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  Ultimo aggiornamento: 29-05-05

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 Serata sui referendum

24-05-05

Cenni medici sui temi della legge 40
e sulla  fecondazione assistita

dott. Roberto Pancaldi


E' mia intenzione dividere l'argomento in quattro parti
1) Aspetti di embriogenesi (senza nascondere che dal punto di vista scientifico penso che nessuno possa individuare il momento in cui l' ovocita fecondato diviene un potenziale soggetto o individuo, tanto più che l'annidamento in utero, anche in situazione naturale, avviene in una percentuale apparentemente bassa; inoltre fino allo stadio di blastocisti cioè attorno alla 12° giornata non è possibile distinguere quali cellele totipotenti formeranno il nascituro e quali andranno a formare gli annessi embrionali cioè il sacco vitellino, ecc., ovvero le parti di " supporto allo sviluppo del nascituro; ancora si può osservare che solo allo stadio della blastocisti inizia un abbozzo di differenziazione per cui è individuabile il sistema nervoso embrionario. Queste sono le motivazioni per cui l'area anglosassone parla di preembrione fino alla 12° giornata. Tutto il resto, indipendentemente da mio pensiero, è ricollegabile a motivazioni etiche, morali, filosofiche, legali e teologiche)
2) Descrizione sommaria delle cause di infertilità (ovvero ridotta probabilità di procreare ) e di strerilità (ovvero impossibilità a procreare) maschile e femminile con note di collegamento all'età della coppia.
3) Riassunto delle tecniche di PMA, dalle meno invasive (semplice monitoraggio dell'ovulazione e stimolazione farmacologica dell' ovulazione con controllo ecografico per individuare i giorni ottimali per rapporti naturali) a quelle poco invasive ma con una influenza esterna ( stimolazione farmacologica dell' ovulazione, più impegnativa della precednte, associata a tecniche di inseminazione artificiale in utero o in tuba) fino alle metodiche più invasive di FIVET ovvero "fecondazione in vitro embrio transfert" associata o meno a ICSI cioè "microiniezione artificiale dello spermatozoo nell'ovocita"o alla GIFT cioè alla inseminazione diretta nella tuba di spermatozoi ed ovociti precedentemente prelevati con la tecnica iniziale della FIVET per ottenere una fecondazione in vivo e non in vitro. A questo aggiungerò le principali complicanze; tra esse è interessante osservare che i parti plurigemellari sono più frequenti con le metodiche soft poichè non è possibile il controllo del numero di ovociti prodotti e quindi fecondabili. In questa parte non posso tacere che è certamente vero che gli embrioni scongelati (o preembrioni sec. molta letteratura) hanno prodotto discussioni accese tra gli addetti ai lavori per possibili malformazioni pur con dati, almeno dalle mie ricerche, poco chiari, ma è vero che per ogni FIVET, con utilizzo di un massimo di tre embrioni (che è la metodica standard utilizzata per evitare il rischio di parti plurimi), la probabilità di successo è di circa il 20%; questo significa che dopo un insuccesso la coppia deve ripetere l'intera procedura, in particolare la donna deve risottoporsi nuovamente alla stimolazione ormonale (con alcuni rischi) e al prelievo degli ovociti mediante agoaspirazione (con altri rischi). Ancora non posso non tacere che prima di sottoporsi a FIVET, quando sono presenti nella storia clinica dei componenti della coppia dati eugenetici di alcuna malattie ereditarie ( tra l'altro il dato è statisticamente aumentato, rispetto alla norma, nelle coppie con maschio infertile) i componenti della coppia sono invitati ad eseguire dei test genetici per valutare se sono o meno portatori di tali malattie (chiaramente con il loro consenso); va da sè che, in caso di rischio, lo studio genetico di una cellula dell' embrione permette di non utilizzare embrioni malati; l'altra soluzione, se la coppia non vuole il rischio di nascituri malati è l'amniocentesi (manovra a rischio) ed eventuale successivo aborto (ulteriore rischio). In queste situazioni affidarsi al caso ( a meno che non sia richiesto, per convinzione, della coppia), nell'ambito dell'etica medica, mi sembra assimilabile a non mettere in atto la profilassi e la diagnosi precoce quando sarebbe doverosa. E' ovvio che parlerò sempre di coppia ed insisterò che tutte queste procedure debbono avere una reale gradualità non senza tentare prima delle eventuali cure della infertilità per rendere possibile una precreazione naturale senza andare impropriamente a tecniche di PMA. 
4) Piccolo escursus dello stato dell' arte sulle cellule staminali con descrizione di che cosa sono e quante se ne conoscono per ora. Ha ragione il prof. Eusebi affermando che attualmente nelle terapie utilizzate, anche in quelle sperimentali, sono utilizzate cellule staminali adulte. Sono apparsi inoltre lavori scientifici accreditati che ritengono possibile ricavare cellule staminali totipotenti simili alle embrionarie anche da altri tessuti (muscolo). Si può obiettare però che le cellule staminali adulte ad utilizzo terapeutico, essendo prevalentemente quelle emopoietiche ( del sangue), sono studiate dagli anni ottanta, mentre le embrionarie sono studiate da 5-6 anni perciò non ne sono ancora noti i possibili reali sviluppi. E' etico acquistare delle linee di staminali embrionali all'estero per rendere possibile lo studi in Italia? E' giusto che l'Italia si escluda da tali ricerche con la possibilità che il futuro porti, grazie ad esse, svolte importanti per molte malattie? Importanti ricercatori pensano che ci saranno importanti scoperte con altrettante importanti ricadute terapeutiche. Credo che sia giusto augurarselo, ma poi dipendermo dall'estero. Qualche giorno fa la Accademia dei Lincei, a stragrande maggioranza, ha reso pubblico un documento che chiede l'utilizzo degli embrioni congelati esistenti, eventualmente con donazione, per la ricerca sulle cellele staminali. Ai posteri l'ardua sentenza.

 

 

 

Lo statuto dell’embrione, il problema eugenetico,

i criteri della generazione umana

 

La legge n. 40/2004 e i quesiti referendari

 

 

Luciano Eusebi

ordinario di Diritto penale nella Università Cattolica - membro del Comitato Nazionale per la Bioetica

 

 

1. I problemi nuovi posti dalle tecniche procreative. – Il diritto si trova in questi anni a occuparsi per la prima volta della vita umana nella sua fase iniziale. Fino a pochi decenni orsono, infatti, su tale fase iniziale non era possibile intervenire: ciò si è reso tecnicamente realizzabile, in primo luogo, proprio con la praticabilità della fecondazione artificiale e, dunque, con la disponibilità di embrioni in vitro; in secondo luogo, col diffondersi di mezzi suscettibili di ostacolare lo sviluppo precoce dell’embrione e, in particolare, di impedirne l’annidamento nella parete uterina.

Attraverso le tecniche procreative, peraltro, non solo si è resa disponibile, o se si vuole tangibile, la prima fase della vita umana, ma è venuta a proporsi la questione ulteriore relativa ai criteri di generazione della medesima.

Si tratta, anche in questo caso, di un tema che nel passato l’ordinamento giuridico aveva potuto non affrontare (fatto salvo il divieto di rapporti sessuali violenti, incestuosi o troppo precoci), posto che la procreazione risultava inscindibilmente connessa, finché non si resero praticabili tecniche di inseminazione artificiale e, successivamente, di fecondazione extracorporea, alla relazionalità sessuale, che rendeva automatico il sussistere di ben precise condizioni del procreare.

Sorge dunque anche per il diritto, in rapporto all’estendersi dei contesti in cui, volendolo, risulta realizzabile l’inizio di una nuova vita individuale, l’interrogativo attinente ai requisiti di una generazione della vita che corrisponda alla dignità umana.

Alla luce di questi rilievi preliminari, sarà proposta una riflessione in tre punti, attinenti allo statuto dell’embrione, al coinvolgimento di embrioni nelle tecniche di procreazione (con particolare riguardo alla tentazione eugenetica) e all’esigenza di definire regole le quali presiedano alla generazione umana[1].

 

2. Lo statuto dell’embrione umano. – I dati concernenti l’inizio della vita di un nuovo individuo sono da tempo disponibili. Il sussistere di qualsiasi individuo vivente – non solo di un essere umano – si ha quando risulta già e tuttora in atto una sequenza di sviluppo esistenziale continua: in altre parole, quando risulta in atto un processo che si caratterizza per il suo procedere come sistema, una volta instauratosi, senza alcun bisogno di ulteriori impulsi dall’esterno, fino alla morte (purché si trovi, ovviamente, in un ambiente adatto).

Si tratta, altresì, di una sequenza autogovernata, e dunque tale che il principio guida o, per così dire, il motore dello sviluppo è interno al sistema: secondo le peculiari caratteristiche genetiche di quel determinato individuo.

Una simile sequenza continua di sviluppo esistenziale si concluderà col venir meno dell’organismo, cioè dell’esistenza di funzioni biologiche unitariamente coordinate: il che avviene con la morte cerebrale completa.

Reciprocamente, il sussistere di tale sequenza, secondo le caratteristiche poco sopra esposte, è constatabile dalla fecondazione, e in particolare dal momento in cui con la penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo la sequenza continua di sviluppo prende avvio (da tale momento essa può essere solo interrotta, posto che se le viene consentito di svolgersi in condizioni adatte procede spontaneamente, fin quando ha termine per ragioni naturali o patologiche)[2].

Simile sequenza può per sé instaurarsi anche in modo diverso rispetto alla fecondazione: in particolare a seguito del determinarsi nell’embrione in epoca molto precoce di un nuovo piano di sviluppo, che dà luogo a un gemello monozigote (per esempio, a seguito di una variazione genetica o cromosomica in una cellula dell’embrione medesimo, tale che le cellule da essa derivanti si separano dall’embrione dando avvio a una seconda e autonoma sequenza esistenziale); ma l’instaurarsi di una sequenza esistenziale continua e autogovernata si verrebbe ad avere pure nel caso in cui – a parte l’inammissibilità etica e giuridica – dovesse essere realizzata una clonazione, attraverso la sostituzione del nucleo aploide di un ovulo femminile maturo col nucleo diploide di una cellula somatica ovvero provocando la separazione di cellule ancor totipotenti da un embrione.

La vita di un individuo, dunque, sussiste in quanto vi sia un sistema che svolge la sua sequenza esistenziale in modo continuo, e ciò si realizza, ordinariamente, dalla fecondazione: con essa null’altro prende avvio se non la sequenza di sviluppo, priva di qualsiasi soluzione di continuità, propria di un individuo, nel nostro caso, umano (il sussistere di tale sequenza di sviluppo implica l’esistenza di un individuo umano).

Non a caso, ogni vivente si ritrova, per così dire, in vita e non autoproduce, né all’inizio, né in qualsiasi momento successivo, la sua vita.

Ne consegue, inoltre, l’unitarietà dello sviluppo individuale: abbiamo del resto abbandonato da secoli la prospettiva dualistica ai sensi della quale l’essere umano fu talora descritto secondo una dimensione fisica cui si affiancherebbe una dimensione per così dire superiore, da essa separata, che verrebbe inserita dall’esterno in un momento successivo all’inizio dello sviluppo fisico, momento di cui, ovviamente, manca qualsiasi indizio; l’essere umano è, in effetti, una realtà unitaria, che svolge la sua parabola esistenziale (nella quale trovano espressione le diverse capacità a essa riferibili) dall’istante in cui la vita dell’individuo ha inizio.

Che cosa dunque verrebbe davvero in gioco, anche dal punto di vista giuridico, ove si fosse disposti a riguardare l’embrione come puro materiale biologico, operando una sorta di cosificazione della vita umana nella sua fase iniziale?

Verrebbe in gioco l’arretramento a una prospettiva di tutela non già riferita all’esistenza di una vita individuale (e, pertanto, di una sequenza di sviluppo esistenziale umana in atto), bensì all’espressione attuale di determinate capacità da parte dell’individuo di volta in volta interessato[3].

Ma si noti bene: l’abbandono di quest’ultima prospettiva ha costituito una delle più grandi conquiste del diritto moderno; se si vuole, del diritto laico moderno, attraverso un percorso di molti secoli.

Ciò si è manifestato mediante l’ancoramento dei diritti dell’uomo, come si evince dall’art. 1 della Dichiarazione universale, alla pura e semplice esistenza di un individuo in vita, in tal modo rifiutandosi qualsivoglia rilievo ai fini della tutela di giudizi ulteriori riferiti alle capacità, alle qualità o all’epoca di sviluppo della vita di un essere umano.

Il che ha consentito di dare un fondamento sostanziale alla democrazia, sottraendo la titolarità dei diritti dell’uomo a valutazioni esterne, concernenti le caratteristiche con cui la vita di un individuo attualmente si manifesti.

Del resto, è l’esistenza di un individuo che esige dagli altri un comportamento nei suoi confronti conforme alla sua dignità, posto che quest'ultima certamente non può dipendere – come taluno sembra sostenere – dalla maggiore o minore disponibilità degli altri individui a stabilire relazioni positive con lui (salvo considerare carenti di dignità personale tutti gli emarginati della terra).

La sequenza di sviluppo della vita di ciascun individuo descrive – ovviamente – una parabola che conduce all’acquisizione graduale, ma anche al deterioramento, di certe capacità fisiche e intellettive, capacità le quali senza dubbio non sono identiche nell’embrione di pochi giorni, nel feto di alcune settimane, nel neonato, nel fanciullo, nell’adulto, nell’anziano (si noti che talune capacità, come quelle di apprendimento, sono particolarmente sviluppate proprio in fase precoce): ma ciò non incide per nulla sulla costante ed equipollente dignità di quell’individuo nell’intero arco della sua vita.

Oggi nessuno riterrebbe che l’infante, il fanciullo o il malato siano portatori di una dignità umana inferiore rispetto a quella dell’adulto sano, poiché non attualmente in grado di esprimerne tutte le abilità. E ciò vale anche per l’anziano, per il disabile, nonché, sotto altri profili, per chi sia povero o privo di istruzione.

Anzi, è consolidato l’assunto che simili condizioni personali, inidonee secondo gli artt. 2 e 3 della Costituzione italiana a giustificare qualsiasi atto discriminatorio, costituiscano il diritto a una tutela maggiore: il preambolo della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, citando il preambolo della Dichiarazione approvata dall’ONU sui diritti del fanciullo, afferma significativamente, per esempio, che quest’ultimo, «a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita»[4].

Non proteggere l’embrione umano vorrebbe dire, pertanto, introdurre logiche le quali subordinano la tutela dei diritti fondamentali a un giudizio sul livello di prestazioni che un individuo in vita è attualmente e contingentemente in grado di esprimere, in tal modo contraddicendo il percorso laico di elaborazione del diritto moderno, con una serie di implicazioni della massima gravità.

Non è d’altra parte un caso che lo stesso articolo 1, spesso trascurato, della legge italiana in materia di aborto dichiari senza altre specificazioni che lo Stato «tutela la vita umana dal suo inizio».

Dunque, non si vede quale argomento razionale possa giustificare, alla luce della riflessione sui dati scientifici e nel quadro dei principi giuridici costituzionali, l’assunto secondo cui l’essere in atto una sequenza di sviluppo esistenziale umana non implicherebbe che ad essa vada riconosciuto il diritto di poter procedere senza subire interventi lesivi (in altre parole, che debba essere tutelata la vita individuale che in tale sequenza di sviluppo si esprime).

Secondo una regola consolidata, del resto, quando sussistesse anche soltanto un dubbio circa la compromissione di un bene fondamentale qual è la vita umana dovrebbe operare la logica cautelativa espressa dal principio di precauzione, o tuzioristico; ma perfino nel caso in cui – inaccettabilmente – si volesse dare rilievo alla manifestazione contingente di determinate capacità psichiche o intellettive, non è dato comprendere perché mai chi non le potesse più esprimere, poniamo a seguito di un grave incidente, e avesse solo qualche possibilità di recuperarle, andrebbe curato, mentre l’embrione, che lasciato vivere porterebbe certamente a espressione tali capacità, sarebbe addirittura suscettibile, secondo taluni, di essere eliminato.

 

3. Embrione e tecniche procreative (in particolare, il problema eugenetico) – Circa il ruolo dell’embrione rispetto alla fecondazione in vitro va evidenziato innanzitutto il problema preliminare derivante dal fatto che tale tecnica rende in sé possibile la generazione di embrioni per qualsiasi fine, e dunque anche per fini estranei alla prospettiva di consentire lo svolgimento dell’intera parabola esistenziale dell’individuo che si genera.

Risulta in altre parole praticabile una procreazione finalizzata a utilizzare strumentalmente gli embrioni prodotti, così da provocare o mettere in conto la fine precoce, o precocissima, della loro vita.

Il tema, più sopra segnalato, avente per oggetto i requisiti di una generazione della vita che corrisponda alla dignità umana non riguarda, pertanto, solo le modalità intese alla generazione di quello che resti percepito come un figlio (cioè desiderando l’intero svolgimento della parabola esistenziale possibile a un nuovo individuo), ma investe, altresì, i fini stessi del procreare.

Tutto questo rende ancor più evidente la responsabilità che compete al diritto in rapporto alle tecniche procreative o di intervento precoce sull’esistenza individuale, date anche le pressioni, spesso palesi, intese a una vera e propria cosificazione dell’embrione umano (nonostante il parallelo processo giuridico di decosificazione della vita animale).

In particolare, quanto s’è detto implica la non accettabilità della utilizzazione di embrioni umani come materiale biologico e, a fortiori, della loro produzione a tale scopo, come avverrebbe anche nel caso in cui essi fossero generati mediante procedure di clonazione (impropriamente definita terapeutica). Il che costituisce applicazione del principio generale ai sensi del quale non è accettabile un’attività medica (per esempio di sperimentazione farmacologica, ricerca, prelievo d’organi) dannosa rispetto all’individuo sulla quale venga svolta.

Ciò premesso, rispetto alle tecniche di fecondazione in vitro con finalità di embryo-transfer (fivet), emergono, come è noto, tre nuclei problematici che investono la tutela giuridica dell’embrione.

Il primo nodo riguarda la eventuale produzione di embrioni cosiddetti soprannumerari, vale a dire eccedenti rispetto al numero degli embrioni che s’intendano trasferire immediatamente in utero.

Ove risulti davvero evitata la produzione di embrioni in soprannumero, facendo sì che il numero degli embrioni generati in vitro non possa essere superiore al numero degli embrioni che saranno trasferiti (fermo il rispetto del limite quantitativo normativamente definito), viene ordinariamente meno la problematica relativa al congelamento – o crioconservazione – di embrioni (i quali, come è noto, non risultano più trasferibili se superano una certa fase dello sviluppo): condizione, quella del congelamento, implicante – nella fase dello scongelamento – la perdita di un notevole numero di embrioni (la crioconservazione resta peraltro l’unico strumento con cui evitare la morte degli embrioni, e consentire un loro possibile trasferimento successivo, nel caso in cui sopravvenga dopo la fecondazione l’imprevista impraticabilità di un loro trasferimento immediato, ad esempio per una patologia impeditiva intervenuta nella donna); e condizione tale da configurare, in assenza della richiesta di impianto da parte della donna coinvolta nella fecondazione, problemi etici assai delicati circa il miglior atteggiamento a tutela dei medesimi.

Evitando la programmata produzione di embrioni soprannumerari, successivamente congelati, verrebbe altresì escluso il rimando alla fivet per giustificare l’esistenza di embrioni dei quali non sia più richiesto il trasferimento in utero e per proporne l’utilizzazione, distruttiva, a fini di ricerca. Peraltro, l’impossibilità stessa della sopravvivenza, oltre una certa fase, di determinati embrioni, non può in alcun modo legittimare, finché siano vivi, interventi (quale ne sia il fine) a loro danno[5].

Del resto, il trasferimento in utero di più di tre embrioni risulterebbe pericoloso per la stessa donna; né appare credibile che, in assenza di limiti, si utilizzerebbero – nei tentativi di realizzare l’impianto successivi al primo ciclo di trasferimento – embrioni precedentemente congelati, senza dunque procedere a nuove stimolazioni ovariche: una cosa, infatti, è dare la possibilità dello sviluppo, trasferendolo in utero, a embrioni eccezionalmente congelati per forza maggiore; altro sarebbe mettere sistematicamente in conto l’utilizzazione, a quel punto del tutto prevalente, di embrioni che abbiano subito un processo di crioconservazione e scongelamento, processo di cui non si possono escludere a priori (lo si potrà fare, eventualmente, solo dopo molti anni di monitoraggio sui nati dopo crioconservazione) profili di incidenza dannosa.   

Il secondo problema relativo al ruolo degli embrioni nella fivet è da riferirsi alla possibilità di operare una valutazione degli embrioni in vitro nella fase anteriore al trasferimento in utero.

Tale valutazione potrebbe giungere a sostanziarsi in uno screening di natura genetica, ove si addivenisse ad ammettere la procedura, tra l’altro estremamente invasiva e pericolosa per l’embrione, rappresentata dalla c.d. diagnosi preimpiantatoria, la quale implica il prelievo di una o due cellule dall’embrione nel momento in cui il medesimo è allo stadio di cinque/otto cellule, vale a dire nel momento in cui le cellule che lo compongono sono ancora totipotenti.

 Tutto questo pone un quesito complessivo di enorme spessore, sia dal punto di vista culturale che bioetico, per la nostra epoca: se si vorrà utilizzare il patrimonio di conoscenze genetiche che siamo in grado di ottenere, e sempre più lo saremo in futuro, nei confronti di ciascun individuo secondo modalità di alto profilo, cioè per fare in senso ampio terapia (farmacogenetica, gene-terapia), oppure secondo modalità applicative di spessore molto basso e indifferenti alla dignità del soggetto sul quale si acquisiscono conoscenze, cioè per fare selezione a esistenza già iniziata.

La problematica è di grande rilievo umano oltre che teorico, come attesta efficacemente un documento – Le persone con disabilità discutono della nuova genetica – diffuso dall’associazione Disabled People’s International - Europe per contrastare il diffondersi di prassi eugenetiche precoci, documento del quale si riportano in nota alcune richieste di sintesi[6] (tali prassi, infatti, si pongono in radicale contrasto col riconoscimento della piena dignità umana degli individui a qualunque titolo disabili, i quali non a caso, oggi, si vorrebbero meglio definiti – proprio per significare che la loro condizione non incide sul valore del loro vissuto umano – come «diversamente abili»: si rammenti, in proposito, l’art. 11 della Convenzione di Oviedo su Diritti umani e biomedicina, ai sensi del quale «è vietata qualsiasi forma di discriminazione nei confronti di una persona a causa del suo patrimonio genetico»).

La prospettiva eugenetica condurrebbe a un mutamento nello stesso approccio di fondo verso la fivet: da tecnica utilizzata in rapporto a situazioni di infertilità o sterilità in senso proprio (secondo la prospettiva accolta dalla legge n. 40/2004), a tecnica utilizzabile per consentire lo screening precoce circa le caratteristiche del generato, o meglio della pluralità di embrioni generati.

Nel caso in esame verrebbe dunque prodotta una pluralità di embrioni in vista dello screening: si avrebbe la situazione radicalmente nuova di embrioni generati a priori «sotto condizione», cioè in vista di un procedimento selettivo. 

Non va tra l’altro dimenticato che l’eventuale prelievo dall’embrione, ai fini dell’indagine genetica, di cellule ancor capaci di totipotenzialità potrebbe implicare la distruzione non già di mere cellule quanto di un vero e proprio nuovo individuo, essendo tali cellule teoricamente in grado di dar luogo a un’autonoma sequenza esistenziale, costituente un gemello monozigote (si realizzerebbe, in pratica, una clonazione impropria o splitting).

Neppure va dimenticato come l’ottica eugenetica incida sui rapporti intersoggettivi anche con riguardo ai soggetti nei cui confronti la diagnosi non conduca a esiti di selezione: in tal caso, infatti, resta pur sempre all’origine del rapporto io-tu un giudizio volto a stabilire se l’altro abbia caratteristiche che si ritengano adeguate all’instaurarsi di quel rapporto con lui, giudizio il quale incide profondamente sul modo di intendere le stesse relazioni personali fondamentali, rendendole sempre più estranee a logiche di gratuità.

È dunque di grande rilievo il fatto che venga normativamente vietata qualsiasi forma di selezione eugenetica degli embrioni.

Come pure è importante, sebbene ciò non attenga alla tutela di embrioni già esistenti, che siano vietate indagini sui gameti rispondenti a logiche di predeterminazione dei caratteri non motivate da ragioni mediche.

Il terzo punto da considerare concerne gli stessi embrioni che vengono trasferiti in utero, cui dunque è data (a differenza di quelli non trasferiti) la possibilità statistica di annidarsi nella parete uterina e di procedere in tal modo nello sviluppo. Per venire a trovarsi in condizioni non incompatibili con la sopravvivenza gli embrioni in vitro necessitano infatti di una condotta umana, il trasferimento (embryo-transfer), a ciò finalizzata: diversamente da quanto vale rispetto agli embrioni concepiti nel corpo femminile, in altre parole, l’essere generati non li inserisce per ciò solo lungo il percorso che corrisponde al loro finalismo intrinseco. Tuttavia la probabilità del singolo embrione trasferito in utero di annidarsi e di procedere nello sviluppo resta bassa. 

A quest’ultimo proposito si osserva, sovente, che una certa perdita di embrioni consegue pure al concepimento nel corpo femminile: ma la situazione è diversa, perché a seguito di concepimento la perdita costituisce pur sempre un’eventualità accidentale di natura, lato sensu, patologica, mentre la fivet mette in conto ex ante, nell’ambito di una tecnica istituita dall’uomo, la perdita pressoché certa di embrioni trasferiti, tanto è vero che si trasferiscono più embrioni (ora, per la legge italiana e di altri paesi, non più di tre) onde aumentare la possibilità di un annidamento, proprio perché non tutti, di regola, riusciranno ad annidarsi e anzi, facilmente, nessuno vi riuscirà (il che conduce alla reiterazione dei tentativi). È per la medesima ragione che in assenza di regole si è talora esteso anche di molto il numero degli embrioni trasferiti, aumentando con ciò pure la probabilità statistica dell’impianto in utero di più embrioni e giungendo a programmare, in tal caso, un successivo aborto selettivo (la c.d. riduzione fetale, che si pone in clamoroso contrasto con qualsivoglia finalità procreativa) nei confronti degli eventuali feti non desiderati.

Complessivamente si deve constatare come attraverso la fivet l’intento di far sì che una vita si sviluppi fino alla fase adulta risulti perseguito (in misura più o meno estesa a seconda di determinati limiti) generando embrioni che, salvo quello (o raramente quelli) per cui l’annidamento riesca a realizzarsi, sono destinati a soccombere dopo le prime fasi dell’esistenza; destino che risulterebbe, in particolare, deliberatamente voluto rispetto a ciascun embrione escluso dal trasferimento in utero.

 

4. I criteri della generazione umana. – Come già accennavamo, le tecniche di procreazione pongono altresì al diritto l’interrogativo, fondamentale ma forse meno chiaramente percepito, circa i requisiti di una generazione della vita conforme all’essere dell’uomo.

A ben vedere tale interrogativo emerge sovente in modo implicito anche in chi sembrerebbe orientato a eluderlo. Mi si consenta, in proposito, il riferimento a un dibattito televisivo nel quale una persona che si diceva disposta ad accettare qualsivoglia tecnica procreativa dichiarò con forza, a una precisa domanda dell’intervistatore, che non avrebbe però ammesso – nel caso in cui si rendesse praticabile – il ricorso programmato alla gravidanza artificiale (ectogenesi), in quanto impeditivo del particolare legame intercorrente, nella gravidanza, tra la madre e il figlio. 

Tale persona dava in effetti per scontato che quel legame fosse tipico di una generazione umana e altresì essenziale a ciò che definisce l’identità femminile, per cui non ne avrebbe approvato la pianificata esclusione.

Dunque riconosceva che vi sono criteri dai quali dipende la dignità della generazione umana, vale a dire che quest’ultima è un atto relazionale (o personale), e non un mero atto «produttivo», la cui realizzabilità risulti condizionata dal solo fatto che siano disponibili gli elementi a ciò tecnicamente necessari: come accade, invece, con riguardo ai beni materiali e, non senza alcuni limiti, in ambito zootecnico.

Consideriamo in proposito un altro problema estremo, quello della clonazione. Simile tecnica comporta una procreazione che prescinde, addirittura, dall’apporto genetico di due individui o, in altre parole, non genitoriale. Clonando, infatti, è il contenuto stesso dell’atto generativo, non più posto in essere attraverso la fecondazione, che viene modificato: non realizzandosi simile atto attraverso l’unione di due gameti – cioè di due cellule eterosessuali aploidi, derivanti come tali da meiosi – l’embrione che ne ha origine si caratterizza sia per la provenienza del suo genoma (salvo quanto concerne i geni mitocondriali) da un unico essere umano, sia per l’azzeramento della casualità inerente alla formazione dei suoi caratteri genetici, dato che la sua informazione genetica è sovrapponibile a quella dell’individuo di cui costituisce, biologicamente, un clone.

Il problema in gioco, dunque, non è se il soggetto in ipotesi generato per clonazione sia o meno una copia dell’individuo di cui riproduce l’informazione genetica, ovvero se risulti o meno rispetto ad esso un altro individuo: è ovvio che l’identità del genoma di due individui non implica che si abbia a che fare con la stessa persona o che tali individui non possano avere, ciascuno, una specifica vicenda esistenziale. Il problema, piuttosto, è che non corrisponde all’essere dell’uomo il procreare senza l’apporto genetico di due individui di sesso diverso ed escludendo il «rimescolamento» genetico connesso, nei gameti, alla meiosi: realtà da cui derivano gli stessi effetti negativi destinati a incidere sulla vita dell’individuo generato (si pensi alla deliberata privazione dell’unicità genetica e ai connessi riflessi psicologici), come pure il fatto che quest’ultimo venga alla luce secondo caratteristiche genetiche del tutto predefinite e, di conseguenza, del tutto pianificate.      

Questi casi limite rendono palese che non può tacciarsi, banalmente, di biologismo il riflettere sul significato antropologico dei modi in cui la natura ha configurato la generazione umana.

Sarebbe infatti biologismo considerare automaticamente positivo tutto ciò che esiste in natura: anche, per esempio, le malattie. Mentre da sempre, di fronte alla natura, si distingue tra ciò che ne rappresenti le dinamiche da rispettarsi, anche con riguardo all’intervento dell’uomo, e gli aspetti per così dire patologici.

Del resto sarebbe strano che proprio in un’epoca nella quale come non mai si dà rilievo al valore della conoscenza scientifica, che è mera lettura della realtà esistente e delle sue leggi, non istituite da scelte umane (sarebbe ridicolo solo porre l’interrogativo se possa essersi d’accordo, poniamo, col sussistere della legge di gravità), si giunga a ritenere che, invece, sul piano etico o antropologico non vi sia proprio nulla da riconoscere come corrispondente all’essere dell’uomo. Il che non può non valere anche con riguardo al procreare.

In quest’ottica anche la fecondazione in vitro c.d. eterologa appare non conforme a caratteristiche fondamentali della generazione umana: a differenza del concepimento naturale (e a differenza, per questi aspetti, della stessa fivet c.d. omologa), con la fivet eterologa viene meno, infatti, il configurarsi della procreazione quale evento interno alla relazionalità fra due individui di sesso diverso, dipendendo in essa la procreazione dall’apporto genetico di un soggetto terzo che biologicamente è genitore, pur restando estraneo a qualsivoglia relazionalità con l’altro genitore biologico (egli trae gameti dal suo corpo rendendoli utilizzabili senza essere coinvolto in alcuna relazione).

Tale apporto, in altre parole, realizza un’ingerenza in un aspetto tipico della relazione di coppia (auspicabilmente matrimoniale), così che l’atto generativo, nell’ipotesi di cui discutiamo, viene per sé a prescindere dalla suddetta relazione (non a caso la fivet eterologa è tecnicamente utilizzabile anche in assenza di una coppia).

Una situazione, quella della fivet eterologa, che ovviamente non è affatto assimilabile all’adozione, posto che l’adozione non ha alcun rapporto col pregresso atto generativo, bensì offre rimedio a una frattura dei legami familiari naturali (i genitori biologici non hanno affatto agito come donatori rispetto ai futuri genitori adottivi, ma hanno generato nell’ambito di una loro relazionalità).

A ciò ovviamente si aggiungono i problemi già considerati, che sussistono anche nei confronti della fivet omologa, riguardanti gli embrioni coinvolti.

Come resta altresì il fatto di fondo pur non in discussione nel dibattito legislativo, e che ugualmente rimanda ai requisiti di una generazione conforme all’essere dell’uomo, per cui in qualsiasi versione della fecondazione in vitro la modalità generativa non è comunque realizzata dalla coppia, bensì dall’atto di un terzo, nel solco di una sessualità tendente a risultare sempre più vicariata, senza che di ciò si considerino, ordinariamente, le molteplici ripercussioni (ad esempio, sulla stessa dimensione relazionale). 

Infine, ci si deve porre l’interrogativo sul tipo di relazione e di impegni che l’ordinamento giuridico sia tenuto a esigere nel momento in cui offra accesso, e cooperazione istituzionale, a una tecnica procreativa: non si dimentichi che la configurazione, in Italia, di un avanzato diritto di famiglia, fondato sul matrimonio, rappresentò pochi decenni orsono una rilevante conquista civile finalizzata alla tutela delle posizioni più deboli.

 

5. Sulla nitidezza dell’informazione. – Un aspetto importante di qualsiasi normativa sulle tecniche procreative è dato dalla nitidezza dell’informazione: troppo spesso infatti si è avuta l’impressione che il consenso informato della coppia sia stato essenzialmente riferito, in tale contesto, all’esito desiderato della procedura ed eventualmente ai suoi tassi di probabilità, piuttosto che ai modi della procedura medesima e con ciò ai problemi etici che essa, anche nell’ambito di una sua regolamentazione legale, comunque solleva. È fuorviante, in altre parole, focalizzare l’attenzione sulla prospettiva del «bambino in braccio», senza rendere chiari i passaggi procedurali miranti a ottenere quel risultato e le questioni etiche a essi riferibili; come pure, per altro verso, è necessario riflettere sui problemi psicologici e relazionali derivanti dal ricorso alle tecniche suddette, nonché sull’assunzione di responsabilità che l’accesso alle medesime comunque richiede.

Inoltre, non può essere trascurata l’informazione sui dati fino a oggi disponibili circa le condizioni e in genere il follow up dei nati da fivet (si noti come nel settore in oggetto la sperimentazione avvenga direttamente, in pratica, sugli individui generati): oltre che riscontri concernenti il basso peso alla nascita e una maggior incidenza della gemellarità, vi sono studi che indicherebbero per i nati da fivet un aumento non trascurabile del rischio di morbilità, vale a dire dei tassi di ricorrenza di determinate patologie; viene inoltre segnalato un maggior rischio di difetti alla nascita connesso alla fecondazione realizzata mediante iniezione intracitoplasmatica di un singolo spermatozoo nell’ovulo femminile (ICSI, per la quale vi è stata una richiesta di moratoria del garante francese per l’infanzia)[7].

Si tratta di dati rilevanti ai fini della valutazione etica e giuridica, che devono essere accuratamente raccolti, analizzati e messi a disposizione.

Al di fuori della problematica concernente le tecniche procreative, ma sempre con riguardo alla fase iniziale della vita umana, un esempio di mancata nitidezza informativa attiene all’epoca in cui nell’estate dell’anno 2000 venne in considerazione la messa in commercio della c.d. pillola del giorno dopo.

Quest’ultima, infatti, può agire dopo la fecondazione, impedendo l’annidamento dell’embrione, ove la fecondazione stessa sia avvenuta, e, dunque, provocando in tal caso la sua morte. Senza affatto negare tutto questo, della pillola del giorno dopo venne peraltro annunciato il carattere non abortivo, facendo leva sulla disquisizione terminologica relativa alla ricomprensibilità o meno nel vocabolo gravidanza della fase vissuta dall’embrione entro il corpo femminile prima dell’annidamento nella parete uterina, così da escludere – per evitare l’applicabilità delle procedure di cui alla legge n. 194/1978 – che l’azione di tale pillola sia comunque in grado di interessare una gravidanza (essendosi qualificata come tale solo fa fase successiva all’annidamento medesimo, sebbene nell’interpretazione della suddetta legge – per esempio con riguardo al computo del novantesimo giorno – mai la gravidanza sia stata fatta decorrere dall’impianto dell’embrione nell’utero della donna).

Si è trasgredita, così, la prima regola di un atteggiamento liberale, cioè quella riguardante, per l’appunto, la nitidezza dell’informazione (nonostante tutta la letteratura sul consenso informato): posto che la qualifica di non abortività è senza dubbio percepita nel contesto sociale come indicativa di un intervento comunque non idoneo a interrompere lo sviluppo – anche in epoca embrionale e dunque anche in epoca anteriore all’annidamento – di una vita umana (in altre parole, di un intervento solo contraccettivo).

In proposito va ricordato che con una nota approvata il 28 maggio 2004 il Comitato Nazionale per la Bioetica ha riconosciuto la possibilità, per il medico, di rifiutare per ragioni di coscienza la prescrizione o la somministrazione dei prodotti in esame.

Un ambito ulteriore sul quale necessiterebbe maggiore nitidezza informativa attiene agli effetti dei contraccettivi estroprogestinici, sia in genere per la donna, sia in merito ai tassi dell’eventuale possibilità che la fecondazione, nondimeno, si realizzi e, pertanto, alle conseguenze, in quel caso, per l’embrione.

 

6. La legge n. 40/2004 e i referendum abrogativi ammessi nei suoi confronti. – La legge n. 40/2004 fissa alcuni principi importanti con riguardo ai temi che abbiamo preso in esame. Essa rappresenta un punto d’incontro sul quale s’è potuta formare, al momento del voto, una maggioranza trasversale rispetto alle aggregazioni politiche di maggioranza e opposizione. D’altra parte, il testo riprende disegni di legge presentati in precedenti legislature e, dunque, non nati nell’ambito del governo in carica all’atto della sua approvazione. Si tratta di una normativa ampiamente sovrapponibile, in particolare, a quella tedesca.

In questo quadro, va preliminarmente posto in evidenza come l’accoglimento delle proposte abrogative costituenti il contenuto dei quesiti referendari porterebbe a un testo normativo nuovo, implicante scelte fondamentali di segno opposto rispetto a quelle operate dalla legge n. 40/2004: si addiverrebbe a un testo, assai radicale, sancito da referendum il quale, come dimostrano esperienze passate, resterebbe assai probabilmente immodificabile per molti decenni. Il mancato successo dei referendum lascerebbe aperte, invece, possibilità di miglioramento della normativa che non ne contraddicano le opzioni cardine.

 Va inoltre considerato come un’eventuale scelta di astensione nella consultazione referendaria abbia ben precise motivazioni costituzionali: il referendum, infatti, richiede ai fini della sua validità la partecipazione al voto della «maggioranza degli aventi diritto» proprio perché è volto a dimostrare che, eccezionalmente, quanto si è stabilito con una legge secondo il meccanismo democratico parlamentare non corrisponde alla volontà della maggioranza del paese. Ma allora non appare coerente che un testo deliberato dal Parlamento possa essere rovesciato, grazie al peso dei non votanti, da una mera minoranza dell’elettorato la quale risulti maggioranza in sede referendaria, e ciò, in particolare, nel caso in cui sia prevedibile che molti si asterranno non per indifferenza, ma reputandosi non in grado di prendere posizione in una materia particolarmente complessa, manifestando in tal modo – si noti – di volersi rimettere alle valutazioni, pregresse e future, del Parmanento. D’altra parte, non può obiettivamente richiedersi come un dovere a chi non intenda accogliere i quesiti referendari di partecipare al voto accettando che il suo voto negativo (o la scheda bianca o nulla) possa di fatto valere, assai probabilmente, come un voto positivo, in quanto contribuirebbe a consentire il superamento del quorum e l’eventuale vittoria del «sì» anche nel caso in cui i voti adesivi ai quesiti referendari, da soli, non risultassero a ciò sufficienti.

Ciò premesso, appare necessario fare chiarezza circa i nodi di fondo in gioco con i referendum ammessi dalla Corte Costituzionale nel gennaio 2005: nodi nient’affetto riconducibili ad alternative dipendenti da posizioni ideologiche o confessionali, bensì tali da investire aspetti cardine dello stesso concetto moderno di democrazia.

Il «sì» all’insieme dei referendum comporterebbe, fra l’altro, a) la «liberalizzazione» dei motivi per cui può accedersi alla procreazione c.d. assistita; b) la producibilità – senza, altresì, che ne siano precisati i limiti – di embrioni c.d. soprannumerari (destinati al congelamento o all’estinzione), cioè eccedenti rispetto a quelli che si preveda di trasferire in utero non appena possibile; c) la possibilità di fare ricerca, per generici fini diagnostici e terapeutici, sugli embrioni, senza il vincolo che essa sia finalizzata alla tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione coinvolto; d) il venir meno del divieto di produrre embrioni effettuando «clonazione mediante trasferimento di nucleo» (impropriamente detta terapeutica: la differenza tra quest’ultima e la clonazione c.d. riproduttiva, infatti, sta solo nel fatto per cui, nel primo caso, l’iter dello sviluppo embrionale viene interrotto alla fase di blastocisti); e) l’abrogazione del ricorso, nell’art. 1, al termine «concepito», con il che, da un lato, si tende a introdurre l’idea, biologicamente insostenibile, di una fase post-fecondativa dai confini incerti che possa essere distinta dall’esistenza dell’embrione e, dall’altro lato, si mira a negare al concepito stesso (nonostante le pronunce in materia della Corte Costituzionale) la titolarità dei diritti umani.

Tutto questo implica, in sintesi, l’orientamento alla «cosificazione» della prima fase della vita umana, fase nella quale essa finirebbe per essere considerata come mero materiale biologico (oggetto di diritti altrui, e non titolare di diritti propri). Il che va ben oltre le stesse argomentazioni giuridicamente utilizzate con riguardo ai casi di non punibilità legale dell’aborto, le quali non si sono mai fondate (anche se ciò ha scarsamente inciso nella prassi) sul non riconoscimento del concepito come soggetto giuridico (si considerino le stesse sentenze n. 27/1975 e 35/1997 della Corte Costituzionale).

Che il concepito non sia una cosa deriva peraltro, come più sopra s’è precisato, da ben precise considerazioni razionali: la vita di un qualsiasi essere vivente sussiste, infatti, in quanto risulti in atto una sequenza di sviluppo esistenziale continua e autogovernata, cioè tale che per procedere non ha bisogno, purché sia alimentata e si trovi in un ambiente idoneo, di alcun ulteriore impulso dall’esterno. E tale sequenza continua, non lo contesta nessuno, sussiste dalla fecondazione.

Certamente il nuovo individuo porterà a piena espressione le diverse capacità proprie della sua natura (nel nostro caso, umana) a diverse epoche del suo sviluppo. Ma ciò non incide per nulla sul suo essere individuo (umano) in tutto l’arco della sua parabola esistenziale ed è dunque irrilevante ai fini della sua tutela. Rappresenta, infatti, caposaldo del diritto moderno, il cui venir meno minerebbe in radice il concetto stesso di democrazia (v. più ampiamente supra), l’affermazione secondo cui il riconoscimento dei diritti dell’uomo non dipende delle capacità contingentemente espresse in un dato momento da un individuo, o da un giudizio sulle qualità attuali della sua vita, bensì dalla sola circostanza che la sua vita sia in atto (si confronti l’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo): non a caso, già lo ricordavamo, la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia evidenzia che quest’ultimo non è certo meno essere umano – anche prima della nascita – dell’adulto, come il malato (anche terminale) non lo è meno del sano o il disabile non lo è meno del non disabile.

Il secondo nodo cruciale sollevato dai referendum attiene a una delle prospettive più dirompenti per la nostra civiltà, come ha sottolineato fra gli altri il filosofo Jürgen Habermas[8]: quella che concerne la possibilità di un uso essenzialmente selettivo delle conoscenze genetiche acquisibili nella fase precoce di una vita già iniziata. Il venir meno del rapporto fra fecondazione c.d. assistita e infertilità biologica, unitamente all’ammissione della ricerca diagnostica sugli embrioni e alla producibilità di embrioni soprannumerari consentirebbe, per la prima volta, che vite umane vengano generate, come si osservava, sub condicione, in vista, cioè, di un’analisi genetica – tra l’altro estremamente invasiva – orientata alla scelta degli embrioni cui dare la possibilità, mediante il trasferimento in utero, dello sviluppo ulteriore, con esclusione di quelli riscontrati portatori di caratteristiche sfavorevoli (il divieto di selezione a scopo eugenetico degli embrioni previsto all’art. 14, c. 3b, sarebbe a quel punto eludibile attraverso le decisioni della donna sul trasferimento in utero degli embrioni e di esso, comunque, verrebbero probabilmente formulate pur indebite interpretazioni riduttive, intese a vietare solo condotte che siano volte al c.d. miglioramento della razza). 

Il desiderio di avere figli sani è, ovviamente, cosa buona, ma non può giustificare qualsivoglia modalità di risposta, né può essere utilizzato per avallare l’assunto, mai in precedenza accolto dall’ordinamento giuridico (nemmeno dalla legge sull’interruzione della gravidanza), secondo cui il riconoscimento dei diritti fondamentali di un individuo già esistente sarebbe suscettibile di dipendere dal giudizio sulle sue caratteristiche fisiche.

Il terzo nodo rimanda all’esigenza, resa necessaria dalla praticabilità della fecondazione in vitro, di riflettere anche dal punto di vista giuridico sui criteri che debbano ritenersi ineludibili per una generazione umana, quale atto personale-relazionale e non puramente tecnico, cioè consistente nella mera unione di gameti (in futuro, lo si è già evidenziato, potrebbe aversi addirittura una gestione totalmente impersonale della generazione medesima, ove si rendesse praticabile la gravidanza artificiale, vietata, peraltro, dalla legge n. 40). In particolare, il contestato divieto della fecondazione in vitro c.d. eterologa si fonda, come più sopra s’è visto, sul fatto che in essa la procreazione non è un fatto interno alla coppia, ma dipende dall’apporto genetico di un soggetto terzo. Inoltre, nella «eterologa» la coppia che vuole generare viene a trovarsi in una posizione non paritaria: solo uno dei due soggetti, infatti, è genitore anche biologico. Proprio per questo, probabilmente, la percentuale delle fecondazioni eterologhe, anche nei paesi ove è ammessa (in altri, come in Svezia, si è assunto un atteggiamento recente più restrittivo), risulta minima.

Da ultimo si deve rimarcare l’esigenza di un’informazione che non faccia leva su puri aspetti emotivi: va correttamente detto, per esempio, che i risultati ottenuti nelle sperimentazioni terapeutiche concernenti cellule staminali riguardano cellule staminali adulte, e non cellule staminali embrionali: ciò deriva – a parte le considerazioni etiche – da precise ragioni biologiche (le cellule della blastocisti embrionale, infatti, risultano deputate non già alla rigenerazione, durante la vita intera, delle cellule somatiche dell’organismo, bensì alla strutturazione dell’intero organismo) e altresì dalla constatazione di come frequentemente, nei modelli animali, il trasferimento di cellule staminali embrionali determini, nel destinatario, un tumore.

Non appare dunque accettabile prospettare come attuale, o comunque scontata, la possibilità di sperimentazione terapeutica di cellule staminali embrionali, possibilità che invece già sussiste, e viene sempre più sfruttata, con riguardo alle cellule staminali adulte (presenti nel midollo osseo e in tutto l’organismo adulto o prelevate da cordoni ombelicali e si confida, per il prossimo futuro, anche da annessi placentari); né ancor più appare accettabile lasciar intendere alla pubblica opinione che le speranze connesse alla utilizzazione di cellule staminali dipendano dalla disponibilità a distruggere embrioni, posto che al contrario tali speranze sono già realistiche, oggi, solo con riguardo alla utilizzazione, che non pone problemi etici, di cellule staminali non embrionali ma adulte (anche, eventualmente, nella forma della stimolazione di cellule staminali dello stesso paziente interessato). Ricerche su cellule staminali embrionali umane potrebbero del resto essere condotte attraverso tecniche di regressione di cellule non embrionali (circa le cellule staminali embrionali resta inoltre aperto lo spazio della ricerca, finora solo marginalmente percorso, in ambito animale). 

Risulta, infine, opportuno precisare che se la legge n. 40 ha recepito alcune fra le esigenze proposte alla riflessione sociale anche dalla Chiesa cattolica, essa non è una legge «cattolica»: è noto, infatti, che la riflessione etica proposta dalla Chiesa considera non conforme alle caratteristiche proprie della generazione umana qualsiasi modalità che non si configuri come un aiuto alla relazione sessuale, ma la sostituisca (oltre che qualsiasi modalità la quale comporti la deliberata soppressione di embrioni).

Emerge, anche sotto questo profilo, ciò che caratterizza la produzione di norme nell’ambito della società democratica: siamo tutti corresponsabili affinché l’accordo di maggioranza necessario per approvare una legge si collochi al miglior livello possibile, fermo restando il fatto, poi, che la coscienza individuale è chiamata a interrogarsi al di là di quanto sia consentito dalla legge.

S’è dunque cercato di chiarificare, col presente contributo, una serie di nodi etici cardine in tema di tecniche procreative, rilevanti anche ai fini delle scelte giuridiche. I temi considerati, concernenti la procreazione e la fase precoce della vita umana, attengono in maniera del tutto peculiare alle condizioni fondamentali della convivenza civile, posto che con essi vengono in gioco, da un lato, le modalità stesse di riproduzione della compagine sociale (che investono anche il ruolo della famiglia) e, dall’altro, la relazione verso nuovi individui, ovviamente incapaci di autotutela e come tali rientranti fra i destinatari privilegiati della protezione giuridica.


 

[1] Cfr. altresì L. Eusebi, La tutela giuridica dell’embrione umano, in S. Zaninelli (a cura di), Scienza, tecnica e rispetto dell’uomo. Il caso delle cellule staminali, Vita e Pensiero, Milano, 2001, pp. 161-177.

 

[2] Per i riferimenti alla letteratura scientifica cfr. A. Serra, L’uomo-embrione, Cantagalli, Siena, 2003, p. 29 ss.

 

[3] Si noti che una tale ottica finirebbe per precludere un riconoscimento dell’individuo – anche adulto – che perduri al di là del fatto empirico contingente rappresentato dall’esercizio di certe capacità.

[4] Nel medesimo senso si veda già, peraltro, l’art. 25, 2° comma, della stessa Dichiarazione Universale. Si considerino anche l’art. 24, 1° comma, del Patto internazionale sui diritti civili e politici e il quarto alinea della parte introduttiva alla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 20 novembre 1989 (di cui inoltre si valuti l’art. 23, sui diritti del fanciullo fisicamente o mentalmente disabile).

[5] Cfr. i lavori contenuti in S. Zaninelli (a cura di), cit., e, nel medesimo volume, il documento dell’Università Cattolica di Milano su Sviluppo scientifico e rispetto dell’uomo. A proposito dell’utilizzo degli embrioni umani nella ricerca sulle cellule staminali, pp. 213-214. Si veda anche il Parere su ricerche utilizzanti embrioni umani e cellule staminali approvato il 14 aprile 2003 dal Comitato Nazionale per la Bioetica, di cui si riporta il passaggio centrale:

«Considerando:
a) che gli embrioni umani sono vite umane a pieno titolo;

b) che esiste quindi il dovere morale di sempre rispettarli e sempre proteggerli nel loro diritto alla vita, indipendentemente dalle modalità con cui siano stati procreati e indipendentemente dal fatto che alcuni di essi possano essere qualificati - con una espressione discutibile, perché priva di valenza ontologica - soprannumerari;

c) che (secondo il dettato della c.d. Convenzione di Oviedo) la sperimentazione a loro carico è giustificata unicamente se praticata nel loro specifico interesse e non possa essere giustificata dal pur rilevante interesse generale della società e della scienza e che quindi non possa in alcun modo sostanziarsi nella loro distruzione;

d) che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza, riconosce la dignità di tutti gli esseri umani e l’esistenza di diritti fondamentali quali il diritto all’integrità fisica e psichica di ogni individuo nei confronti delle applicazioni della medicina e della biologia;

e) che l’eventuale finanziamento pubblico alla ricerca sugli embrioni non può che rafforzare e avallare ingiustificatamente l’erronea opinione che gli embrioni siano un mero insieme di cellule, prive di valore intrinseco, e quindi conseguentemente l’idea dell’irrilevanza bioetica della vita umana nella fase embrionale;

f) che la limitazione della sperimentazione agli embrioni soprannumerari, oltre a non avere motivazione logica, ma solo occasionale e pragmatica, favorirebbe surrettiziamente la pratica di produzione di embrioni in vitro a soli scopi di ricerca, indipendentemente cioè da specifiche finalità inerenti alla fecondazione assistita e in violazione quindi di consolidati principi bioetici;

g) che il prelievo di cellule staminali umane da embrioni, comportando la distruzione di questi ultimi, deve essere a pari titolo stigmatizzato, anche per l'ulteriore effetto eticamente inaccettabile di non orientare la ricerca verso la sempre più promettente ed eticamente impeccabile utilizzazione di cellule staminali prelevate da cordone ombelicale o da feti spontaneamente abortiti o di cellule staminali «adulte»;

h) che le precedenti considerazioni trovano conferma nelle valutazioni espresse da alcuni membri del CNB, segnatamente nel documento Identità e statuto dell'embrione umano (del 22.6.1996) e nel Parere del CNB sull’impiego terapeutico delle cellule staminali (del 27.10.2000)

… su ciascuno dei … quesiti [relativi alla possibilità della utilizzazione o clonazione di embrioni umani per fini di ricerca o sperimentazione], il CNB, nella seduta plenaria dell’11.04.2003, dopo votazione per appello nominale, ha espresso parere negativo».

 

[6] «Le persone con disabilità discutono della nuova genetica (versione italiana tratta dal sito www.dpieurope.org).

Disabled People’s International (DPI) è un’organizzazione per i Diritti Umani impegnata in difesa dei diritti dei disabili e per la promozione della loro piena e pari partecipazione alla vita sociale. Fondata nel 1981, DPI è rappresentata grazie all’adesione attiva di Organizzazioni nazionali di disabili in più di 130 Paesi, di cui 29 della regione Europea (DPI Europa).

DPI Europa è molto preoccupata per la minaccia ai nostri Diritti Umani determinata dagli sviluppi di ricerca e pratica della genetica umana. Allo stesso tempo la nostra voce combatte per farsi sentire nel dibattito scientifico e bioetico.

Riconoscendo che i progressi nella genetica umana e la definizione di qualità della vita basata su convinzioni mediche suscitano seri problemi etici, non solo per i disabili, e che tali problemi debbano essere considerati nel quadro della “differenza”, essenziale e perenne, della e nell’umanità,

chiediamo che

1. L’uso delle nuove scoperte della genetica umana, della tecnica e della pratica sia rigidamente regolamentato per evitare discriminazioni e proteggere pienamente, ed in ogni circostanza, i Diritti Umani delle persone con disabilità,

2. La consulenza genetica sia «non orientata», basata sui diritti, ampiamente e liberamente disponibile e rifletta la reale esperienza della disabilità,

3. I genitori non subiscano pressioni, formalmente o informalmente, per sottoporsi a test prenatali o ad interruzioni terapeutiche di gravidanza,

4. Tutti i bambini e bambine siano benvenuti al mondo e forniti degli appropriati livelli di sostegno sociale, pratico e finanziario,

5. La diversità/differenza umana sia valorizzata e non eliminata da discriminatorie valutazioni sulla qualità della vita che possono condurre all’eutanasia, all’infanticidio e alla morte per la mancanza di interventi,

6. Le organizzazioni delle persone con disabilità siano incluse in tutti quei comitati consultivi e regolatori che trattano della nuova genetica umana,

7. La legislazione sia emendata per porre fine alla discriminazione fondata sulla disabilità quale eccezionale terreno legale per l’aborto,

8. Vi sia un programma globale di formazione per tutti gli operatori della sanità, fondato su un approccio paritario alla disabilità,

9. Non sia concesso alcun brevetto sul materiale genetico, poiché il genoma umano è patrimonio comune dell’umanità,

10. Non siano violati, con interventi medici, i diritti di quelle persone con disabilità che non sono in grado di esprimere consenso».

[7] Cfr., con riferimenti, C. V. Bellieni, L’alba dell’«io». Dolore, desideri, sogno, memoria del feto, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, p. 30 s.; A. Serra, Deontologia medica e “procreazione medicalmente assistita”, in La Civiltà Cattolica 3695, 2004, II, p. 425 ss.

[8] Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino, 2002.

 

   

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Ultimo aggiornamento: 28-05-05