Referendum art. 18: un mezzo improprio
10-6-03
La soluzione è una riforma che coinvolga le parti
sociali e l'opposizione riformista.
Da un po’ di tempo non si parlava più di articolo 18.
Esso, era stato perfino cauterizzato dal capo del governo nella conferenza
stampa di fine anno, ora ritorna prepotentemente al centro della scena.
La Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il
quesito posto da Rifondazione, Verdi, FIOM e sinistra DS per abrogare le
norme che limitano il campo di applicazione dell’art. 18 della legge 300 del
1970 – ovvero lo Statuto dei lavoratori ai dipendenti delle sole aziende che
superano i 15 dipendenti.
L’art. 18 dispone la reintegra in azienda del
lavoratore licenziato senza giusta causa, ovvero allontanato dal posto di
lavoro per ragioni non coincidenti con quelle previste dalla leggi 604 del
1966 e 108 del ’90.
È quasi superfluo ricordare che, a fronte di una
proposta di parziale modifica dell’art. 18 avanzata dal Governo, Cofferati
ingaggiò una battaglia campale contro Berlusconi sfociata nella oceanica
manifestazione del 22 marzo a Roma. L’argomentazione di Cofferati aveva un
architrave principale: l’art. 18 è un diritto di civiltà e dunque è
intangibile. Se è un diritto di civiltà – ha ragionato parte della sinistra
– allora deve essere esteso a tutti, poiché i diritti sono inviolabili. Di
qui l’iniziativa referendaria che i vari leader che hanno proposto il
referendum hanno abilmente avviato per aprire contraddizioni nello
schieramento di opposizione al Governo e riconquistare la scena che
Cofferati sembrava aver brillantemente occupato nella sinistra dello
schieramento politico.
Ma nel merito che dire? Innanzitutto che se
l’art. 18 fosse un diritto di civiltà e non una importante forma di tutela
del lavoratore, tre quarti dei paesi europei sarebbero “incivili”! Infatti
le modalità di protezione del lavoratore vanno da un massimo di flessibilità
dell’Inghilterra e dell’Irlanda al massimo di rigidità dell’Austria e
dell’Italia.
Forse la questione avrebbe dovuto essere affrontata
- prima di tutto dal Governo - in modo meno ideologico e depurata dal non
tanto segreto intento di “spezzare le reni al sindacato”. Una cosa
è certa: l’uso del referendum per rimodulare le tutele dei lavoratori, è un
arma impropria. Come utilizzare un’accetta per fare la punta ad una
matita. Ma non è solo questione di metodo. E’ anche il merito che è
sbagliato. Perchè l’estensione chiesta attraverso il referendum
non sarebbe totale: lascerebbe comunque fuori tutti i lavoratori atipici.
Per di più non farebbe che trasferire alle piccole aziende modelli di tutela
che possono essere giustificati nelle grandi imprese, ma che diventano
inservibili e controproducenti nelle piccole imprese. E non solo per
l’imprenditore, ma anche per gli stessi lavoratori. Proviamo a pensare,
al reintegro di un dipendente, in un impresa di 10 persone, dove tutti
lavorano gomito a gomito? Dunque la mina andrebbe disinnescata con una
riforma legislativa che coinvolga le parti sociali e anche quella parte di
opposizione che ha una chiara ispirazione riformista.
Potrebbero essere prese in considerazione sia la
proposta del prof. Accornero che quella del prof. Ichino. Il
primo sostiene l’opportunità di estendere l’art. 18 – ovvero la
reintegrazione sul posto di lavoro per licenziamento senza giusta causa – a
tutti i lavoratori ma solo nel caso in cui l’interruzione del rapporto di
lavoro avvenga in forza di un palese discriminazione di sesso, religione,
attività politica o sindacale. Cioè diritti individuali della persona.
Negli altri casi sarà invece il giudice a decidere utilizzando
prevalentemente lo strumento del risarcimento. Non molto difforme la
proposta Ichino: il Parlamento adotti una legislazione simile a
quella tedesca dove il giudice discrezionalmente può decidere se adottare un
provvedimento di reintegrazione della persona nel suo posto di lavoro o se
assicurargli un risarcimento con un limite massimo di 18 mesi di salario.
Inoltre, estendere l’applicazione di tali norme a tutte le aziende che
abbiano più di quattro dipendenti.
Due vie ragionevoli che paradossalmente favorirebbero
una modernizzazione del nostro sistema di tutele del lavoro che andrebbe
altresì radicalmente rivisitato secondo linee simili a quelle proposte da
Tiziano Treu e Giuliano Amato nella “Carta dei diritti dei
lavoratori e delle lavoratrici”. La cosa peggiore sarebbe che il Paese
si bloccasse un’altra volta in uno scontro ideologico foriero solo di
cattive notizie sia per le imprese che per i lavoratori. Tutto ciò non
transige dal fatto che dobbiamo sforzarci di capire anche le ragioni di una
certa parte della sinistra e lavorare e confrontarci con loro, senza
pregiudiziali, affinché prevalga comunque quel sentire comune che deve unire
tutti i riformisti su un progetto condiviso, che sia presentabile come
possibile linea di governo futura, per il bene di tutto il Paese.
Gruppo di coordinamento
|