LA DONNA NELLA STORIA\I primi anni dell'industrializzazione
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La crisi degli anni Novanta.

 

La recessione economica che colpisce tutti i paesi industrializzati alla fine del XX secolo sta toccando, ancora una volta, più le donne degli uomini. All'interno della comunità europea il tasso medio di disoccupazione femminile è del 12%, quello maschile è del 9%.

Si ricomincia a parlare di salario di maternità, facoltativo, e ciò non è altro che un modo di invitare le donne a tornare a casa facendo affidamento sulle loro difficoltà a trovar lavoro e di fare carriera, sul senso di colpa delle madri che dedicano meno tempo ai figli, o più semplicemente sulle esiguità di salari che non giustificano più i sacrifici sostenuti.

Questo atteggiamento nasconde spesso la nostalgia di un ritorno al modello dell'angelo del focolare, ben ancorato nella mentalità comune da secoli di tradizioni. Queste proposte, vivacemente avversate dalle femministe, suscitano la diffidenza della maggior parte delle donne che vi intravedono il rischio di essere gradualmente escluse dal mondo del lavoro; la rapida evoluzione delle tecniche, infatti, diminuisce la qualificazione delle donne che rimangono per qualche anno ai margini del mondo professionale.

Alcuni Paesi incoraggiano lo sviluppo del lavoro a domicilio; in altri il lavoro part-time, denunciato come un ostacolo per una carriera "normale", esercita comunque una forte attrattiva su molte donne, alle quali consente di conciliare la vita professionale con quella familiare. Con l'istituzione di corsi sulle tematiche femministe nelle università, dove occupano posti importanti, con una politica di lotta a favore delle "quote"- secondo cui un certo numero di posti di lavoro vengono riservati alle donne, sull'esempio delle quote per le diverse etnie- le donne americane hanno ottenuto, fra gli anni '70 e '80, i progressi gran lunga più significativi.

Sono comunque soprattutto le classi medie che hanno tratto vantaggio da questa ascesa, grazie al loro elevato livello di istruzione. Negli Stati Uniti, paese nel quale l'assistenza sociale è scarsa se non inesistente, sono le donne degli ambienti sociali svantaggiati a subire più pesantemente le dinamiche della disoccupazione e dell'esclusione.

In questa fine secolo, sembrano persistere alcuni potenti freni al lavoro delle donne, in modo particolare sul piano della mentalità. L'apporto salariale delle donne sposate viene spesso considerato come un'integrazione di quello del marito; da ciò la convinzione che esse possano abbandonare l'impiego quando la situazione del coniuge migliora o quando la famiglia si sposta. Un altro fattore di dissuasione è quello del senso di colpa associato all'impossibilità delle donne di poter seguire in ogni momento la crescita dei figli, tanto più che le strutture sociali (asili nido, scuole materne, …) sono ovunque insufficienti e le rette di iscrizione costringono spesso le donne a spendervi gran parte del proprio stipendio.

Un altro ostacolo è la concezione della divisione dei ruoli all'interno della famiglia. Per molto tempo si è ritenuto che solo la donna dovesse assumersi la responsabilità dei compiti domestici e dell'educazione dei figli, mentre il compito del marito era quello di lavorare e di portare a casa i soldi. Negli anni '70, le donne lavoratrici hanno cominciato a mettere in discussione questa divisione di compiti (le prime in Europa sono state le svedesi), tanto più che le prestazioni delle lavatrici, dei congelatori e degli altri elettrodomestici hanno ridotto il tempo necessario per curare la casa. E' sembrato quindi del tutto normale e legittimo che gli uomini si facessero carico di una parte del lavoro domestico.

Anche in questo campo però le resistenze rimangono forti; nonostante le nuove generazioni comincino la loro vita di coppia con un'uguale divisione dei compiti e i giovani padri si occupano senza complessi dei figli, gli antichi schemi finiscono per riprendere il sopravvento.

Il timore di una "devirilizzazione" dell'uomo dedito alle faccende domestiche è sempre vivo, soprattutto nei paesi latini. Meno evidente è nei paesi anglosassoni, che tradizionalmente hanno assegnato alla donna un ruolo più importante nella vita sociale.

In sintesi, malgrado la buona volontà, la strada da percorrere è ancora lunga.

Il secolo che si sta concludendo ha visto le donne penetrare in forze nel mondo del lavoro, e ciò per ragioni economiche, politiche, psicologiche. Nonostante tutte le difficoltà, sembra ormai acquisito, per la maggioranza delle donne, che il lavoro sia una condizione indispensabile per la loro indipendenza economica e per il loro sviluppo personale.

Il secondo punto da sottolineare è l'aspra lotta che le sindacaliste hanno dovuto sostenere per far riconoscere la specialità del lavoro femminile in una cultura operaia che non concepiva differenze fra lavoratori e lavoratrici. I miglioramenti delle condizioni del lavoro femminile nel corso del secolo sono comunque dovuti anche ai sindacati che si sono impegnati su aspetti specifici come il lavoro notturno, la maternità.