Carità

Carità

carità

Virtù Teologale

I Greci usavano quattro verbi per esprimere l'amore. Al vocabolario neo-testamentario è estraneo il verbo eràn che significa l'amore ardente, passionale, sensibile e per lo più sensuale

È estraneo anche il verbo stèrghein, che pure indica l'amore sensibile, naturale, forte, come quello tra gli sposi, tra i genitori e i figli.

Unisciti a noi

Virtù Teologale e Carità

Usato è invece il verbo filein, che significa l'amore in genere e il cui contrapposto è il generico odiare. Ma il Nuovo Testamento dà una indiscutibile preferenza al verbo agapòn, che indica un amore di preferenza, di scelta, che procede cioè, più che dall'istinto e dalla naturale inclinazione, da un atteggiamento di ragionevolezza e di libertà. La Volgata lo traduce, solitamente e opportunamente, con diligere (amare teneramente). Gli scrittori sacri ne hanno coniato il sostantivo "agàpe" che, in tal senso, è esclusivo della Bibbia.

Specialmente familiari al vocabolario giovanneo e paolino, i due termini significano prima di tutto l'amore di Dio verso gli uomini, ma insieme anche l'amore degli uomini verso Dio e quello degli uomini fra di loro, sempre però in riferimento a quell'amore primo e fondamentale, fonte di tutta intera la corrente d'amore, che è l'amore di Dio verso gli uomini. Si tratta dunque di un atteggiamento interiore antitetico all'egoismo. Si tratta di un'apertura, di un andare verso, di una disponibilità, non certo passiva ma dinamica, che ha per oggetto, motivo, termine, il bene: il bene che è Dio, che è negli altri uomini, che e in tutto.

Il problema che angustiò le prime generazioni cristiane provenienti dal mondo ebraico fu quello di accordare questo nuovo precetto divino della carità, insegnato da Gesù Cristo, con il vecchio precetto divino della legge, insegnato da Mosè. Che rapporto fra la carità e la legge? Mosè insegnò che la la salvezza doveva essere legata alla legge, Gesù, invece, insegna essere legata alla carità. La storia del popolo ebraico conferma il precetto mosaico, mostrando che fortuna e sfortuna erano legate all'osservanza dei precetti. Poiché nella legge mosaica numerosi precetti sono i precetti stessi della legge naturale - come per es. il Decalogo, almeno nella sua sostanza - il problema del rapporto fra la carità e la legge mosaica finisce per estendersi anche a quello del rapporto fra la carità e la legge, a ogni legge o precetto o norma, sia divina sia naturale.

Il formalismo condannato da Gesù non è l'osservanza scrupolosa della legge, che procede dallo zelo e dall'amore per la legge; ma che procede da calcolo, da aridità, da ipocrisia. Si osserva la legge scrupolosamente fuori, ma dentro non si ama la legge, non la si serve umilmente, piuttosto ci si serve della legge per i propri scopi: ambizione, onori, ingiustizie e malvagità. Fuori dunque la legge è perfetta, dentro poi il contrario della legge, e cioè iniquità e malvagità. La legge allora può diventare anziché fonte di vita, fonte di morte, occasione di peccato, strumento per perdere la propria anima: "voi, rimproverò Gesù i Farisei, trasgredite il comandamento di Dio per la vostra tradizione".
(Mt. 15, 3).

San Paolo, in polemica con i giudaizzanti attaccati alla legge mosaica, sottolinea con grande energia in che cosa consiste la novità del Vangelo. Il Vangelo, ossia la buona novella, è questa: che noi siamo salvati da Gesù Cristo; solo Gesù Cristo ci libera dal peccato, ci redime dalla morte, ci rende capaci del bene. Non è la legge che ci salva; non siamo salvi perché osserviamo la legge. Ci salva la Grazia; siamo salvi perché viviamo nella carità.

Se nel Vecchio Testamento la salvezza era legata alla legge e alla sua osservanza, ciò era solo perché la legge era orientata al Messia venturo, e nell'osservanza della legge si esprimeva una fede oscura, di speranza e di carità verso il Messia. Ma ora che il Messia è venuto, ora che in pieno ci è stato rivelato il mistero di fede, di speranza e di carità, l'osservanza della legge e la legge stessa sono diventate inutili e, anzi, un intralcio e un danno. Sotto la legge l'uomo era come schiavo, sotto la carità è padrone: "la Gerusalemme ebraica si trova in schiavitù.., la Gerusalemme celeste invece è libera" (Gal. 4, 25); sotto la legge era come in carcere, sotto la carità è libero: "prima che venisse la fede eravamo rinchiusi e custoditi nel carcere: della legge" (Gal. 3, 23); la legge era come il pedagogo che ha funzione provvisoria e deve ritirarsi quando ha compiuto il suo ufficio: "la legge è stata il nostro pedagogo per condurci a Cristo" (Gal. 3, 24); la legge era come "la lettera che uccide", la carità è "lo spirito che dà vita".
(11 Cor. 3, 6).

Già scrivendo ai Romani si era posta l'interrogazione: "distruggiamo dunque la legge per mezzo della fede?". E aveva risposto: "no affatto anzi, confermiamo la legge". E poco più avanti: "peccheremo allora, perché non siamo soggetti alla legge ma alla grazia? Non sia mai". Così S. Paolo denunciava l'errore di coloro i quali pensavano che l'abolizione della legge mosaica e il suo superamento nella libertà cristiana fossero, insieme, abolizione di ogni legge e di ogni norma etica, sicché venisse perciò autorizzato ogni arbitrio e ogni sfrenatezza.

Tali errori serpeggiavano tra i Corinzi, ai quali l'Apostolo deve rammentare, con chiarezza e con autorità, che la carità stessa si esprime in certe forme ed esige l'osservanza di certe norme e comportamenti. E ciò fa specialmente nei capitoli cinque e sei della prima lettera. Errori simili serpeggiavano fra i Galati, cui l'Apostolo più severamente ammonisce: "non vogliate invocare la libertà (cristiana) quale pretesto per una condotta carnale". Anche S. Giovanni, che non meno di Paolo aveva insistito sulla libertà dei figli di Dio, non più soggetti alla legge ma viventi nella dilezione del Padre, anche S. Giovanni nella sua prima lettera protesta: "chi dice di conoscere (Dio) ma non osserva i suoi comandamenti è bugiardo... chi invece ubbidisce alla Sua parola, in lui davvero vi è l'amore di Dio".

Falsa, dunque, è la contrapposizione tra una morale della carità e una morale della legge. L'apostolo Giovanni afferma che "l'amore consiste nel camminare secondo i suoi comandamenti" (II Gv. 1, 6). Si capisce allora come Gesù Cristo, che per un aspetto ha messo in rilievo la relatività e caducità della legge, per un altro aspetto né affermi la permanenza e la stabilità: "non crediate che io sia venuto ad abolire la legge... In verità vi dico che fino a quando il cielo e la terra non passeranno, non scomparirà dalla legge neppure un jota o un apice..." (Mt. 5, 18); e S. Paolo, che così calorosamente e insistentemente ha in segnato la precarietà e l'infermità e l'inutilità della legge, professa con altrettanto calore che "la legge è santa, e santo e giusto e buono è il precetto" (Rm. 7, 12). Se la legge talora è mortifera, lo è solo perché ne usiamo male: "noi sappiamo che la legge è buona, purché se ne faccia un uso legittimo" (I Tim. 1,8) e, più precisamente, spiega che i precetti della legge non sono aboliti, ma restano anche nella nuova economia della salute: "non commettere adulterio, non ammazzare, non rubare, non desiderare, e tutti gli altri si compendiano in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso". (Rm. 13, 9).

Queste parole, come quelle della lettera ai Galati "tutta la legge si compendia in questo solo comandamento: ama il prossimo tuo come te stesso", ci orientano già ad intendere in qual modo si possa dire che la grazia e la carità non eliminano la legge ma la confermano. La confermano in quanto la approfondiscono autenticandola nei motivi e nello spirito; la conservano in quanto la oltrepassano perfezionandola: "non crediate - dice Gesù ai discepoli - che io sia venuto ad abrogare la legge... non sono venuto ad abrogare, ma a perfezionare" (Mt. 5, 17). Non si tratta qui di un conservatorismo statico, non si tratta di un puntiglioso legalismo, che considera tutti precetti, e massimi e minimi, su uno stesso piano, col pretesto che tutti sono ugualmente legge; ma di un atteggiamento che, penetrando sino alla ragione dei vari precetti, ne gradua l'importanza e il valore; sino ad essere transigente e addirittura lasciar cadere quelli il cui significato puramente provvisorio e preparatorio della venuta del Messia è, con questa venuta, ormai evacuato.

Gesù, così, lascia cadere, per es., il precetto sabbatico: purché il Signore venga onorato, non importa che sia sabato o altro giorno (cfr. Mc. 2, 27). Ne segue che il cristiano avrà da osservare una legge più alta e più perfetta di quella osservata dagli Ebrei e, specialmente, di quella osservata dai Farisei. Gesù può dunque sollecitare i suoi ascoltatori con questo monito: "se la vostra giustizia non sarà più grande di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli".
(Mt. 5, 20).

L'osservanza dev'essere prima di tutto interiore. Questo significa amare la legge. Per l'amore i precetti non pesano più o, se pesano, sono, come assicura Gesù ai suoi fedeli, "un peso leggero, un giogo soave" (Mt. 11, 30). È la carità stessa che opera questo alleggerimento e questa soavizzazione, poiché essa ci viene dallo Spirito Santo (cfr. Rm. 5, 5) il quale infonde luce all'intelletto e forza alla volontà. E così la legge antica poneva il precetto, e il precetto era buono (Rm. 7, 12), ma, non dando insieme la capacità di osservarlo, facilmente diventava occasione di peccato. Di ciò si lamentava "S. Paolo: È peccato la legge? No certo. Ma io non ho conosciuto il peccato se non per mezzo della legge" (Rm. 7, 7). Infatti, non dandomi insieme l'aiuto e lasciandomi in preda alle mie cupidigie, avvenne che "il precetto, datomi perché mi guidasse alla vita, mi condusse invece alla morte" (Rm. 7, 10). La legge era dunque impotente a rendere l'uomo fedele osservante di essa. Ora, invece, "ciò che fu impossibile alla legge... Dio l'ha compiuto inviando il suo proprio Figlio.., affinché fosse data la capacità di adempiere la legge a noi, che camminiamo.., secondo lo Spirito." (Rm. 8, 3-4).

La legge viene intesa dal cristiano come sapiente ordinamento divino, viene ossequiata come indice della volontà divina, viene infine amata come espressione della divina bontà. Tanto per la legge naturale e molto più per la legge positiva divina di cui l'autore è il Dio-Uomo, Gesù Cristo. La legge per tal modo viene amata, in quanto viene amato Gesù Cristo; e l'obbedienza alla legge diventa l'atto di amore più consueto della vita cristiana, la quale si presenta così, attraverso l'esecuzione dei comandamenti, come una relazione personale con Gesù Cristo" Chi accoglie i miei comandamenti, dice Gesù nel discorso dell'ultima cena, quegli davvero mi ama" (Gio. 14, 21). Amare la legge del Signore: ecco la radice dell'osservanza: l'amore è il nuovo spirito della nuova legge: è lo spirito del Nuovo Testamento. Non tanto nuovo, però, che non ce ne sia un presentimento, e più che un presentimento, già nel Vecchio Testamento.

Non dobbiamo certo andare a cercarlo nell'ebraismo deteriore, nell'ebraismo degli Scribi e dei Farisei, ma nell'ebraismo dell'autentico popolo eletto, del fedele e pio israelita, che pone la legge del Signore in cima ai suoi pensieri. Dal suo labbro provengono le calde espressioni del salmo 118: "Con tutto il cuore ti cerco... nel mio cuore io conservo i tuoi precetti nei tuoi decreti io trovo la mia letizia io scruterò la tua legge e la osserverò con tutto il cuore... meglio è per me la legge dalla tua bocca che mucchi di oro e di argento Oh! quanto ho amato la tua legge, o Signore! Ne faccio tutto il giorno oggetto della mia riflessione... I tuoi comandamenti sono più dolci al mio palato che il miele alla mia bocca, essi sono la gioia del mio cuore". Così il Salmo 118, che è tutto una meditazione sulla legge e sulla gioia di osservarla.

L'osservanza della legge è fonte di gioia. E tanto più lo è per il cristiano, al quale è pienamente svelato, in Gesù Cristo, quanto al popolo ebraico era celato nel velo della sua propria storia e della sua speranza: ubbidire alla legge è amare Dio, e quale gioia maggiore che la gioia dell'amare? E quale amore più inebriante che l'amore di Dio? La morale cristiana è dunque una morale della gioia perché è una morale dell'amore.

Colse bene l'essenza della morale cristiana S. Agostino in quella sentenza "ama e fa quel che vuoi": se tu davvero ami, puoi fare ciò che la tua volontà appetisce, poiché allora la tua volontà non appetirà altro che di piacere all'amato, di fare cioè tutto e solo ciò che piace all'amato. La formula è perfetta, ma è la formula del cristianesimo eccezionale, la formula del cristianesimo escatologico, del cristianesimo cioè vissuto nello stato di termine. Il cristianesimo terrestre, dell'uomo in stato di prova, dell'uomo che ha e sente sempre il dualismo della carne e dello spirito, o, come dice S. Paolo, dell'uomo che sente nelle sue membra una legge che lotta contro la legge della mente (cfr. Rm. 7, 23), ha sempre bisogno della presentazione autoritaria della legge.
Non arriva a generarla, secondo la formula agostiniana, ma arriva ad assumerla e farla propria nella gioia, secondo la formula evangelica: sarà un giogo soave, sarà un peso leggero. Come nell'ordine della natura alla madre l'amore rende leggero e soave il giogo e il peso delle cure e degli affanni per il figlio che pure costituiscono il suo dovere così al cristiano l'amore rende leggero e soave il giogo e il peso della legge evangelica.

Solo per dono eccezionale e per momenti privilegiati, al mistico, al santo, Dio concede tale ebbrezza di amore, che il giogo e il peso scompaiono sciogliendosi nella gioia, nella pura gioia dell'amore. Ma non è questa la meta assegnataci quaggiù dal Signore: essa è la perfezione dell'amore, e la perfezione dell'amore quaggiù non è la perfezione della gioia: l'amore può essere perfetto tanto nella sofferenza quanto nella gioia. Per noi uomini; anzi, è più facile che sia perfetto nella sofferenza, che nella gioia.

Quello che è vero dell'amore è, come insegna S. Paolo ai Corinzi, che esso, quale spirito della legge evangelica, la riassume in sé tutta. Non solo si può dire che la carità è la "virtù regina di tutto il sistema morale cristiano", ma, addirittura, che chi ha la carità ha tutto: la benignità, la longanimità, l'umiltà, la dedizione, il disinteresse, la pazienza, ecc. (cfr. I Cor. 13, 4-7). Chi non ha la carità, non ha invece nulla: "anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, anche se avessi tale scienza da conoscere tutti i misteri e tale fede da trasportare le montagne se non ho la carità, io sono un niente".
(I Cor. 13, 1-2).

E persino, se osservo quei precetti evangelici ai quali Gesù ha permesso il premio, e se compio quelle che si dicono le opere della carità, ma non ho la carità nell'animo, non ho lo spirito di carità, io cristiano non sono molto diverso da quei Farisei ai quali l'osservanza della legge nulla giovava: "anche se distribuissi tutti i miei beni ai poveri, anche se dessi il mio corpo ad essere bruciato - scrive S. Paolo - se non ho la carità, tutto questo non mi giova a nulla".
(I Cor. 13, 3).

La novità del Vangelo, la buona novella, nell'ordine della vita morale, è dunque la carità. Si capisce allora come S. Paolo possa dire, un poco enigmaticamente, che "la carità è il vincolo della perfezione" (Col. 3, 14), o anche, che "il compimento della legge è l'amore" (Rm. 13, 10). A Timoteo, poi, scrive che "il fine del precetto è la carità" (I Tim. 1, 5): dove se si vuole intendere precetto nel senso generico di legge divina, sembra che l'Apostolo voglia insinuare che l'osservanza della legge abbia per scopo, prima ancora che il fine proprio dell'opera stessa, il fine della carità, l'aumento della carità, l'aumento della grazia.