Bob Noorda, il genio dei marchi: L'uomo che rifà
il look alle aziende e ai metrò
apparso su La Repubblica - 16.03.2005
Intervista di Armando Besio
"Ai giovani consiglio di
non usare troppo i computer, un buon progetto comincia dal disegno
manuale"
Milano
- Fu l'azzeccato restyling del marchio di un popolarissimo biscotto
a rivelare, nella Milano dei primi anni cinquanta, effervescente
laboratorio del design italiano, il talento di un giovane grafico
olandese appena sceso in Centrale con la valigia piena di fantasia
ma senza un quattrino, e senza parlare un parola di italiano.
Il biscotto era il Pavesino, l'autore del marchio Bob Noorda,
classe 1927, olandese di Amsterdam, milanese di adozione, maestro
di grafica e design famoso in tutto il mondo.
La sua specialità, da allora, è sempre stata la
corporate image, ossia l'immagine coordinata aziendale. In cinquant'anni
di lavoro ha disegnato 150 marchi, alcuni celeberrimi: Agip, Lanerossi,
Mondadori, Touring Club, Feltrinelli, Vallecchi, Coop, Enel...
Ha firmato anche la segnaletica di grandi metropolitane: Milano,
New York, San Paolo.
Eleganza, rigore, semplicità hanno sempre distinto
i suoi progetti. Dove ha imparato queste qualità?
«All'Istituto di Design di Amsterdam, diretto da un maestro,
Rietveld. I miei insegnanti erano quasi tutti ex professori del
Bauhaus.
Fu da loro che ricevetti un'educazione molto razionalista, che
mi ha fatto bene e che non ho mai dimenticato»
Come
mai decise di venire a Milano?
«Volevo
fare esperienza all'estero.
Milano era la città della Triennale, la città dove
stava nascendo il grande design.
Lavoravo mezza giornata per una piccola agenzia, che mi procurò
l'incarico per i Pavesini, il mio primo successo.
L'altra mezza giornata andavo in giro a farmi conoscere»
E
conobbe Pirelli.
«Incontro
decisivo.
Pirelli era un grande industriale e un grande intellettuale.
Voleva fare concorrenza a Olivetti, che a Ivrea chiamava i più
grandi architetti e designer.
Dava molto spazio ai collaboratori, che con lui avevano occasione
di crescere e di mettersi in luce».
Negli
anni sessanta vinse il suo primo Compasso d'Oro con la segnaletica
della neonata metropolitana milanese.
«Fu
l'architetto Franco Albini a chiamarmi.
Lui era stato incaricato di progettare gli arredi delle stazioni.
Quella segnaletica ebbe così successo che poi mi affidarono
anche quelle di New York e San Paolo».
Peccato che oggi la stiano rovinando con un restauro stupidissimo.
«Stupido, già.
Non saprei come definirlo altrimenti.
Avevo usato una vernice opaca, per i pannelli rossi, ora stanno
usando una vernice lucida che spara negli occhi e quasi non si
riesce a leggere.
E stanno usando un carattere tipografico diverso dall'originale,
molto più banale rispetto a quello che io avevo disegnato.
Potevano coinvolgermi, non capisco perché non l'abbiano
fatto. Ma un tempo i dirigenti d'azienda, e molti dei politici,
erano anche persone di buon gusto, ora non è più
così».
Parliamo degli altri due Compassi d'Oro che ha vinto.
«Il
secondo fu per l'immagine aziendale della Fusital, un fabbrica
brianzola di maniglie. I
l terzo per il marchio della Regione Lombardia».
Una
specie di quadrifoglio: che cosa raffigura in realtà, e
come nacque?
«L'incarico
fu dato da Piero Bassetti, primo presidente della Regione, a me,
Roberto Sambonet e Pino Tovaglia.
Trovare un simbolo per la Lombardia non fu facile.
Dopo molti tentativi, ci fermammo a ragionare intorno a un'incisione
rupestre della Val Camonica, la cosiddetta rosa camuna: che poi
sia davvero un fiore non è detto, nessuno l'ha mai capito.
Rielaborando quel disegno nacque il marchio della Regione.
Di colore verde, simbolo del paesaggio agricolo e segno di speranza».
Qual è l'aspetto del suo lavoro del quale va più
orgoglioso?
«Ho
disegnato centinaia di marchi, in anni anche lontani, e mi sento
di poter dire che la maggior parte non è invecchiata.
Ho cercato di progettare immagini che durassero, e credo di esserci
riuscito».
Com'è
cambiato in questi anni il rapporto con la committenza?
«Un
tempo di trattava direttamente coi capi azienda, presidenti e
amministratori delegati, ed erano gente di cultura.
Penso a Pirelli, Mondadori, Tatò.
Oggi capita spesso di dover trattare con figure di secondo piano
e meno sensibili».
Un
consiglio ai tanti giovani che oggi studiano design a Milano?
«Non
abusare del computer. Il computer è un serbatoio quasi
infinito di soluzioni grafiche ma offre fin troppe possibilità,
autorizza eccessi gratuiti di fantasia che non fanno bene al progetto,
perché infine lo complicano anziché semplificarlo.
Ricordate la lezione del Bauhaus: manualità e razionalità.
Un lavoro ben fatto deve sempre iniziare dal disegno manuale»