San Alfonso
In questo mondo abbiamo da starvi poco tempo; ma in questo poco tempo molti sono i travagli che dobbiamo soffrire:
L'uomo, nato di donna, ha breve la vita ed è colmo di molte miserie. Bisogna soffrire e tutti hanno da soffrire, sia i giusti che i peccatori: ognuno ha la sua croce da portare. Chi la porta con pazienza si salva, chi la porta con impazienza si perde.
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La Carità è paziente
Nella Chiesa di Dio, dice sant'Agostino, ciò che distingue la paglia dal grano è la prova del dolore: chi, nelle tribolazioni, si umilia e rassegna alla volontà di Dio, è grano per il paradiso; chi invece s'insuperbisce e si arrabbia lasciando Dio, è paglia per l'inferno. Nel giorno in cui sarà decisa la nostra salvezza, per ottenere la sentenza felice dei predestinati, la nostra vita dovrà essere trovata uniforme a quella di Gesù: Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo. Per questo il Verbo eterno discese sulla terra: per insegnarci con il suo esempio a portare con pazienza le croci che Dio ci manda: Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme. Sicché Gesù volle soffrire per infonderci coraggio nelle sofferenze. Dio, come ha trattato il Figlio suo prediletto, così tratta chiunque ama e accoglie come figlio: Il Signore corregge colui che ama, e sferza chiunque riconosce come figlio (Eb 12,6). Per questo Gesù disse un giorno a santa Teresa: "Sappi che le anime più amate dal Padre mio sono proprio quelle provate dalle sofferenze più grandi". La pazienza completi l'opera sua in voi (Gc 1,4). Ciò significa che non vi è cosa più gradita a Dio di una persona che soffre con pazienza e in pace tutte le croci che Dio le manda. Chi ama Gesù Cristo desidera essere trattato come lui, povero, straziato e disprezzato.
San Giovanni nell'Apocalisse vide i santi vestiti di bianco e con le palme nelle mani: Stavano in piedi davanti all'Agnello avvolti in candide vesti, e portavano palme nelle mani (Ap 7,9). La palma è segno del martirio; ma non tutti i santi hanno ricevuto il martirio. Perché allora tutti santi portano le palme nelle mani? Risponde san Gregorio Magno dicendo che tutti i santi sono stati martiri o di spada o di pazienza; e conclude: "Noi pure possiamo essere martiri senza venir colpiti dalla spada, se nel nostro cuore custodiamo la virtù della pazienza".
Il merito di una persona che ama Gesù Cristo sta nell'amare e nel patire. Il Signore disse a santa Teresa: "Figlia mia, pensi forse che il merito consista nel godere? No, consiste nel patire e nell'amare. Guarda la mia vita piena di sofferenze. Credimi, figlia: più uno è amato dal Padre mio, più sono le tribolazioni che riceve da lui; anzi esse sono il segno del mio amore. Pensare che il Padre risparmi le prove ai suoi amici, è sbagliato".
Scrive l'Apostolo: Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarò rivelata in noi (Rm 8,18). Sarebbe più che giusto soffrire per tutta la vita ciò che hanno sofferto i martiri, per un solo momento di paradiso. Tanto più dobbiamo abbracciare le nostre croci, sapendo che le sofferenze della nostra breve vita ci faranno acquistare una beatitudine eterna! Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria (2 Cor 4,17).
Ma chi vuole la corona del paradiso bisogna che combatta e soffra: Se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo (2 Tm 2,12). Non c'è premio senza merito, né merito senza pazienza: Anche nelle gare atletiche non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole (2 Tm 2,5). E chi combatte con più pazienza avrà una corona più grande.
La Carità è Benigna
Lo spirito di dolcezza è una caratteristica di Dio: Il mio Spirito è più dolce del miele (Sir 24,19 Vg). Quindi chi ama Dio, ama anche coloro che sono amati da Dio, cioè il prossimo; perciò volentieri cerca di soccorrere, consolare e accontentare tutti, per quanto gli è possibile. San Francesco di Sales, che è stato maestro e modello di santa dolcezza, diceva che la dolcezza è la virtù delle virtù, tanto raccomandataci da Dio; quindi dobbiamo praticarla sempre e dovunque.
Bisogna praticare la dolcezza specialmente con i poveri i quali, perché poveri, ordinariamente sono maltrattati dagli uomini. Una dolcezza particolare bisogna avere anche con i malati, i quali nelle loro infermità spesso sono poco assistiti. In modo del tutto particolare dobbiamo usare dolcezza con i nemici. Vinci il male con il bene (Rm 12,21). Bisogna vincere l'odio con l'amore e la persecuzione con la dolcezza. Così hanno fatto i santi, che sono riusciti a conquistarsi l'affetto dei loro nemici più ostinati. Quanto si guadagna con la dolcezza, anziché con l'asprezza! Come diceva san Francesco di Sales, la noce è uno dei frutti più amari. Così le correzioni: anche se dispiacciono, quando sono fatte con amore e dolcezza diventano gradevoli e ottengono buoni risultati. Parlando della sua esperienza, san Vincenzo de' Paoli diceva che, durante il governo della sua Congregazione, solo tre volte egli aveva corretto qualcuno con asprezza, credendo di averne il motivo, ma ogni volta se n'era pentito, perché non erano servite a nulla, mentre le correzioni fatte con dolcezza erano sempre state utili.
Dobbiamo avere benignità con tutti e in ogni circostanza. Come osserva san Bernardo, alcuni sono mansueti finché le cose vanno a loro genio, ma appena sono toccati da qualche avversità o contraddizione, subito si accendono e cominciano a fumare come il Vesuvio. Queste persone sono come i carboni ardenti nascosti sotto la cenere.
Chi vuoi farsi santo dev'essere invece come un giglio fra le spine, il quale, anche se viene punto, rimane sempre giglio soave e benigno. La persona che ama Dio conserva sempre la pace nel cuore e la dimostra anche nel volto, rimanendo sempre se stessa in ogni avvenimento, sia favorevole che contrario. Quando ci capita di dover rispondere a chi ci maltratta, stiamo attenti a farlo sempre con dolcezza, perché una risposta gentile calma la collera (Pr 15,1). E quando siamo turbati, è meglio tacere, perché in quel momento ci sembra giusto dire quel che ci viene sulle labbra; ma poi, calmata la collera, ci accorgeremo che le nostre parole erano ingiuste.
E quando siamo noi a commettere uno sbaglio, usiamo dolcezza anche con noi stessi. Arrabbiarci con noi stessi dopo una mancanza, non è umiltà ma fine superbia, come se noi non fossimo quei deboli e miseri che di fatto siamo. Arrabbiarci con noi stessi dopo una mancanza, è una mancanza più grave di quella già commessa, che porta alla conseguenza di molti altri difetti: ci farà tralasciare le nostre devozioni, la preghiera, la comunione. E se anche le faremo, non le faremo bene. San Luigi Gonzaga diceva che il demonio pesca nell'acqua torbida, dove non si vede bene. E quando si ha l'animo turbato, non si vede bene né Dio né quel che si deve fare. Quando dunque cadiamo in una mancanza, rivolgiamoci a Dio con umiltà e fiducia e chiediamogli perdono dicendogli, come santa Caterina da Genova: "Signore, questa è l'erba del mio orto". Ti amo con tutto il cuore e mi pento di averti dato questo dispiacere. Non voglio farlo più, dammi il tuo aiuto.
La Carità non è invidiosa.
San Gregorio Magno, commentando queste parole dell'Apostolo, dice che la carità non è invidiosa perché non sa invidiare i successi e le grandezze terrene, per il semplice motivo che nulla desidera in questo mondo".
Quindi bisogna distinguere due specie di emulazione: una cattiva e una santa. L'emulazione cattiva invidia e si rattrista per i beni mondani posseduti dagli altri su questa terra. L'emulazione santa, invece, è quella che non invidia, ma piuttosto compatisce i grandi di questo mondo che vivono tra gli onori e i piaceri terreni. Essa non cerca né desidera altro che Dio, e non vuole altro che amarlo il più possibile in questa vita. Per questo santamente invidia chi lo ama di più, perché nell'amarlo essa vorrebbe superare anche i serafini.
Questo è l'unico fine che hanno sulla terra le anime sante, fine che innamora e ferisce talmente d'amore il cuore di Dio che gli fa dire: Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo sguardo (Ct 4,9). Quel solo sguardo significa l'unico fine che l'anima sposa ha in ogni sua azione e pensiero: di piacere a Dio. Gli uomini del mondo nelle loro azioni guardano le cose con più sguardi, cioè con diversi fini disordinati: piacere agli uomini, farsi onore, arricchirsi e, se non altro, accontentare se stessi. I santi, invece, in tutto ciò che fanno cercano soltanto ciò che piace a Dio.
Quindi ricordiamoci che non basta fare opere buone: bisogna anche farle bene. Perché le nostre opere siano buone e perfette, è necessario che le facciamo con l'unico scopo di piacere a Dio. Molte azioni possono essere in sé lodevoli; però se sono compiute per un fine diverso da quello della gloria divina, poco o niente valgono davanti a Dio.
Maledetto amor proprio, che ci fa perdere tutto o gran parte del frutto delle nostre buone azioni! Quanti, nel loro lavoro, anche in quello più sacro dei predicatori, dei confessori, dei missionari, faticano e stentano, ma poco o nulla ci guadagnano, perché non cercano solo Dio, ma la gloria mondana, o il proprio interesse, o la vanità di apparire, oppure lo fanno solo per seguire la propria inclinazione!
Dice il Signore: Cercate di non compiere le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non c'è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli (Mt 6,1). Coloro che faticano per contentare il proprio genio, hanno già ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,5); una ricompensa, però, che si riduce ad un po' di fumo o ad una soddisfazione effimera che presto passa, senza alcun profitto per l'anima.
Il profeta Aggeo dice che chi non lavora per piacere a Dio è come uno che depone il suo guadagno in un sacchetto bucato, e quando va ad aprirlo non vi trova più nulla: Chi ha accumulato risparmi, li ha messi in una borsa forata (Ag 1,6 Vg). Quando poi queste persone, dopo le loro fatiche, non raggiungono il loro intento, s'inquietano molto. Questo è segno che non avevano come unico fine la gloria di Dio. Infatti chi fa una cosa soltanto per la gloria di Dio, anche se poi essa non riesce, non si turba affatto, perché egli ha già raggiunto il fine di fare la volontà di Dio, avendo operato con retta intenzione.
I segni per vedere se uno lavora nel campo spirituale soltanto per la gloria di Dio, sono i seguenti.
- Egli non si turba quando non ottiene il risultato voluto; se Dio non lo vuole, neppure lui lo vuole.
- Gode del bene fatto dagli altri come se lo avesse fatto lui.
- Non desidera un impiego più di un altro, ma gradisce quello che vuole l'obbedienza ai suoi superiori.
- Al termine di un lavoro non cerca dagli altri né ringraziamenti né approvazioni e, se viene criticato o disapprovato, non si affligge, accontentandosi solamente di aver accontentato Dio. Se invece riceve delle lodi, non si insuperbisce.
La Carità non si Vanta.
Spiegando queste parole di san Paolo, San Gregorio Magno dice che la carità, adoperandosi sempre più soltanto nell'amore divino, rifugge da tutto ciò che non è retto e santo: "La carità non si vanta perché, dilatandosi unicamente nell'amore di Dio e del prossimo, ignora tutto ciò che è contrario alla rettitudine".
Già l'Apostolo aveva detto che la carità è un vincolo che lega insieme le virtù più perfette: Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione (Col 3,14). E poiché la carità tende alla perfezione, di conseguenza ripudia la tiepidezza, con la quale alcuni servono Dio con grave pericolo di perdere la carità, la grazia divina, l'anima, tutto. Ma occorre precisare che vi sono due specie di tiepidezza: l'una inevitabile, l'altra evitabile. Dalla prima non sono esenti neppure i santi. Essa comprende le mancanze che commettiamo senza piena volontà, ma soltanto per fragilità umana. Tali sono le distrazioni nella preghiera, i sentimenti di fastidio, i discorsi inutili, le vane curiosità, i desideri di apparire, il piacere nel mangiare e nel bere, gli impulsi della concupiscenza non prontamente repressi, e simili.
Queste mancanze dobbiamo cercare di evitarle il più possibile, ma, a causa della debolezza della natura umana contagiata dal peccato, è impossibile evitarle tutte. Dopo averle commesse, dobbiamo detestarle, perché dispiacciono a Dio, ma non dobbiamo inquietarci per esse: per cancellarle è sufficiente un atto di dolore e di amore. Esse si cancellano soprattutto con l'Eucaristia. Secondo il Concilio di Trento essa è "l'antidoto per mezzo del quale veniamo liberati dalle colpe quotidiane". Tali colpe sono dei difetti, ma non ostacolano il nostro cammino verso la perfezione, poiché in questa vita nessuno giunge alla perfezione prima di arrivare in paradiso.
E invece di ostacolo alla perfezione la tiepidezza evitabile, che si ha quando qualcuno commette peccati veniali deliberati. Queste colpe, commesse ad occhi aperti, con la grazia di Dio si possono evitare. Tali sono, per esempio, le bugie volontarie, le piccole mormorazioni, le imprecazioni, le parole di risentimento, le derisioni del prossimo, le parole pungenti, i discorsi di esaltazione di sé, i rancori nutriti nel cuore. "Questi peccati sono come certi vermi, scrive santa Teresa, che non si fanno conoscere finché non abbiano corroso le virtù". Altrove la Santa avverte: "Con piccole cose il demonio fa dei buchi, dai quali poi entrano cose grandi".
Bisogna dunque temere queste mancanze volontarie, perché esse diminuiscono la luce e l'aiuto di Dio e ci privano delle gioie spirituali. Di conseguenza portano alla noia e alla stanchezza nella vita spirituale: si comincia a tralasciare la preghiera, la comunione, la visita al Santissimo Sacramento, le novene; e alla fine facilmente si lascerà tutto, come è avvenuto a tante anime infelici.
Per questo il Signore minaccia i tiepidi: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido sto per vomitarti dalla mia bocca (Ap 3,15-16). E strano. Il Signore dice: Magari tu fossi freddo! Forse è meglio essere freddo, cioè privo della grazia, che tiepido? In certo modo sì, perché chi è freddo è più facile che si corregga, scosso dal rimorso della coscienza. Il tiepido, invece, si abitua a convivere con i propri difetti, senza prendersi pena per essi e senza pensare ad emendarsi. Così la sua cura diventa quasi disperata. Alcuni si rovinano perché fanno pace coi loro difetti, specie se il difetto deriva da una passione, come la ricerca di stima, la voglia di apparire, l'attaccamento al denaro, il rancore per qualcuno o l'affetto disordinato per una persona dell'altro sesso. Allora c'è il pericolo che i capelli, come diceva san Francesco d'Assisi, diventino catene che trascinano l'anima all'inferno.
La Carità non si gonfia.
Il superbo è come un pallone gonfiato: si crede grande, ma tutta la sua grandezza si riduce ad un poco di aria che, aperto un foro, in un istante svanisce. Chi ama Dio è veramente umile e, nel vedersi dotato di qualche pregio, non si gonfia, perché sa che tutto quello che ha è dono di Dio, e che di suo ha soltanto il nulla e il peccato. Perciò egli, riconoscendosi indegno dei favori divini, più ne riceve più si umilia.
Una casa, per essere stabile e sicura, ha bisogno soprattutto di due cose: delle fondamenta e del tetto. Per noi le fondamenta devono essere l'umiltà, che consiste nel riconoscere che non valiamo e non possiamo nulla; il tetto è la protezione di Dio, nel quale soltanto dobbiamo confidare.
Santa Teresa diceva: "Non credere di aver fatto progressi nella perfezione se non ti ritieni il peggiore di tutti e se non desideri l'ultimo posto". Così faceva la Santa, come pure tutti i santi. San Giovanni d'Avila, che fin da giovane aveva fatto una vita santa, trovandosi vicino alla morte fu assistito da un sacerdote, che gli diceva cose sublimi, trattandolo come un santo e come un grande dotto, quale effettivamente egli era. Allora il padre Avila gli disse: "Padre, vi prego: raccomandatemi l'anima a Dio come si raccomanda quella di un malfattore condannato a morte, perché tale sono io". Questo è il concetto che i santi hanno di se stessi in vita e in morte.
Così dobbiamo fare anche noi, se vogliamo salvarci e conservarci in grazia di Dio fino alla morte, mettendo tutta la nostra fiducia solamente in Dio. Il superbo confida nelle proprie forze, e perciò cade. L'umile, invece, confida solo in Dio, e anche quando è assalito dalle tentazioni più veementi, resiste e non cade. Dobbiamo diffidare di noi stessi e confidare in Dio fino alla fine della vita, pregando sempre il Signore di donarci la santa umiltà.
Tuttavia, per essere umili, non basta avere un basso concetto di sé e ritenerci degli esseri miseri, quali siamo.
Il vero umile, dice l'Imitazione di Cristo, disprezza se stesso e desidera essere disprezzato dagli altri. Questa è l'umiltà di cuore, che Gesù ci ha insegnato con il suo esempio: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29). Chi dice di essere il più grande peccatore del mondo, ma poi si sdegna quando qualcuno lo disprezza, mostra di essere umile di bocca, non di cuore.
Scrive san Francesco di Sales: "Sopportare gli insulti è segno di umiltà e di vera virtù". Se una persona conduce una vita spirituale, fa la meditazione, si comunica spesso, digiuna e si mortifica, ma poi non è capace di sopportare un affronto, una parola pungente, significa che è come una canna vuota, senza umiltà e senza virtù. Una persona che dice di amare Gesù Cristo, cosa sa fare di buono se non è capace di soffrire un disprezzo per amore di Gesù, che ne ha sofferti tanti per noi? Quando uno si comunica spesso, e poi si risente ad ogni parola di disprezzo, sorprende e scandalizza. Al contrario è edificante chi, nel ricevere dei disprezzi, risponde con parole dolci per placare chi l'ha offeso, oppure non risponde affatto e non si sfoga con gli altri, ma rimane sereno senza mostrare amarezza!
Quelli che si comportano così sono chiamati beati da Gesù. Non sono detti beati gli uomini stimati, onorati e lodati dal mondo perché nobili, dotti e potenti, ma coloro che il mondo maledice, perseguita e critica. Costoro, se sopportano tutto con pazienza, avranno una grande ricompensa in paradiso: Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e diranno, mentendo, ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli (Mt 5,11-12).
La Carità non è ambiziosa.
Chi ama Dio non cerca la stima e l'amore della gente: l'unico suo desiderio è di essere ben voluto da Dio, unico oggetto del suo amore. Scrive Sant'Ilario: "Ogni onore che si riceve dal mondo è un affare per il demonio". E proprio così: il nemico lavora per l'inferno mettendo in un'anima il desiderio di essere stimata, ed essa, perdendo l'umiltà, si mette nel pericolo di precipitare in ogni male.
Molte persone fanno professione di vita spirituale, ma sono idolatre della propria stima. All'esterno mostrano virtù che in realtà non hanno ed ambiscono essere lodate in tutto ciò che fanno; e quando manca chi le loda, si lodano da sé. Cercano insomma di apparire migliori degli altri e se per caso vengono punte nella stima, perdono la pace, tralasciano la comunione, abbandonano tutte le loro devozioni e non si calmano finché non credono di avere riacquistata la stima perduta. Quelli che amano veramente Dio non fanno così. Essi non solo evitano ogni lode e compiacimento di sé, ma di più si scherniscono di fronte alle lodi che ricevono dagli altri e si rallegrano di essere tenuti in basso concetto dalla gente.
E proprio vero quello che diceva san Francesco d'Assisi: "Un uomo vale per quello che è agli occhi di Dio, nulla di più". Che giova essere ritenuti grandi dal mondo, se davanti a Dio siamo miseri e disprezzabili? Viceversa, che c'importa se il mondo ci disprezza, se siamo cari e graditi agli occhi di Dio? Scrive sant'Agostino: "Chi ci loda certo non ci salva dalla nostra cattiva coscienza; e chi ci disprezza, certo non ci può togliere il merito delle nostre buone opere".
Chi dunque vuole progredire nell'amore di Gesù Cristo deve assolutamente far morire in sé l'amore per la propria stima. Come far morire la stima propria? Ce lo insegna santa Maria Maddalena de' Pazzi: "Quando tutti hanno un buon concetto dite, il desiderio di essere stimati rimane vivo. Per farlo morire devi nasconderti e non farti conoscere da nessuno. Finché uno non giunge a morire in questo modo, non sarà mai vero servo di Dio".
Per essere graditi agli occhi di Dio dobbiamo guardarci dall'ambizione di apparire e di piacere agli uomini. Ancor più dobbiamo guardarci dall'ambizione di dominare sugli altri. L'unica ambizione di una persona che ama Dio dev'essere quella di superare gli altri nell'umiltà, come insegna san Paolo: Ognuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso (Fil 2,3). Insomma chi ama Dio non deve ambire altro che Dio.
La Carità non cerca il proprio interesse.
Chi vuoi amare Gesù Cristo con tutto il cuore deve scacciare dal cuore tutto ciò che sa di amor proprio. "Non cercare il proprio interesse" significa appunto non cercare se stesso, ma solo quel che piace a Dio. Questo il Signore chiede ad ognuno di noi, quando dice: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore (Mt 22,37).
Ora, per amare Dio con tutto il cuore è necessario svuotarlo degli affetti terreni e riempirlo del santo amore di Dio. Quindi se il cuore è occupato da qualche affetto terreno, non può mai essere tutto di Dio. E come si libera il cuore dalla terra? Con la mortificazione e con il distacco dalle cose create. Certe persone si lamentano perché cercano Dio e non io trovano. Esse ascoltino quello che dice santa Teresa: "Distacca il cuore dalle creature e cerca Dio, e lo troverai".
L'inganno sta nel fatto che alcuni vogliono farsi santi, ma a modo loro. Vogliono amare Gesù, ma secondo il loro genio, senza rinunciare a quel divertimento, a quella vanità nel vestire, a quei cibi prelibati. Amano Dio, ma se non giungono ad ottenere quel posto, vivono inquieti; se poi sono toccati nella stima, diventano di fuoco; se non guariscono da quella malattia perdono la pazienza. Amano Dio, ma non lasciano l'affetto alle ricchezze, agli onori del mondo e alla vanità di essere considerati nobili, sapienti e migliori degli altri. Questi tali vanno a pregare, a fare la comunione ma, avendo il cuore pieno di terra, non ne ricavano profitto. A costoro il Signore non parla proprio, perché le sue parole sarebbero sprecate. Infatti chi è pieno di affetti terreni non è capace neppure di sentire la voce di Dio che gli parla.
Come Davide, dobbiamo pregare Dio perché ci purifichi il cuore da ogni affetto terreno: Crea in me, o Dio, un cuore puro (Sal 51,12), altrimenti non potremo mai essere del tutto suoi.
In un cuore completamente distaccato da ogni affetto terreno, subito vi entra e lo riempie di sé l'amore divino. Diceva santa Teresa: "Quando si è tolto lo sguardo dalle cose esteriori, subito l'anima si rivolge ad amare Dio". Infatti l'anima non può vivere senza amare: "o ama il Creatore o ama le creature".
L'unico nostro pensiero e intento in questa vita dev'essere quello di cercare Dio per amarlo, e la sua volontà per adempierla, allontanando dal cuore ogni affetto di creatura. Che cosa sono tutte le dignità e grandezze di questo mondo, se non fumo, fango e vanità che, con la morte, spariscono? Beato chi può dire: "Gesù mio, ho lasciato tutto per amor tuo. Tu sei il mio unico amore, tu solo mi basti".
In verità quando l'amore divino prende possesso di un'anima, essa da sola - s'intende sempre con l'aiuto della grazia divina - procura di spogliarsi da ogni cosa terrena che può impedirle di essere tutta di Dio. Diceva san Francesco di Sales che, quando una casa va a fuoco, si butta tutto fuori dalla finestra; cioè quando una persona si dà tutta a Dio, senza esortazione di predicatori o di confessori, da se stessa cerca di liberarsi da ogni affetto terreno.
Diceva la sposa del Cantico: Mi ha introdotto nella cella del vino, e ha ordinato in me l'amore (Ct 2,4 Vg). Questa cella vinaria, scrive santa Teresa, è l'amore divino. Quando esso prende possesso di un cuore, lo inebria talmente di sé, che gli fa dimenticare tutto il creato. L'ubriaco è come uno privo dei sensi: non vede, non sente, non parla. Così diventa un'anima inebriata dell'amore divino: quasi non ha più i sensi per le cose del mondo, non vuole pensare ad altro che a Dio, non vuole parlare di altro che di Dio, e non vuole far altro che amare e compiacere Dio.
La Carità non si adira.
Quanto sono care a Gesù le persone miti che, nel ricevere affronti, derisioni, calunnie, persecuzioni, e perfino botte e ferite, non si adirano con chi le ingiuria o percuote! Dio gradisce sempre le loro preghiere, cioè le esaudisce sempre. Ad esse, in modo speciale, Gesù ha promesso il paradiso: Beati i miti perché erediteranno la terra (Mt 5,4). Il padre Alvarez diceva che il paradiso è la patria dei disprezzati, dei perseguitati e dei calpestati, perché ad essi, e non ai superbi, onorati e stimati dal mondo, è riservato il possesso del regno eterno.
Nei Salmi è detto che i mansueti non solo otterranno la beatitudine eterna, ma già in questa vita godranno una grande pace: I miti possederanno la terra e godranno di una grande pace (Sal 36,11). Infatti i santi non conservano rancore verso coloro che li maltrattano, ma li amano più di prima; e il Signore, in premio della loro pazienza, accresce loro la pace interna. Ma solo chi ha una grande umiltà e un basso concetto di sé, per cui crede di meritare ogni disprezzo, possiede la mansuetudine. Per questo i superbi sono sempre irascibili e vendicativi, perché sono pieni di sé e si credono degni di ogni onore.
Beati i morti che muoiono nel Signore (Ap 14,13). Bisogna morire nel Signore per essere beati e cominciare a godere la beatitudine fin da questa vita. Certo, la beatitudine che si può avere sulla terra non è paragonabile a quella del cielo, ma è tale che supera tutti i piaceri sensibili di questa vita (cf. Fil 4,7). Ma per godere questa pace bisogna essere morti nel Signore.
Un morto, per quanto venga maltrattato e offeso, non si risente affatto. Così il mansueto, come un morto che non vede e non sente più, soffre tutti i disprezzi che riceve. Chi ama di cuore Gesù Cristo arriva a ciò perché, uniformandosi alla sua volontà, accetta con la stessa pace sia le cose favorevoli che quelle contrarie, sia le consolazioni che le afflizioni, sia le ingiurie che le cortesie. Così faceva l'Apostolo, il quale poteva dire: Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione (2 Cor 7,4).
Felice chi raggiunge questo grado di virtù! Egli gode una continua pace, la quale è un bene che supera tutti gli altri beni di questo mondo. San Francesco di Sales diceva: "Che vale tutto il mondo, in paragone della pace del cuore?" Infatti, a che servono le ricchezze e gli onori del mondo, se poi si vive inquieti e non si ha il cuore in pace?
La Carità tutto soffre.
Convinciamoci che in questa valle di lacrime raggiunge la vera pace del cuore solo chi sopporta e con amore i patimenti per piacere a Dio. Chi non fa trova pace, perché la sofferenza è una conseguenza peccato originale. Lo stato dei santi sulla terra è amando; quello dei santi in cielo è di godere amai.
Il segno più sicuro che una persona ama Gesù Cristo non è il patire in se stesso, ma il patire per amore suo. Questa è la prova migliore del nostro amore per lui. Eppure la maggior parte degli uomini si spaventa al solo sentir parlare di croce, di umiliazione, di sofferenza! Tuttavia non mancano tante persone che soffrono con gioia, anzi sarebbero quasi inconsolabili se non avessero nessuna sofferenza. "Quando guardo il crocifisso, diceva una santa persona, la croce mi diventa così amabile che mi sembra di non poter essere felice senza soffrire. L'amore di Gesù Cristo mi rende tutto facile!"
A chi vuole seguirlo, Gesù dice di prendere e d la propria croce. Ma bisogna prenderla e portarla non per forza e con riluttanza, ma con umiltà pazienza e amore.
Le sofferenze e le malattie fisiche, se sono sopportate con pazienza, ci assicurano una grande corona di meriti in cielo. San Vincenzo de' Paoli diceva: "Se conoscessimo il valore delle infermità, le riceveremmo con la stessa gioia con cui si ricevono i regali più belli". E quando il Santo fu provato da infermità che lo tormentavano giorno e notte, le sopportava con tale pace e serenità, senza il minimo lamento, che sembrava non avesse nessun male. Che bella edificazione dà un malato che sopporta la malattia con volto sereno!
Una santa donna, provata da molti dolori, stava a letto e la sua domestica le diede il crocifisso e le disse di pregarlo perché la liberasse da quelle sofferenze. "Ma come faccio, rispose l'ammalata, a chiedergli di togliermi dalla croce, mentre stringo tra le mani un Dio crocifisso? Dio me ne guardi! Voglio soffrire per chi ha sofferto per me dolori molto più grandi dei miei". Questo, appunto, Gesù disse a santa Teresa, mentre era molto malata e tormentata. Apparendole coperto di piaghe, le disse: "Guarda, figlia mia, la crudeltà delle mie pene, e vedi se le tue si possono paragonare alle mie!" Perciò la Santa nelle malattie era solita dire: "Quando penso ai dolori di ogni genere sofferti dal Signore, benché fosse innocente, non so dove io abbia il cervello per lamentarmi dei miei".
Quanti meriti si possono acquistare col solo sopportare con pazienza le malattie! Al padre Baldassarre Alvarez fu mostrata la gloria che Dio aveva preparato ad una buona religiosa per la malattia da lei sopportata con tanta pazienza; e disse che lei, in otto mesi di infermità aveva meritato più di certe altre religiose in molti anni di salute.
Sopportando pazientemente i dolori delle nostre malattie, si completa gran parte, e forse la maggior parte, della corona di gloria che Dio ci prepara in paradiso!
La Carità tutto crede.
Chi ama crede a tutto ciò che la persona amata dice; perciò quanto più grande è l'amore di una persona verso Gesù Cristo, tanto più ferma e viva è la sua fede.
La carità è fondata sulla fede e la rende perfetta: chi più perfettamente ama Dio, più perfettamente crede. La carità fa si che l'uomo creda non solo con l'intelletto, ma anche con la volontà. Quelli che credono solo con l'intelletto, hanno una fede molto debole. Così fanno i peccatori, i quali conoscono fin troppo bene le verità di fede, ma non vogliono vivere secondo i precetti divini. Se avessero una fede viva, crederebbero che la grazia divina è il bene più grande e che il peccato è il più grande di tutti i mali, perché ci priva della grazia divina, e certamente cambierebbero vita. Se dunque preferiscono a Dio i miseri beni di questa terra è perché non credono o credono molto debolmente. Chi invece crede non solo con l'intelletto, ma anche con la volontà, cioè crede con amore in Dio che si rivela e gode nel credere, costui crede perfettamente e cerca di conformare la sua vita alle verità che crede.
La mancanza di fede in coloro che vivono in peccato non dipende dall'oscurità della fede. Dio ha voluto che le realtà della fede fossero per noi oscure e nascoste perché la fede fosse meritoria. Tuttavia i segni che rendono credibili le verità di fede sono talmente evidenti, che il non credere in esse sarebbe non solo imprudenza, ma empietà e pazzia.
La debolezza della fede di molti nasce dunque dalla loro cattiva condotta. Chi non vuol privarsi dei piaceri proibiti, disprezza l'amicizia divina e non sopporta nessuna proibizione e castigo per i peccati. Perciò sfugge il pensiero delle verità eterne, della morte, del giudizio, dell'inferno, della giustizia divina; e dal momento che queste verità lo spaventano e amareggiano i suoi piaceri, allora si arrovella il cervello per trovare delle ragioni almeno verosimili con cui possa persuadersi o lusingarsi che non esiste l'anima, né Dio, né l'inferno, per vivere e morire senza legge né ragione, come gli animali.
La fonte di tutto ciò è la rilassatezza dei costumi: da essa derivano le varie specie di materialismo, di indifferentismo e di naturalismo, chi si stanno diffondendo al giorno d'oggi.
O ingratitudine e malvagità degli uomini! Dio li ha creati con infinita bontà... e li ha redenti con tanti dolori e con tanto amore, e loro si sforzano di non credere, per vivere nei vizi seguendo le loro voglie! Se loro lasciassero i vizi e si applicassero ad amare Gesù Cristo, non metterebbero più in dubbio le verità di fede rivelate da Dio, ma crederebbero fermamente in esse!
Ci sono poi altri cristiani i quali credono, ma hanno una fede debole. Credono nei santi misteri, nelle verità rivelate dai Vangeli, nella Trinità, nella redenzione, nei sacramenti e in altre verità, ma non credono in tutte. Nei Vangeli Gesù ha detto: Beati i poveri, beati gli afflitti, beati quelli che hanno fame, beati i perseguitati, beati voi quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e mentendo diranno male contro di voi (Mt 5,5-10). Ora, come può dire di credere nei Vangeli chi dice: "Beati i ricchi, beato chi non soffre, beato chi si diverte e povero chi è perseguitato e maltrattato dagli altri"? Queste persone o non credono nei Vangeli, o vi credono solo in parte. Chi vi crede del tutto considera una grazia e un favore divino in questo mondo l'essere povero, infermo, mortificato, disprezzato e maltrattato dagli uomini. Così crede e così parla chi crede in tutto quello che è detto nei Vangeli, ed ha un vero amore per Gesù Cristo.
La Carità tutto spera.
La speranza fa crescere la carità, e la carità fa crescere la speranza. Anzitutto la speranza nella bontà divina fa crescere l'amore verso Gesù Cristo. San Tommaso scrive che, quando noi speriamo qualche bene da una persona, cominciamo anche ad amarla. Per questo il Signore non vuole che confidiamo nelle creature (cf. Sal 145,3), anzi maledice l'uomo che confida nell'uomo (cf. Ger 17,5). Dio non vuole che confidiamo nelle creature perché non vuole che noi mettiamo in esse il nostro amore.
Corro per la via dei tuoi comandamenti perché hai dilatato il mio cuore (Sal 118,32). Chi ha il cuore dilatato dalla fiducia in Dio corre nella via della perfezione, anzi vola perché, avendo riposto ogni sua speranza nel Signore, da debole qual era diventerà forte, per la forza che Dio comunica a tutti coloro che si affidano a lui. Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi (Is 40,31). L'a-quila, volando in alto, si avvicina al sole; così la persona animata dalla fiducia si distacca dalla terra e si unisce di più a Dio con l'amore.
Come la speranza aumenta l'amore, così l'amore aumenta la speranza. La carità ci rende figli adottivi di Dio. Nell'ordine naturale noi siamo opera delle sue mani, ma nell'ordine soprannaturale, per i meriti di Gesù, noi siamo diventati figli di Dio e partecipi della natura divina, come scrive san Pietro: ...affinché diventiate partecipi della natura divina (2 Pt 1,4). Rendendoci figli di Dio, di conseguenza la carità ci rende anche eredi del paradiso, come afferma san Paolo: Se siamo figli, siamo anche eredi (Rm 8,17). Ora ai figli spetta abitare nella casa del padre, agli eredi spetta l'eredità. Per questo la carità fa crescere la speranza del paradiso. Pertanto coloro che amano Dio non cessano di chiedergli: Venga, venga il tuo regno.
Oggetto primario della speranza cristiana è Dio, che l'anima godrà in paradiso. La speranza del paradiso non è di ostacolo alla carità, ma è strettamente unita alla carità, che in paradiso giungerà alla sua perfezione e pienezza.
San Tommaso d'Aquino scrive che l'amicizia, essendo fondata sull'amore reciproco, comporta una reciproca comunicazione di beni, di modo che "se non vi fosse alcuna comunicazione, non vi sarebbe alcuna amicizia". Per questo Gesù disse ai suoi discepoli: Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio, l'ho fatto conoscere a voi (Gv 15,15). Egli aveva comunicato loro tutti i suoi segreti perché erano diventati suoi amici.
Pertanto l'Angelico insegna che la carità non esclude il desiderio della ricompensa che Dio ci prepara in cielo, anzi ce la fa desiderare maggiormente, dal momento che la ricompensa sarà Dio stesso, oggetto principale del nostro amore, che in cielo potremo finalmente vedere e godere. Infatti l'amicizia comporta che gli amici godano scambievolmente l'uno dell'altro.
Questo è il reciproco scambio di doni di cui parla la sposa del Cantico: Il mio diletto è per me ed io per lui (Ct 2,16). In cielo l'anima si dà tutta a Dio, e Dio si dà tutto all'anima secondo la misura delle sue capacità e dei suoi meriti. Ma essa riconosce il proprio niente rispetto all'infinita amabilità di Dio e sa che Dio ha un merito di essere amato infinitamente maggiore del merito suo di essere amata da Dio. Lei, quindi, preferisce la gioia di Dio alla propria; gioisce di più nel donarsi tutta a Dio per compiacerlo, per infiammarsi d'amore.
La Carità tutto sopporta.
Le pene che in questa vita affliggono di più le persone che amano Dio non sono la povertà, le malattie, i disprezzi e le persecuzioni, ma le tentazioni e le desolazioni di spirito. Quando un credente sperimenta l'amorosa presenza di Dio, allora i dolori, le ignominie e i maltrattamenti degli uomini, invece di affliggerlo, lo consolano, dandogli motivo di offrire a Dio qualche prova del suo amore: per lui le sofferenze sono legna che mantiene vivo il fuoco del suo amore.
Ma il vedersi spinto a perdere la grazia divina a causa delle tentazioni, o il timore di averla perduta quando si trova nelle desolazioni, sono pene troppo amare per chi nutre un sincero amore verso Gesù Cristo. Tuttavia questo amore dà loro la forza di soffrirle con pazienza e di proseguire nel cammino della perfezione.
Le tentazioni
Dio non può essere tentato dal male ed egli non tenta nessuno (Gc 1,13). Le tentazioni che inducono al peccato non vengono mai da Dio, ma dal demonio o dalle nostre cattive inclinazioni. Tuttavia a volte il Signore permette che i suoi amici siano fortemente tentati. Perché lo permette? In primo luogo perché con le tentazioni riconoscano la loro debolezza e la necessità dell'aiuto di Dio per non cadere. Quando una persona è favorita da Dio con divine consolazioni, ha l'impressione di essere capace di superare ogni assalto dei nemici e di compiere ogni impresa per la gloria di Dio. Quando invece è fortemente tentata e si vede sull'orlo del precipizio e vicina a cadere, allora sperimenta la sua miseria e la sua incapacità di resistere senza l'aiuto di Dio.
E quanto avvenne a san Paolo, il quale scrive che fu molto molestato dalla tentazione perché non insuperbisse per le rivelazioni che Dio gli aveva concesso: Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi (2 Cor 12,7).
In secondo luogo Dio permette le tentazioni perché ci distacchiamo da questa terra e bramiamo ardentemente di andare a vederlo in paradiso.
Infatti le anime buone, nel vedersi combattute giorno e notte da tanti nemici, hanno in tedio la vita ed esclamano: Misero me, perché il mio pellegrinaggio si è prolungato (Sal 119,5 Vg). Esse sospirano l'ora in cui potranno dire: Il laccio si è spezzato e noi siamo scampati (Sal 123,7). Esse vorrebbero volare a Dio, ma un laccio le trattiene su questa terra, dove sono continuamente combattute dalle tentazioni. Questo laccio si spezza solo con la morte. Per questo le anime buone sospirano la morte: perché essa le libera dal pericolo di perdere Dio.
In terzo luogo Dio permette che siamo tentati per renderci ricchi di meriti, come fu detto a Tobia: Poiché tu eri accetto a Dio, fu necessario che la tentazione ti provasse (Tb 12,13 Vg). Non dobbiamo temere di essere in disgrazia di Dio per il fatto di essere tentati, anzi allora dobbiamo convincerci di essere maggiormente amati da Dio. Certi spiriti pusillanimi credono che le tentazioni siano peccati che imbrattano l'anima. Questo è un inganno del demonio, perché non sono i pensieri cattivi che ci fanno perdere Dio, ma i cattivi consensi. Per quanto veementi siano le suggestioni del demonio, per quanto impudiche siano le immagini che attraversano la mente, se noi non le vogliamo, non macchiano affatto l'anima, anzi la rendono più pura, più forte e più cara a Dio.
Scrive l'Apostolo: Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche il modo di uscirne e la forza di sopportarla (1 Cor 10,13). Chi dunque resiste alla tentazione, non solo non perde, ma ci guadagna molto. Il Signore spesso permette che le persone a lui predilette siano tentate di più perché acquistino più meriti su questa terra e più gloria nel cielo.
L'acqua stagnante e immobile imputridisce. Così la persona senza tentazioni e senza combattimenti rischia di perdersi nel vano compiacimento dei propri meriti o di credersi già arrivata alla perfezione; e, non temendo nessun pericolo, poco si raccomanda a Dio e poco s'impegna per guadagnare la salvezza eterna. Quando invece essa è agitata dalle tentazioni e si vede in pericolo di precipitare nel peccato, allora ricorre a Dio, ricorre alla Madre di Dio, rinnova il proposito di morire piuttosto che peccare, si umilia e si abbandona nelle braccia della misericordia divina. Così diventa forte nello spirito e si stringe di più a Dio, come dimostra l'esperienza.
Quanto abbiamo detto non significa che noi dobbiamo desiderare le tentazioni, anzi dobbiamo sempre pregare Dio di liberarci da esse, specialmente da quelle più pericolose per noi, come c'insegna a fare Gesù nel "Padre nostro". Però, quando Dio le permette, senza inquietarci o avvilirci, dobbiamo confidare in Gesù e chiedergli aiuto, ed egli ci darà la forza di resistere. Scrive sant'Agostino: "Abbandonati a Dio e non temere perché, se egli ti fa combattere, certamente non ti lascerà solo per farti cadere".