrado la sensibilità manifestata in più occasioni dalla Santa Sede e malgrado le tante dichiarazioni da parte della gerarchia ecclesiastica isolana e di espressioni significative della cultura e della militanza cattolica, non è stato fatto nell' ambito ecclesiale un studio complessivo sul fenomeno mafioso né esiste una pastorale antimafia. Le richieste e le proposte venute a più riprese da parte di laici e religiosi non hanno mai trovato risposte soddisfacenti. Per un ventennio è rimasto celato nei cassetti un carteggio estremamente significativo intercorso negli anni Sessanta tra il Vaticano e la Curia di Palermo. Dopo la strage di Ciaculli (1963), che aveva provocato la morte di sette militari artificieri, il cardinale Ruffini ricevette una lettera (pubblicata da Francesco Stabile su Segno, numeri 101/102, 1989) di monsignor Angelo Dell' Acqua, sostituto della segreteria di Stato M 

da Repubblica del 15 novembre 2009 NINO ALONGI

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Il libro

Alessandra Dino

La mafia devota
Chiesa, religione, Cosa Nostra

Edizioni Laterza

Edizione   2008
Collana   i Robinson / Letture
ISBN   9788842085201

Prezzo € 16

Esiste un Dio dei mafiosi? Qual è il rapporto tra gli uomini d’onore e la religione? Fin dalle origini, la mafia ha attinto alla simbologia cattolica per rinsaldare i legami tra i suoi associati e attribuire dignità alle proprie azioni, creando una ‘religione capovolta’ a propria misura, cercando compiacenza e complicità tra i ministri del culto. L’assassinio per mano mafiosa di padre Pino Puglisi giunge al termine di un lento e difficile processo di maturazione che ha portato le gerarchie ecclesiastiche a una più critica sensibilità verso le ragioni della legalità. Resiste ancora oggi, tuttavia, una Chiesa dalle molte anime, in cui l’opera dei sacerdoti impegnati a diffondere sul territorio una pastorale antimafiosa si scontra spesso con l’atteggiamento di condiscendenza che altri religiosi mostrano per le ragioni del popolo di Cosa Nostra. Una Chiesa divisa, dunque, da cui il sistema di potere mafioso tenta di ricavare il massimo profitto in termini di strumentale legittimazione. In questo libro Alessandra Dino racconta una storia difficile. Attingendo ad articoli di cronaca, saggi, documenti giudiziari e parlamentari, fino ai risultati di una ricerca empirica condotta su un campione significativo di parroci siciliani, le sue pagine sondano, scavano e fotografano, interpretano scenari complessi che non si lasciano liquidare entro schemi monolitici: non esiste una sola mafia, come non esiste una sola Chiesa.

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LA CHIESA DELLA MAFIA

QUEL pomeriggio di settembre, mentre il cardinal Pappalardo celebrava la messa per don Giuseppe Puglisi, l' arcivescovo di Monreale rimase un po' sullo sfondo, eppure al suoposto fra gli alti prelati della Sicilia. Ai piedi dell' altare innalzato sul piazzale dove comincia il Brancaccio i magistrati di Palermo in mezzo alle autorità guardavano quel pezzo di Chiesa ufficiale, raccolta in preghiera per il fratello più umile, ucciso dalla mafia. E' probabile che sin da allora si chiedessero in che modo convivano, quegli uomini dalle storie tanto lontane, sotto le insegne della cristianità. Si chiedessero, insieme a tanti altri lì presenti, perché i preti buoni non si dissociano da quelli sospetti. Perché la Chiesa continui a tollerare accanto al prete eroe il prete compromesso. Otto sacerdoti scrissero al Papa ricordandogli il suo "vibrante" discorso pronunciato nella Valle dei Templi di Agrigento: "Santità... qualcuno è anche smarrito e scoraggiato e si chiede se vale la pena continuare a lottare. Anche perché continuano ad esserci sacerdoti e vescovi che non sono testimoni autentici della liberazione che Cristo vuole per questa nostra isola". "Chiesa Nostra", dicono a Palermo quando si parla di Monreale e di tutte le ombre e i dubbi che gravano sulla più maestosa delle cattedrali siciliane. Ci pare dunque che sarebbe questa una grande occasione per il clero siciliano e per il Vativano, un' occasione da non perdere, l' inchiesta della Procura di Palermo per far luce sui misteri della Curia di Monreale, sui traffici che si svolgono sotto lo sguardo ultraterreno del Cristo Pantocrator. Ci piacerebbe, insomma non dover assistere un' altra volta all' umiliante (per tutti) comportamento della Chiesa Romana di fronte allo scandalo di monsignor Marcinkus, amico del mafioso Michele Sindona e di Roberto Calvi con i quali fece dello Ior una banca d' affari illeciti. Il Vaticano in quell' occasione protesse il suo vescovo banchiere con tanta ferrea fermezza che monsignore non fu mai realmente costretto a svelare i suoi segreti. La ferita inferta allora all' immagine della Chiesa non si è ancora del tutto rimarginata. ALTRI tempi. Ma non è "altra" la mafia contro la quale ci si batte a Palermo e dunque il coraggio con il quale gli inquirenti affrontano situazioni tanto delicate, sforzandosi di violare i santuari ritenuti intoccabili, non deve mancare nemmeno alla gerarchia, dal vertice supremo fino al livello dei confratelli. Anche perché la storia di questo vescovo è davvero singolare e qualche spiegazione convincente è attesa sia sugli affari che ruotavano e ruotano attorno alla "fabbriceria" del Duomo, sia sulle amicizie e le frequentazioni di monsignor Cassisa e del suo aiutante, sia, infine, sul misterioso Ordine del Santo Sepolcro del quale Cassisa divenne gran maestro (o qualcosa di simile) un ruolo ereditato dal Conte Arturo Cassina, il boss della manutenzione stradale del Comune di Palermo. Le prime proteste nei confronti del vescovo risalgono ad alcuni anni fa, quando Leoluca Orlando raccontò che Cassisa gli aveva chiesto di pagare una "parcella" di un centinaio di miliardi al Conte Cassina, parcella che Orlando si rifiuta di pagare. Nel ' 93 gli attacchi a Cassisa arrivano dalle denunce di Giuseppe Governanti, ex presidente del tribunale ecclesiastico e parroco della chiesa del Carmine, il quale segnala a Roma che un pentito ha parlato d' una tangente di seicento milioni in cambio dell' appalto per la ristrutturazione del Duomo. Su questo filone sta indagando Antonio Di Pietro. E' dell' anno scorso l' avviso di garanzia al segretario particolare di Cassisa, don Mario Campisi, perché il latitante Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, avrebbe tenuto contatti con i fiancheggiatori attraverso il cellulare di don Campisi. Ma è soprattutto sulle attività "finanziarie" del vescovo che si sono concentrate, questa volta, le curiosità della Procura di Palermo: duecento appalti gestiti dal vescovo in combutta con due cugini di Salvo Lima. NELLA miglior tradizione dei politici amici suoi, anche monsignor Salvatore Cassisa va ripetendo di esser vittima di una congiura politica volta a disperdere il gregge del Duomo di Monreale. Ma non basterà, questa volta. Il vescovo dovrà spiegare una lunga catena di conti bancari e di registrazioni telefoniche. I magistrati sono andati più in là, hanno potuto indagare là dove i loro colleghi alle prese con Marcinkus, rifugiatosi in Vaticano, dovettero fermarsi. Ed è probabile che cerchino risposte ai tanti dubbi che riguardano le protezioni che ricevettero latitanti famosi i cui matrimoni sarebbero stati celebrati sotto lo scintillio dei mosaici. Può la Chiesa tirarsi indietro di fronte alla domanda di sacramenti dei boss di Cosa Nostra che non hanno la minima voglia di deporre le armi? Sappiamo comunque quello che non può e non deve fare: trasformarsi in "Chiesa Nostra", coprire i mafiosi con complicità e silenzi, arricchirsi con "parcelle" in cambio di appalti. Il tributo di sangue versato dai sacerdoti che si erano dedicati alla missione cristiana di riscattare dalla tentazione della mafia e della camorra giovani e giovanissimi dei più tragici paesi e borgate, il sacrificio compiuto fin sull' altare, le parole del Papa ad Agrigento, l' impegno quotidiano ed oscuro di decine e decine di parroci del Mezzogiorno e della Sicilia tutto questo chiede a Roma una intransigenza autentica. L' 11 luglio di quindici anni fa, mentre Marcinkus trescava ancora con Michele Sindona, in una buia via di Milano la mafia uccise Giorgio Ambrosoli. E' questo il mondo di complicità dal quale la Sicilia e l' Italia devono ancora riscattarsi. - 

di SANDRA BONSANTI

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LA MAFIA CONTRO WOJTYLA

ROMA - "Cosa nostra" contro la Chiesa e il papa della "redenzione antimafia". "Cosa nostra" all' attacco della stampa e dei promotori della rivolta popolare nei confronti delle cosche. "Cosa nostra" che fronteggia lo Stato e la sua rinascita nella lotta ai centri di potere della criminalità organizzata. "Cosa nostra" e le armi più sanguinarie del terrorismo stragista per colpire la ritrovata repulsione dell' Italia alla violenza dei clan. I mesi della paura, delle autobombe esplose a Roma l' estate dello scorso anno, dell' offensiva mafiosa dopo l' arresto del "capo dei capi", Totò Riina, hanno ora una inequivocabile chiave di lettura. Ed un dettagliato organigramma di mandanti ed esecutori materiali. A poco più di un anno dall' attentato di via Fauro, che doveva provocare la morte del giornalista Maurizio Costanzo, e a pochi giorni dall' anniversario delle bombe a San Giovanni e a San Giorgio al Velabro, la magistratura romana, dopo le indagini condotte dal Servizio Centrale operativo della polizia, dalla Dia e dal reparto operativo speciale dei carabinieri, ha emesso otto ordini di custodia cautelare. I provvedimenti restrittivi riguardano quattro componenti la "Cupola" di "Cosa nostra", Totò Riina e i latitanti Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano; i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (già in carcere da tempo) che, assieme ad Antonio Scarano e Aldo Fabretti, quest' ultimo arrestato nella notte di mercoledì, avrebbero materialmente collocato gli ordigni. Per tutti, l' accusa è quella di associazione a delinquere di stampo mafioso e strage, con le aggravanti delle finalità per terrorismo. La strategia terroristica della mafia, secondo quanto hanno raccontato ieri il procuratore capo di Roma, Michele Coiro e i sostituti procuratori Pietro Saviotti e Silverio Piro, fu decisa dalla "Cupola" all' indomani della cattura di Totò Riina. Ma fu messa a punto quando Giovanni Paolo II scese in Sicilia e nella Valle dei Templi, ad Agrigento, di fronte ad oltre centomila siciliani, pronunciò la più dura e sentita omelia nella storia della Chiesa contro "Cosa nostra". E diventò "operativa" quando lo Stato, liberato dai lacciuoli che legavano settori del potere politico agli interessi mafiosi, varò la legislazione restrittiva per i detenuti accusati di appartenere alle cosche. Primo obiettivo scelto dalla mafia fu Maurizio Costanzo, il giornalista conduttore dell' omonimo talk-show che, nei giorni successivi alla cattura di Riina, aveva letteralmente "guidato" la rivolta popolare contro il potere mafioso. "La bomba di via Fauro, però - ha spiegato Pietro Saviotti - aveva anche un altro intento, quello di colpire i cittadini nel loro privato, nelle case distrutte dall' esplosione. E intimidire, in generale, la stampa". "Ma l' attacco criminale di ' Cosa nostra' fuori dalla Sicilia ha anche evidenziato la sua debolezza - ha aggiunto il procuratore Michele Coiro -. Perché i cittadini hanno rotto il muro d' omertà, collaborando con gli investigatori, confermando con le numerose testimonianze, le rivelazioni di un pentito il cui nome riteniamo dover tenere segreto. Così come proteggeremo i cittadini che hanno fornito importanti riscontri alle indagini". Quando poi lo stesso papa Wojtyla, in Sicilia, ruppe quella sorta di "neutralità" della Chiesa nei confronti della mafia, "Cosa nostra" ha capito che poteva essere la fine, anche perché lo Stato, con l' inasprimento delle misure contro i boss mafiosi, le leggi di tutela dei pentiti e la conferma della sentenza del maxi-processo di Palermo, aveva segnato una chiara svolta nella lotta contro le cosche. "In questo contesto - ha spiegato Coiro - si inquadrano gli attentati a piazza San Giovanni e in via San Giorgio al Velabro. Una strategia ancora operativa: l' uccisione di padre Puglisi ne è una tragica conferma". Le bombe, inoltre, proprio per il loro carattere terroristico, "avevano lo scopo di costringere lo Stato - ha concluso Coiro - a comportamenti meno efficaci nella lotta alla criminalità organizzata". La serie degli attentati a Roma fu aperta con l' esplosione del 14 maggio 1993 in via Fauro contro Costanzo. Come esecutori sono stati accusati Filippo Graviano, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, come mandante Bernardo Provenzano. Per gli attentati di piazza S.Giovanni e via del Velabro, sono stati accusati di averli materialmente eseguiti i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, "uomini d' onore" di Palermo, e due trafficanti di stupefacenti romani, Antonio Scarano e Aldo Fabretti. I due erano in collegamento con "Cosa nostra" per i traffici di droga. Secondo gli inquirenti i due attentati furono ordinati direttamente da Totò Riina. I sostituti procuratori Silverio Piro e Pietro Saviotti hanno confermato che le indagini hanno consentito di acquisire consistenti prove e indizi. Ad esempio è stato scoperto il luogo dove la mafia aveva nascosto l' esplosivo. Quintali della miscela T4, pentrite e tritolo, la stessa che venne usata per le stragi a Capaci e in via D' Amelio dove furono uccisi Falcone e Borsellino, sono stati custoditi per due mesi in un palazzo di via Ostiense. La miscela esplosiva è la stessa usata anche per gli attentati a Firenze e Milano. Non è escluso che la pista "romana" abbia portato anche a nuovi risultati anche per queste inchieste. Resta il mistero dell' autobomba in via dei Sabini, davanti a palazzo Chigi: "Allo stato, le indagini non hanno portato all' identificazione certa di una pista mafiosa", hanno detto Coiro e Saviotti, lasciando aperti i dubbi su un' azione attribuibile a servizi segreti deviati. 

di CLAUDIO GERINO e FRANCO SCOTTONI

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' DONNE DI MAFIA RIBELLATEVI SANGUE CHIAMA SANGUE'

PALERMO - C' è una donna di mafia che invita alla ribellione le altre donne di mafia. Offre il suo perdono anche a Totò Riina, l' uomo che le ha ucciso il figlio e il marito. E prega. Prega soprattutto per quelli che un tempo furono i suoi nemici. La sua grande villa l' ha aperta ai fedeli della borgata. E alla sua parrocchia ha donato terre. Qui, in Sicilia, la casa di un boss è diventata luogo di preghiera. Sulla strada che si inerpica verso il santuario di Santa Rosalia patrona di Palermo, dopo una vita di lutti, lacrime e tormenti, ha trovato la fede Filippa Inzerillo, la vedova di Totuccio, il mafioso che aveva il sogno di far nascere sulla costa atlantica degli Stati Uniti un' altra Las Vegas, un' altra città piena di casinò, luci, alberghi e bordelli. La villa del boss, tre piani in via Castellana numero 346, è stata benedetta anche da padre Matteo La Grua, parroco della Noce, l' esorcista che da una ventina di anni guida il movimento dei carismatici a Palermo. Sopra la tv di casa Inzerillo campeggia un Cristo sorridente. Al centro di una stanza c' è donna Filippa, che parla ormai solo "attraverso le parole di Dio". Dice: "Donne di mafia, ribellatevi. Rompete le catene, tornate alla vita. Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta. Lasciate che Palermo rifiorisca sotto una nuova luce". L' avevamo conosciuta quindici anni fa donna Filippa, a Passo di Rigano, tra le ville-fortezza sotto le colline di Bellolampo. Era primavera, il 13 o forse il 14 maggio del 1981, il giorno dei funerali di suo marito. Lei era scesa da una limousine nera, il viso coperto da un velo, camminava lentamente sorretta e consolata da sei o sette elegantissimi uomini alti e biondi che si somigliavano tutti come gocce d' acqua. "Quelli lì, sono appena arrivati dall' America", ci dissero. Erano gli amici di New York che vennero in Sicilia a portare l' ultimo saluto al capo della loro "famiglia", ucciso a colpi di Kalashnicov accanto alla sua inutile Alfetta blindata. Donna Filippa, sorella dell' imprenditore-trafficante Rosario Spatola, moglie del boss Totuccio Inzerillo, nipote prediletta del vecchio patriarca di Torretta Sasà Di Maggio, cugina di primo grado di John Gambino, quel giorno entrò nella piccola chiesa di via Castellana attraversando una folla ammutolita. Erano in migliaia ai funerali di Totuccio. C' era tutta la mafia di Palermo. C' erano anche i traditori che avevano portato la battuta ai sicari, quelli che avevano raccontato dove e come potevano far fuori il loro capo. Filippa fu accompagnata davanti all' altare dagli "americani", si inginocchiò, sfiorò la bara senza dire una parola. Poi, un uomo, le bisbigliò qualcosa all' orecchio. Lei rispose: "Il giornalista può restare e raccontare a tutti il funerale del mio Totuccio...". Non avevamo più notizie di Filippa Inzerillo da quell' incredibile 1981 palermitano. In pochi mesi le uccisero il marito e il figlio, due cognati, due zii, un cugino e altri quattordici parenti. Ventuno degli Inzerillo morirono in quella che fu sbrigativamente archiviata come "la seconda guerra di mafia". I morti della "famiglia" si chiamavano quasi tutti Totuccio o Santino. Qualcuno fu sciolto nell' acido, qualcun altro fu ritrovato nel portabagagli di un' auto con 6 dollari in bocca o bruciato su una griglia due metri per due che un tale Tatuneddu (Salvatore Liga, era il suo vero nome) tirava fuori dal magazzino ogni qualvolta glielo ordinava Totò Riina. Fu sempre Riina a volere la morte del figlio di Totuccio Inzerillo. Aveva 16 anni. Pino Greco gli amputò prima un braccio con un coltello da macellaio: "Così non potrai più sparare allo zio Totò...". Poi gli scaricò addosso i sei proiettili della sua calibro 38. "Così degli Inzerillo non resterà più neanche il seme", disse il sicario mentre vedeva morire il ragazzo. Da quel giorno donna Filippa si chiuse in un silenzio profondo, sola nella sua villa nascosta dall' alta palizzata di ferro che fece innalzare Totuccio per proteggere se stesso e la sua famiglia. Qui, in quello che fu il quartiere generale di una mafia potentissima, Filippa Inzerillo ha aperto i cancelli e trasformato la sua casa in un piccolo tempio. Ieri si è confessata con un cronista del Giornale di Sicilia: "Non è stato facile guarire le ferite che hanno lacerato il mio cuore, ma da quando ho sentito una voce dentro di me, Dio mi ha concesso la grazia del perdono...". E' la storia della conversione di donna Filippa. Una voce, un nome ("Mi chiamava Giona, non sapevo chi fosse Giona..."), un pellegrinaggio con la "sorella" Giovanna ai piedi della statua di Santa Rosalia. Poi l' incontro con il sacerdote della Noce. "E da allora non mancai più alla preghiera di padre Matteo...". Al parroco della Noce Filippa Inzerillo ha donato un appezzamento di terra. Lì sopra hanno costruito un capannone, duemila sedie, quattromila fedeli che si incontrano ogni sabato mattina.

 - dal nostro corrispondente ATTILIO BOLZONI

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quando la mafia entra in chiesa

Per gentile concessione dell' editore pubblichiamo uno stralcio del libro "Le sagrestie di Cosa nostra. Inchiesta su preti e mafiosi", edito da Newton Compton, di prossima uscita «U parrinu», il prete, a un certo punto chiese: «Possiamo spegnere il registratore?». Fino a quel momento l' intervista si era svolta tranquillamente. Eravamo nella sagrestia della chiesa di Maria delle Grazie, nella borgata palermitana di Roccella. Distinte giungevano le voci dei bambini che giocavano durante l' oratorio. Qualche signora ci aveva interrotto, due o tre volte, per chiedere informazioni al parroco, sempre gentile, sempre disponibile, che parlava con una voce in falsetto forse un po' ridicola. Avevamo discusso per lo più di argomenti di carattere pastorale, della vita in parrocchia, dei successi ma anche delle amarezze e delle delusioni in cui ogni sacerdote può imbattersi lungo il suo ministero, tanto più normali in una zona difficile come quella. Parrocchie di frontiera, le chiamano i giornali, quando non sanno cosa scrivere. La straordinaria continuità, nel tempo e nello spazio, di Cosa nostra, qui ha plasmato perfino il paesaggio, che ne ha seguito i mutamenti e i progressi sociali: ai proprietari terrieri sono seguiti gli imprenditori edili e dalle case a uno o due piani si è passati ai palazzoni tutti uguali; i figli degli agricoltori sono diventati impiegati, talvolta medici o avvocati. E mafiosi, ovviamente. Ed è su questo che il sacerdote chiese di potersi esprimere senza l' impiego del registratore con cui lo intervistavo. Sulla mafia, appunto. Mi parlò di un' usanza del luogo. «Qui c' è una usanza. Quando uno diventa parroco è come se si sposasse, quindi ci vuole un compare. Allora, quando sto per diventare parroco, viene da me uno e mi dice: "c' è una persona importante che ci terrebbe a farle da compare". Io non conoscevo nessuno... allora gli dico va bene, portatemi questa persona. Solo più avanti ho scoperto chi era». «Il registratore lo abbiamo spento... posso sapere chi era?» «Si trattava di Ciccio La Mantia». Don Ciccio La Mantia era il patriarca di una delle cosche che ancora oggi comandano a Palermo, originario della borgata di Roccella, una frazione di periferia dove si trova probabilmente la più alta percentuale di mafiosi per metro quadrato di tutto il mondo. (...) Per il mafioso, battesimi, cresime, matrimoni, e ogni altro genere di sacramenti, non fanno parte di un cammino di fede, ma, più spesso, di sistemi di alleanze e di giochi di potere interni al sodalizio, come ha spiegato un collaboratore di giustizia, Gaspare Mutolo: «L' uomo d' onore che rispetta la famiglia e non tradisce la moglie crea un ambiente familiare sereno su cui può contare. Se tradisce la moglie circolano le notizie e i malumori, aumenta il pericolo che le cose della famiglia vengano spiattellate in giro. Insomma, la gentilezza e la fedeltà sono funzionali all' organizzazione. La moralità è una garanzia, uno strumento perché Cosa nostra non venga danneggiata». (G. Caldarola, "Autobiografia di Cosa nostra", 1994, pagine 49). I preti sono semplici notai, nel migliore dei casi, di scelte che nulla hanno a che fare con un progetto di vita o con un' etica religiosa. Tutto questo a volte può essere insostenibile. Francesco Marino Mannoia era chiamato il chimico della mafia. Per il suo capo, don Stefano Bontade, padrino del quartiere di Santa Maria di Gesù, aveva raffinato decine di chilogrammi di eroina base. Ma non era abbastanza per sfuggire alle regole di Cosa nostra. Nel 1978, da latitante, aveva conosciuto Rosa Vernengo, figlia del boss Vernengo, di cui era ospite. Il capomafia gli aveva imposto di sposarla, probabilmente per legarlo ancora più strettamente a sé e meglio sfruttare i suoi talenti. Mannoia però amava un' altra donna, Rita, da cui aveva già avuto una figlia, anche se non erano sposati. «Francesco conduceva la classica vita da bigamo. Dal suo avvocato andavano le due mogli, che a volte si trovavano nella stessa anticamera per avere notizie o portare documenti: Rita - mai un capello fuori posto, ben truccata e vestita con cura accompagnata dalla "suocera"; Rosa - modesta, riservata, nessuna aggressività sempre con sua madre. Il detenuto aveva colloqui con tutte e due: regolamentari quelli con la moglie, dietro particolare autorizzazione del giudice quelli con la convivente e la figlia». (L. Madeo, "Donne di mafia. Vittime, complici e protagoniste", Milano, Mondadori, 1994). A un certo punto quella doppia vita divenne intollerabile. Mannoia decise di collaborare con la giustizia e di scegliere la donna che amava. Altri non hanno avuto bisogno di fare una scelta cosi drastica. Salvino Madonia, esponente di una dinastia da generazioni ai vertici di Cosa nostra, dopo aver divorziato tranquillamente dalla prima moglie, un' ex brigatista rossa conosciuta in carcere, si è sposato nuovamente. Ha scelto una data speciale. Il 23 maggio 1992. Il giorno della strage di Capaci, in cui veniva ucciso Giovanni Falcone. Per un' altra singolare coincidenza la nuova moglie si chiama Angela Di Trapani. è la figlia del boss di Capaci Francesco Di Trapani. 

- VINCENZO CERUSO
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La Cei: fuori dalla Chiesa chi fa parte della mafia

ASSISI -Una severa condanna della malavita organizzata che «in tutte le sue forme, a partire da mafia, camorra e ' ndrangheta», mina le regioni meridionali. Per Mariano Crociata, segretario generale Cei, mafiosi, camorristi e affiliati alla ' ndrangheta sono «già scomunicati secondo quanto più volte affermato dai pastori. Chi vive in queste realtà già automaticamente è fuori dalla comunione ecclesiale e dalla Chiesa, anche se si ammanta di una falsa religiosità». È quanto emerso all' assemblea dei vescovi ad Assisi, dove l' arcivescovo Mariano Crociata ha sostenuto che è esagerato parlare di declino della democrazia in Italia, pur confermando le «preoccupazioni» che si colgono dagli interventi dei vescovi a commento della prolusione del cardinale presidente Angelo Bagnasco che ha invitato politici e mass media ad «abbassare i toni delle polemiche e degli scontri» per il bene del Paese. Crociata confessa di avere «fiducia» per il nostro sistema istituzionale: «Anche se è bene calmare gli animi e puntare a risolvere i problemi reali della gente, parlare di declino della democrazia italiana è esagerato e fuorviante. In Italia ci sono ancora tante potenzialità che aspettano solo di essere individuate e valorizzate».

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'La Chiesa è stata zitta sui martiri della mafia'

Dove era la Chiesa quando Salvatore Carnevale sfidava la mafia che affamava i braccianti e gli operai delle cave di Sciara? Dove era quando Danilo Dolci a Trappeto ridava voce ai diseredati? E dove erano i preti di Corleone quando Placido Rizzotto veniva falciato dal piombo dei boss? E ancora, in cosa era affaccendato il clero quando Peppino Impastato, solo e disperato, metteva alla berlina la tribù di Tano Seduto a Cinisi. «La Chiesa taceva, era assente - dice Nino Fasullo, padre redentorista, dopo avere evocato la solitudine dei quattro "uomini contro" - ma Cristo era con loro, con i martiri che hanno immolato la loro vita per il riscatto di tutti noi. Sono le vittime della violenza mafiosa i santi dei nostri giorni. Il sacrificio di don Pino Puglisi a Brancaccio, anche lui lasciato solo, non basta per diradare le ombre che in tanti anni si sono addensate sulla Chiesa siciliana». Nino Fasullo quest' anno ha voluto dedicare l' ottava Settimana Alfonsiana (così chiamata in onore di Sant' Alfonso de Liguori, il santo vissuto nel Settecento, famoso per avere scritto la più celebre canzone della cristianità "Tu scendi dalle stelle"), ai tanti uomini e alle tante donne che si sono fatti coscienza collettiva, subendo l' ostracismo dei potenti e l' emarginazione della società e della Chiesa. Mentre le vittime sacrificali urlavano, i più intorno a loro tacevano. Solo le pietre hanno raccolto le loro grida tramandandole alle generazioni successive, presenti e future: la pietra insanguinata con la quale è stato colpito Impastato, i sassi della trazzera dove è stato ammazzato Carnevale, i massi di Rocca Busambra, teatro dell' assassinio di Rizzotto, i ciottoli di cortile Cascino dove Dolci metteva carta e penna in mano a nidiate di bambini, altrimenti destinati a restare analfabeti. "Se essi tacessero griderebbero le pietre", è diventato il leit motiv della Settimana di studi, cui hanno partecipato teologi, magistrati e intellettuali di grido (da Massimo Cacciari a Gianfranco Caselli, da Gherardo Colombo a Giuseppe Silvestri, da Guido Corso a Roberto Andò, da Michele Perriera a Giovanni Ruffino, ai biblisti Giuseppe Barbaglio e Mariella Perrone). La frase, come è scritto nel vangelo di Luca, è stata pronunciata da Gesù quando, dopo il suo ingresso a Gerusalemme, i farisei gli hanno intimato di far tacere la folla osannante che faceva ala al corteo messianico. Le pietre, il tempo, come testimoni della verità. Come dire, non basta soffocare la voce dei giusti per estinguere la sete dei giustizia; così come non ascoltare le parole dei profeti non è sufficiente a smorzarne la forza. Le pietre e il tempo perpetueranno il «verbo». E le vittime del potere menzognero dall' origine dei giorni a oggi sono e saranno sempre presenti con le loro urla. «La forza del loro messaggio - dice Guido Corso - è talmente forte che prescinde dal medium. Non c' è silenzio che basti per soffocare la voce di chi si batte per un mondo più giusto». Il luogo dove Fasullo pronuncia il mea culpa della Chiesa non potrebbe essere più opportuno: siamo nella Sala delle Lapidi di Palazzo delle Aquile, dove dalle parete gronda il ricordo del sacrificio dei giusti: Falcone, Borsellino, Grassi, La Torre e tanti altri, i cui nomi sono immortalati nelle pietre e nei marmi del dolore e del ricordo. La Chiesa ieri taceva, se non oltraggiava (ricordate il cardinale Ernesto Ruffini che sosteneva che la mafia non esisteva? A suo dire era una invenzione della stampa per dileggiare il Sud), poi ha ritrovato dignità nella voce del cardinale Salvatore Pappalardo e riscatto nel sacrificio di don Pino Puglisi. E oggi? «Bisogna dare atto al cardinale Salvatore De Giorgi di avere attaccato in modo vibrante la mafia - dice Fasullo - Il capo della comunità cattolica siciliana ha definito Cosa nostra il regno del male e i mafiosi gli operai del demonio. Ma non basta il solo approccio emotivo. La Chiesa ha il dovere di fare di più, cominciando con l' organizzare delle iniziative specifiche sul tema. Ci vuole consistenza e continuità di azione». «Sulla questione mafia - continua - la Chiesa, invece, ha dimostrato di essere poco convinta, soprattutto dopo l' assassinio di don Pino. Chi interpreta la parola di Cristo non può permettersi cali di tensione. Sarebbe ora che la Chiesa si interrogasse su mafia e legalità in un convegno esplicito. E la ricorrenza dei dieci anni dalla morte di don Pino fornisce l' occasione più opportuna per chiarire una volta per sempre la nostra posizione, per uscire dalle timidezze che hanno caratterizzato il passato. Oggi per fortuna non si parte da zero, perché nelle parrocchie in questi anni c' è stata una grande sensibilizzazione antimafia». «Sono stato tante volte in Sicilia - dice il teologo Giovanni Velocci - e posso dire che nelle parrocchie, soprattutto quelle dei quartieri più disagiati, i preti sono impegnati quotidianamente nella difesa della legalità e della dignità. La Chiesa comunque è un organismo complesso. Ci sono tanti preti e tanti vescovi in prima linea e, ovviamente ce ne sono altri più defilati. Ma nel complesso la cristianità è fermamente schierata contro ogni guerra e ogni forma di violenza». Anche il filosofo Massimo Cacciari (che considera gli uomini votati al silenzio al di sotto delle pietre, che pure sono la cosa più inanimata che esista) coglie più luce che ombre nella Chiesa. «Avrà taciuto in passato - dice - ma oggi non si può negare che di fronte ai tanti drammi dell' umanità l' unica voce di autorità che si eleva è quella della Chiesa. Ci saranno timidezze e compromessi, ma nel complesso sono sempre meno pesanti di quelli che esprimono i potenti della terra. Sono in tanti, prelati, parroci e fedeli, che nella Chiesa si fanno testimoni della verità e non lasciano solo le pietre a gridare». Giuseppe Silvestri, rettore dell' Università di Palermo, che ha l' ufficio a Palazzo Steri, ex sede dell' Inquisizione, lancia parole di riscatto: «Le urla dei disperati, ingiustamente perseguitati da quella Chiesa a palazzo Steri hanno lasciato posto ai messaggi di speranza. Dove prima c' era la sede dell' oscurantismo ora c' è la sede della cultura. La Chiesa ha fatto tanti passi avanti e tanti altri ne farà per aiutare gli uomini nel loro difficile cammino».
TANO GULLO

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' MAFIA, UNA MINACCIA ANCHE PER LA CHIESA'

ROMA - In Sicilia c' è "una Chiesa di frontiera": la sua missione è anche quella di avversare lo strapotere della Piovra. Con un discorso senza precedenti pronunciato in Vaticano dinanzi ai diciotto vescovi della regione convenuti in visita "ad limina", Giovanni Paolo II ha parlato di mafia. Un intervento di grande rigore e di forte richiamo verso i temi della giustizia sociale e dell' onestà politica, che segue di pochi giorni il duro atto d' accusa della Conferenza episcopale sui mali della società italiana. Un appello, quello di Wojtyla, volto a superare la logica sanguinosa dell' odio e della sopraffazione. La mafia, ha esordito il papa, è una piaga sociale e una minaccia non solo alla società civile ma alla stessa Chiesa. Bisogna reagire costruendo "comunità vive di fede, capaci di rispondere alle attese della società e di diventare punti di aggregazione e di riferimento degli onesti". Ai politici viene invece rivolto l' invito ad affrontare con l' impegno dovuto il fenomeno della disoccupazione, che il papa individua come la causa principale del fenomeno mafioso. E nessun esempio risulta più calzante della realtà siciliana, segnata pesantemente e nello stesso tempo dall' assalto della criminalità organizzata, dalla crisi economica e da impasse politico. I vescovi siciliani restino uniti tra loro, se vogliono rispondere con efficacia "alle gravi sfide che il mondo, e in particolare la Sicilia, si trova oggi ad affrontare, fra le quali voi stessi sottolineate la crescente crisi di lavoro, il fenomeno della criminalità mafiosa, le difficoltà politiche a guidare la regione sulle vie di un autentico rinnovamento e di un integrale sviluppo. Tanti uomini e donne", accusa il pontefice, "sono ancora privi di una degna attività lavorativa e molti giovani cercano faticosamente, talora a lungo e invano, una prima occupazione". Proprio la disoccupazione giovanile, è questo il pensiero di Giovanni Paolo II, assume oramai i contorni di un dramma, di "un problema di proporzioni così vaste da farlo configurare come una questione fra le più gravi degli Anni Novanta". Devono essere "i responsabili politici" ad affrontare questo fenomeno "con la sua serie di effetti negativi a livello individuale e sociale, dalla degradazione alla perdita del rispetto che ogni uomo e donna deve a se stesso". Ed ecco l' atto d' accusa contro la mafia. "Come non condividere le vostre apprensioni per l' espandersi della criminalità organizzata di stampo mafioso, sempre più seminatrice di vittime e delitti? Tale piaga sociale rappresenta una seria minaccia non solo alla società civile, ma anche alla missione della Chiesa, giacchè mina dall' interno la coscienza etica e la cultura cristiana del popolo siciliano. Nel corso di questi anni, di fronte a fatti di grave inquietudine, voi giustamente avete fatto sentire la vostra voce di pastori, preoccupati della sorte del gregge a voi affidato". Il rischio più grave è che nella società italiana possa insinuarsi "l' adattamento passivo alle situazioni", in una parola la rassegnazione. "Voi avvertite chiaramente", dice Wojtyla ai vescovi siciliani, "la necessità di curare la formazione di coscienze cristiane mature, di suscitare rinnovato coraggio, di combattere ogni forma di rassegnazione, di promuovere la cultura della vita, dell' amore e del perdono". Un denuncia, ma nello stesso tempo un atto di speranza. "Vi sentite chiamati a sostenere", dice il papa, "la buona volontà di tanta gente onesta e laboriosa, che quotidianamente opera per la giustizia e per la pace. Di questo popolo siciliano, pieno di risorse e di valori, la Chiesa, come lo è stato fino ad oggi, deve continuare ad essere sicuro punto di riferimento. Anzi è necessario che le vostre comunità ecclesiali siano luoghi e strumenti di aggregazione per tutti coloro che intendono consacrarsi attivamente al servizio del bene comune". Il papa incoraggia il compito della nuova evangelizzazione in Sicilia rendendo le comunità cristiane, appunto, "Chiese di frontiera, pronte a farsi carico dell' uomo che vive, che soffre e che muore, decise sempre ad essere dalla parte dell' uomo". 

- di CARLO CHIANURA

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