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Aristodemo Malakòs, difensore dell'Ellade italica contro gli Etruschi

Due civiltà a confronto. I rapporti tra Cumani ed Etruschi furono intensi sul piano commerciale e, attraverso il commercio, anche su quello culturale. Ma politicamente lo stato cumano (il cui territorio andava dalla Penisola Sorrentina al Garigliano) e le città etrusche della dodecapoli campana, che aveva la sua capitale a Capua, crearono un modus vivendi che assicurava all'uno e alle altre una reciproca indipendenza. Si potrebbe dire che, finchè fu possibile, tentarono di ignorarsi reciprocamente sul piano politico. Forse, proprio per non compromettere i rapporti commerciali, che costituivano la base della prosperità di entrambi. Questo equilibrio politico entrò in crisi nella seconda metà del VI secolo a.C., quando la potenza etrusca, divenuta una delle forze egemoni del Mediterraneo centrale dopo la vittoria sui Greci della colonia focea di Alalia, in Corsica, allargò le sue mire espansionistiche al Tirreno meridionale. Verso di questo la spingevano sia la strapotenza delle sue flotte riunite - delle quali il nucleo più importante era costituito certamente da Caere - sia il desiderio di impadronirsi delle fiorenti città greche della costa campana (Cuma, Dicearchia, Partènope) le quali erano prospere non per il solo commercio, ma anche per le terre ubertose che costituivano lo stato cumano.

Cuma fra mare e terra. Cuma, al contrario di Pithecusa, fu, infatti, prospera per la sua ricchezza agricola non meno che per i proventi del commercio con le città etrusche e con gli empori greci situati più a nord (Alalia, Massalia), in Corsica e in Provenza. Sembra che buona parte della piana a sud dell'antico fiume Clanis (oggi, rettificato dai Borboni, è stato trasformato nei Regi Lagni) fosse cumana, a giudicare da un passo di Diodoro Siculo sulla battaglia del 524 fra Cumani da una parte ed Etruschi, con i loro alleati italici Osci, Umbri, Dauni e Sabelli, dall'altra. La conferma più evidente della ricchezza agricola dello stato cumano è data dai passi di Livio, Diongi di Alicarnasso e altri storici greci e latini, che parlano delle forniture di frumento ottenute (o, almeno, richieste) dai Romani a Cuma, in periodi di carestia o di guerra. Livio scrive che, avvicinandosi a Roma l'esercito di Porsenna, Re di Chiusi, allora una delle più potenti lucomonie etrusche, con lo scopo di rimettere sul trono Tarquinio, il Senato romano fu preso da un terrore mai provato prima, tanto grande era la fama della potenza di Porsenna. Uno dei motivi maggiori di preoccupazione era la possibiltà che la plebe, per paura, accettasse la servitù, lasciando entrare Porsenna e Tarquinio. Si cercò, quindi, in tutti i modi, di tenerla tranquilla, anche garantendole le forniture di frumento e, allo scopo, si inviarono ambasciatori presso le città volsce e a Cuma, per ottenere le quantità necessarie di frumento. Dionigi di Alicarnasso racconta che gli schiavi romani, in quel drammatico frangente, disertavano numerosi, passando al campo etrusco. I consoli decisero allora di chiedere aiuto ai Latini, in nome della consanguineità, e di inviare ambasciatori a Cuma, in Campania, e alle città della pianura pontina per ottenere quantitativi di grano adeguati alla particolare necessità. 

L’acropoli di Cuma

L'assedio di Ariccia. Conclusa vittoriosamente la guerra contro Roma e rimesso Tarquinio sul trono, Poresenna risolse di attaccare la città latina di Ariccia. Mandò, quindi, una parte del suo esercito ad assediare quella città, al comando del figlio, il principe Arunte. Ciò avveniva nel 504 a.C., quattro anni dopo la vittoria di Porsenna dinanzi alle mura di Roma. Come racconta Livio, gli Aricini chiesero aiuto alle città vicine e ai Cumani. Evidentemente, Cuma era una città tanto potente da poter intervenire a considerevole distanza dai propri confini, in una guerra che, apparentemente, non la riguardava. Cuma, in realtà. aveva tutto l'interesse a che gli Etruschi, che dopo la battaglia di Alalia erano diventati minacciosi per essa stessa, non rafforzassero il loro predominio sul Lazio, ma, al contrario, vi perdessero terreno, in modo che venisse meno quella contiguità tra Etruria e Campania che costituiva il pericolo maggiore per i Greci. Un altro motivo per l'intervento di Cuma nella guerra pare sia stato la speranza di alcuni cumani appartenenti al partito aristocratico che il corpo di spedizione guidato da Aristodemo, leader dei democratici, venisse battuto dagli Etruschi e che lo stesso generale morisse in battaglia o venisse fatto prigioniero. Aristodemo, comunque, si imbarcò da Cuma con dieci navi, che i suoi avversari scelsero tra le peggiori della flotta cumana, e un corpo di spedizione poco numeroso, ma nel quale aveva avuto cura di inserire un nucleo di soldati scelti e bene addestrati, di cui poteva fidarsi in pieno. Questo accorgimento fu decisivo per l'esito dell'impresa. Attaccata, quindi, la battaglia sotto le mura di Ariccia, al primo scontro, racconta ancora Livio, gli Etruschi misero in fuga gli Aricini.

Superiorità strategica. I Cumani, a loro volta, pure fecero la mossa di volgere in fuga. Quando, però, gli Etruschi si posero al loro inseguimento e, così facendo, si dispersero per la campagna, i Cumani con una conversione improvvisa, quanto strategicamente studiata, li assalirono alle spalle, facendone strage proprio quando gli Etruschi credevano di essere ormai vincitori. Ne risulta chiaro il migliore addestramento dei Greci e si spiega così la supremazia di cui godevano di fronte ai barbari. Tarquinio, dice Dionigi di Alicarnasso, ormai novantenne, abbandonato da tutti e non trovando più ospitalità nè fra gli Etruschi, nè fra i Latini, nè fra i Sabini, si rifugiò a Cuma, dove regnava Aristodemo, che da nemico gli divenne così amico. Non molto tempo dopo, egli morì e lasciò erede universale il suo ospite. Nel 492 a.C. una grave carestia afflisse la città di Roma e furono, ancora una volta, inviati ambasciatori a Cuma, con l'incarico di acquistare frumento e di portarlo rapidamente a Roma via mare. Dopo che l'acquisto era stato perfezionato, Aristodemo confiscò le navi romane cariche di frumento per realizzare una compensazione con i beni di Tarquinio del quale egli era erede, beni che il Senato romano si era rifiutato di concedergli. 

 

La grande battaglia. Il braccio di ferro tra Cumani ed Etruschi era cominciato alcuni decenni prima, nel 524 a.C., e già una volta Aristodemo aveva portato i Greci alla vittoria: lo sterminato esercito etrusco-italico, attaccato su due fronti dalle scarse ma ben addestrate milizie greche, fu sbaragliato e inseguito fino al fiume Garigliano. Secondo la leggenda, prima della battaglia, le acque del Clanio e del Volturno, i due fiumi fra cui gli Etruschi e gli alleati avevano fissato i propri accampamenti, avrebbero invertito il flusso della corrente, scorrendo dal mare in direzione delle sorgenti. Un miracolo che avrebbe sconvolto le truppe degli assalitori, creando le premesse della travolgente vittoria greco-cumana. Il conflitto sarebbe continuato anche dopo la morte del leggendario condottiero: Aristodemo, che, tornato vittorioso a Cuma, fu salutato dal popolo con l'appellativo di Malakòs, cioè "il buono". L'ultimo atto, nello scontro fra Greci ed Etrusci, si ebbe sul mare, nello specchio d'acqua che separa Cuma e dall'isola d'Ischia. Correva l'anno 474 a.C. e per gli Etruschi fu il momento della rotta definitiva. Le flotte riunite di Cuma, Siracusa, Dicearchia e Neapolis riuscirono ad avere la meglio sulla sterminata armata di mare messa insieme dalle città costiere etrusche e da un potentissimo alleato: i Cartaginesi.

Scontro tra le flotte. Etruschi e Cartaginesi tentarono di regolare, con la battaglia di Cuma, i conti di uno scontro di più vaste dimensioni: quello in atto in Sicilia, in Sardegna e in Corsica e che aveva come posta in gioco l'egemonia sul Mediterraneo centrale. In pericolo, pertanto, c'era l'esistenza stessa di quella entità storica, culturale economica e politica che fu indicata con il nome di Megale Hellàs, termine che i romani avrebbero, poi, tradotto con l'espressione Magna Graecia. La battaglia di Cuma, uno dei primi grandi scontri militari sul mare della storia, fu paragonata, pertanto, per importanza, alla battaglia di Salamina. Così come a Salamina i Greci coalizzati riuscirono a respingere l'assalto dei Persiani, salvando la civiltà ellenica nella Grecia continentale e insulare, fra le spiagge cumane e l'isola che allora si chiamava Pithekusai, i Greci delle colonie campane e siciliane, respingendo l'attacco di Etruschi e Cartaginesi, riuscirono a salvare la civiltà ellenica nella Megale Hellàs. A salutare quella memorabile vittoria e a cantare quelle epiche gesta, con un'Ode, fu un "cronista" d'eccezione: il poeta greco Pindaro, che assistette allo scontro stando a bordo di una delle navi siracusane. Di quella battaglia, conservato al Museo Britannico, oltre l'ode pindarica, resta un unico ricordo: un elmo d'oro. Si tratta dell'elmo che Gerone, principe di Siracusa, offrì a Zeus per ringraziarlo del trionfo concesso alle flotte siciliana e cumana scese in campo per difendere la Magna Graecia.

  • Il tema dei rapporti fra greci di Cuma ed Etruschi in Italia, fra l'VIII e il V secolo avanti Cristo, è affrontato dal Programma didattico "Scuola & Territorio" nell'ambito dell'itinerario "Cuma: alle radici della Magna Graecia". Durata 9,30-12,30. 

Informazioni: Feder Mediterraneo, tel. 081-8540000 e 081-5795242, cell. 338-3224540 e 347-4475322, fax 081-8044268, e-mail feder-mediterraneo@libero.it

 


 

Il litorale di Cuma: l'ambiente naturale e quello storico

Cuma e il suo territorio occupano un'area che si sviluppa in direzione nord-sud, secondo l'andamento del litorale domizio. Chiusa a oriente dai versanti di Monteruscello e Monte Grillo, corrispondenti ai fianchi esterni di due apparati vulcanici, I'area si estende a sud fino al lago Fusaro e comprende a nord la zona bonificata dell'antico Lago di Licola. Il territorio cumano si articola in una fascia costiera bassa e sabbiosa, in un tratto di raccordo alle pendici dei rilievi vulcanici, a debole pendenza e intensamente coltivati, e in un'area di versanti non molto acclivi e variamente modellati dall'azione delle acque piovane. Il rilievo del Monte di Cuma (acropoli) e le sue propaggini meridionali interrompono la continuità di tale motivo morfologico, elevandosi bruscamente dalla piana costiera fino alla quota di circa m. 80. Qui affiorano i prodotti vulcanici più antichi, costituiti da lave trachitiche con brecce e scorie associate. Queste rocce formano la struttura <<a cupola>> di un duomo lavico, su cui poggiano tufi grigi sub-litoidi e, limitatamente al settore orientale, tufi gialli litoidi databili a ca. 11000 anni dal presente.

La storia geologica. I versanti del rilievo Monte Grillo-Scalandrone mostrano invece una successione geologica più recente, costituita da piroclastiti incoerenti delle eruzioni dei vicini vulcani di Baia e Averno. Questi prodotti sono intercalati da tre livelli di suoli fossili (paleosuoli) e giacciono stratigraficamente su un substrato di tufo giallo litoide. Il più alto dei paleosuoli, che ha fornito un'età ca. di 3700 anni dal presente, riposa a letto delle pomici dell'Averno. Qui si conservano resti vegetali fossili riferibili a felci (Pteridium aquilinum) e a rovo (Rubus fruticosus): tali essenze vegetali, caratteristiche di terreni degradati da attività agricole, consentono di ipotizzare forme di frequentazione antropica del territorio precedenti l'eruzione di Averno (3700 anni dal presente). I paleosuoli del territorio cumano si sviluppano nell'intervallo temporale tra due diverse eruzioni vulcaniche e rappresentano un periodo in cui hanno luogo processi di alterazione e disfacimento delle rocce piroclastiche, con la conseguente formazione di coperture pedologiche e l'instaurarsi di condizioni idonee all'insediamento di specie vegetali e animali. L'azione erosiva e di trasporto degli agenti atmosferici determina invece l'accumulo, al piede dei versanti, di materiali detritici fini che verso mare si raccordano con i corpi sedimentari sabbiosi dei sistemi dunari costieri. Questi ultimi si formano e si accrescono grazie al tributo dei sedimenti provenienti anche da zone più lontane, trasportati dalle correnti lungo-costa.

Le dune sabbiose. La fascia dunale è costituita essenzialmente da due sistemi di dune paralleli alla costa, di cui il più interno, stabilizzato dalla vegetazione, è quello più antico. Il cordone dunare esterno è invece attualmente soggetto ad erosione marina. Procedendo dalla spiaggia verso l'interno, si osserva una successione di ambienti diversi: una fascia a vegetazione alofila (ammofileto, cakileto) caratterizza le aree prospicienti il mare, mentre poco più all'interno domina la massa bassa con le caratteristiche essenze mediterranee quali il cisto, il mirto, il rosmarino ed il ginepro. Nelle depressioni retrodunari si instaurano localmente ambienti umidi con colonie di molluschi d'acqua dolce e vegetazione igrofila. La duna fossile è invece ricoperta da bosco di leccio. Ancora più internamente, subito a nord del Monte di Cuma, si estende un'ampia zona pianeggiante che fino ai primi decenni del secolo era in parte occupata dal lago di Licola. L'area del lago, in cui si accumulavano sedimenti argillosi e limosi con detriti organici, è stata bonificata a più riprese )fra il 1907 e il 1922) attraverso colmate di materiali prelevati dalle dune e dai versanti e prosciugando il bacino con opere di canalizzazione.

A ridosso delle propaggini meridionali del Monte di Cuma nel seno naturale modellato nella bassa collina tufacea, trovava probabilmente ubicazione l'antico porto della colonia cumana, che risulta, allo stato attuale, completamente interrato dai sedimenti costieri e dai materiali di riporto usati per la bonifica dell'area.

Le vaste zone bonificate comprese tra la fascia dunare e le aree di versante sono attualmente soggette ad intensa coltivazione orticola, mentre i settori di territorio più acclivi sono in gran parte terrazzati e soprattutto utilizzati per le colture di tipo misto (orto- frutteto, vigneto-frutteto-orto). Nelle incisioni dei versanti si conservano piccole porzioni boschive.

L'oasi terra-mare. Questo insieme di territori, sulla destra e la sinistra dell'acropoli di Cuma, che la Regione Campania ha ereditato dall'ex Opera Nazionale Combattenti, sono stati vincolati al progetto di valorizzazione ambientale "Oasi naturalistica terra-mare Litorale di Cuma", elaborato e proposto dalla Feder Mediterraneo, che la giunta regionale ha approvato con la delibera n. 2044 del 5 aprile 1995. L'attuazione del progetto è regolata dalla convenzione sottoscritta il 18 maggio dello stesso anno dall'assessore regionale al demanio e patrimonio, Ermanno Russo, e dal presidente della Feder Mediterraneo, Franco Nocella.

In età storica l'area urbana di Cuma occupava la conca compresa tra il Monte di Cuma, su cui sorgeva l'acropoli, la collina che lo prolunga a sud, e le pendici occidentali di Monte Grillo. Il suburbio settentrionale, che nell'antichità viene utilizzato ininterrottamente come area di necropoli, si estendeva verso l'attuale piana di Licola, zona allora paludosa, la cui depressione centrale era occupata da un lago, drenato e bonificato solo agli inizi di questo secolo. A sud, lo sviluppo extra-urbano interessò la zona rivolta verso il lago Fusaro, concentrandosi essenzialmente lungo le pendici delle colline Sciarrera e Scalandrone. I più antichi insediamenti interessarono il Monte di Cuma, il promontorio che oggi interrompe il profilo piatto e sabbioso della costa, mentre in età antica era a picco sul mare. I fianchi scoscesi, che lo rendono isolato, sono interrotti solo a sud, dove una bassa collina lo collega alle formazioni retrostanti, determinandone l'unico comodo accesso naturale. La sommità di questo promontorio, formato da numerose terrazze, ha un profilo più dolce, con ampi spazi utilizzabili.

 

<<Vestigi dell'Antica città di Cuma>>. Incisione in G.B. Albrizzi, Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo naturale politico e morale... (Venezia, 1741), vol. XXIII. Pozzuoli Azienda di Cura, Soggiorno e Turismo. 

Sin dagli inizi del primo millennio, il promontorio è stato frequentato e certamente tra il IX e l'VIII sec. a.C. (prima età del ferro) fu sede di un abitato indigeno della cosiddetta <<cultura delle tombe a fossa>>, la cui necropoli è stata in parte ritrovata al di sotto della città bassa di età greco-romana. Con la fondazione della colonia greca di Kyme il promontorio assume il ruolo di acropoli, cioè di roccaforte e di luogo sacro per eccellenza della polis. Di tale periodo (ultimo quarto dell'VIII-VII sec. a.C.) rimangono in realtà pochissime attestazioni, soprattutto ceramica, e nessuna traccia monumentale.

Nasce la città. E' tuttavia con la piena età arcaica che l'acropoli assume la sua forma monumentale. Attorno alla fine del VI sec. a.C. sono infatti datate le prime sistemazioni monumentali dei due santuari conosciuti, quello sulla terrazza inferiore (dedicato ad Apollo) e quello sulla terrazza superiore (cosiddetto di Giove).
Oltre ai pochi resti di strutture a tecnica isodoma riferibili a tale periodo, numerose terrecotte architettoniche confermano la costruzione dei templi.

 Questa, con la contemporanea cinta di mura dell'acropoli, probabilmente estesa all'intera città, risale verosimilmente agli ambiziosi progetti politici di Aristodemo. Il principe, nell'ambito delle sue misure filo-popolari, volle anche potenziare il tessuto agricolo della ciità; a questo scopo avviò opere di drenaggio e bonifica nella piana di Licola, a nord dell'area delle necropoli. A tali opere vanno forse riferite le strutture a blocchi squadrati rinvenute ai piedi della collina di Monteruscello nel 1980: si tratta probabilmente dei resti di un canale per il deflusso delle acque. 

Nell'area della città bassa si hanno tracce estremamente esigue di insediamento urbano per il periodo greco (VIII-V sec. a.C.), anche se sappiamo che nei secoli Vl e V a.C., la zona fu inserita all'interno del perimetro delle mura, di cui Cuma proprio allora venne dotata.

Un aspetto delle antiche mura di Cuma

Le mura di difesa. Il perimetro urbano raggiunge già allora la sua massima estensione, corrispondendo a quello conosciuto per le età successive, come è indicato archeologicamente da alcuni tratti di fortificazioni tuttora esistenti o individuati nel corso di precedenti scavi; ciò non significa che tutta l'area in esso compresa fosse urbanizzata, poiché per le città arcaiche l'estensione delle mura era dettata in primo luogo da esigenze strategiche e difensive.

Le mura cingevano, a ovest, l'acropoli e la collina meridionale, e a est, l'area del Monte Grillo. Le difese meridionali seguivano una linea che, unendo le propaggini della collina meridionale e del Monte Grillo, passava per la Croce di Cuma. A nord le fortificazioni separavano la città bassa dalla zona paludosa della piana di Licola, ancora lungo una linea che univa l'acropoli e Monte Grillo. 

Lo sviluppo urbano della città bassa, destinata a divenire il fulcro della vita cittadina, inizia in età sannitica (IV-III sec. a.C.). In questo periodo sono sicuramente edificati il tempio su alto podio che sarà poi il Capitolium (III sec.) e altri edifici, non a carattere sacro, come ad esempio le cosiddette Terme Centrali (fine III- inizi II sec.).

Lo splendore dell'acropoli. Attenzione non minore fu dedicata all'acropoli: a quest'epoca risalgono i basamenti oggi visibili dei due templi e il potenziamento delle difese del Monte di Cuma, reso necessario dai tumultuosi eventi che nel IV sec. si verificarono in Campania. Le possenti strutture sannitiche, che allargano e rinforzano le mura greche, sono attestate un po' ovunque lungo il perimetro dell'acropoli. Esse fanno parte di un progetto complessivo di adeguamento delle fortificazioni alle esigenze difensive presentate dalla difficile convivenza, in Campania, di Sanniti e Romani. Secondo le più recenti interpretazioni, il traforo del cosiddetto antro della Sibilla rientrò in questo programma di opere e rivestì una fondamentale funzione di sorveglianza e protezione della zona del porto.

Il tessuto urbano di Cuma si allargò durante tutto il periodo repubblicano nella città bassa e nelle zone suburbane; l'aspetto con cui la città antica si presenta al visitatore moderno risale ai massicci interventi di fine I sec a.C.-I sec. d.C., quando Cuma ebbe un ruolo determinante nelle tormentate vicende che accompagnarono il trapasso dalla Repubblica all'Impero: qui, nel periodo delle guerre civili, ebbe la sua base Ottaviano, il futuro imperatore Augusto.

Importanti lavori erano stati eseguiti circa cinquant'anni prima, in età sillana (intorno all'80 a.C.): allora furono elevati, nel foro, i portici in tufo grigio, fu costruita l'aula absidata all'estremità del foro stesso (in essa va forse riconosciuto il Comitium, dove si svolgevano le assemblee popolari), e, infine, fu edificato l'anfiteatro. Al 38-36 a.C. risalgono la Grotta di Cocceio e la Crypta Romana: la prima, forando Monte Grillo, metteva in comunicazione il Portus Iulius (il porto militare voluto da Agrippa nel complesso Averno- Lucrino) con la città bassa; la seconda, attraversando in traforo l'acropoli, lo collegava direttamente al porto di Cuma. Le due gallerie costituirono un nuovo asse viario est-ovest, che intersecava la più antica direttrice nord-sud costituita dall'attuale via Vecchia Licola. Essa ricalca la via romana Cumis Capuam che risale certamente all'età repubblicana. Questa strada era anche l'asse principale della viabilità urbana, il decumanus maximus della città, di cui sono stati rinvenuti anche quattro cardines.

Nelle opere a carattere militare di età tardo-repubblicana rientra anche il potenziamento delle fortificazioni del lato occidentale dell'acropoli. In questo periodo, dalla prima metà del I sec. a.C. e per tutto il I sec. d.C., si ebbe anche un notevole sviluppo delle opere pubbliche a destinazione civile.

Sull'acropoli, la bassa terrazza di nord-est riceve ancora in età repubblicana una sistemazione monumentale di cui restano tracce imponenti, mentre i due santuari sono oggetto di radicali ristrutturazioni in età augustea, in particolare il tempio di Apollo, la cui nuova sistemazione mostra una volontà di inserimento scenografico dell'acropoli in rapporto alla città bassa. D'altro canto, il basolato della cosiddetta via Sacra, tra i due templi, sembra rispettare più antichi tracciati.

Arriva la via Domitiana. Alla fine del I sec. d.C., al culmine di questa intensissima attività urbanistica, Cuma riceve ulteriori benefici dall'apertura della via Domitiana (95 d.C.) che, staccandosi dall'Appia all'altezza di Sinuessa, proseguiva verso Puteoli; essa si immetteva nella città bassa passando accanto all'area forense e ne usciva attraverso il taglio operato nel banco tufaceo del Monte Grillo, monumentalizzato dalla costruzione dell'Arco Felice. I primi due secoli dell'Impero segnano la massima estensione del tessuto urbano e suburbano di Cuma: estesi quartieri residenziali occupavano le pendici orientali della collina a sud dell'acropoli e l'area di Monte Grillo, mentre al di là della linea delle mura, nel suburbio meridionale, sorsero numerose ville; le attività produttive si concentravano nell'area del porto e nella fascia costiera settentrionale. Nello stesso periodo, però, la funzione commerciale di Cuma è assorbita da Puteoli, come mostra il progressivo abbandono e insabbiamento del suo porto. In età tardo-imperiale (V-VI sec. d.C.) l'acropoli pare di nuovo assumere un ruolo difensivo centrale, come indica la fortificazione, con uso di numerosi pezzi di riutilizzo, della bassa terrazza a nord-est del monte.

Certamente già da quest'epoca i templi sull'acropoli hanno subito una profonda trasformazione divenendo chiese cristiane. Esse continuano ad esistere nel successivo periodo altomedioevale, a dispetto dei molti e profondi rivolgimenti politici che la città vive, soprattutto a seguito delle guerre greco-gotiche (Vl sec. d.C.). La ricerca archeologica da una parte ha individuato, sull'acropoli, numerosi resti di abitazioni altomedievali; dall'altra ha identificato, nei pressi dell'anfiteatro, un'importante produzione di ceramica <<a bande larghe>> dei secc. V-VII; tutto ciò sembra indicare la presenza di un abitato medioevale sull'acropoli, addensato sui terrazzi del lato orientale compresi tra le due chiese maggiori, le quali dovevano quindi svolgere anche funzioni parrocchiali.

Al 'ritorno' dell'insediamento urbano sull'acropoli corrispondono il progressivo abbandono e la ruralizzazione della città bassa, di cui è eloquente testimonianza la trasformazione delle terme del foro, già ridotte a un rudere, in casa colonica.
Agli inizi del X secolo (915 d.C.) la città è devastata dai Saraceni e da questo periodo l'acropoli vive un'esistenza stentata come <<covo di pirati>>, sino alla definitiva distruzione operata dall'armata napoletana di Goffredo di Montefuscolo nel 1207. Alle distruzioni belliche si aggiunse l'impaludamento che rese malsano e impraticabile il territorio, accrescendone però il fascino agli occhi degli umanisti.

L'abbandono di Cuma si interrompe solo a partire dal XVII secolo, quando cominciano a insediarsi nell'area diverse masserie che spesso riutilizzano i ruderi antichi; le più recenti bonifiche hanno restituito il territorio all'attività umana, plasmando il paesaggio come oggi lo conosciamo.

I porti di Cuma, Cuma ebbe diversi porti nel corso della sua lunga e ricca storia: le navi cumane furono poste ariparo nei laghi di Miseno, del Fusaro e di Licola (prosciugato fra il 1907 e il 1922), variamente collegati con il mare. Quando Dicerarchia, l'attuale Pozzuoli, fu fondata dagli esuli di Samos (529-530 a.C.) in accordo con lo stato cumano, il porto di Dicerchia fu considerato, a tutti gli effetti, come il porto commerciale di Cuma o Emporion Cumaion, come di diceva allora in greco, Tuttavia, lo scalo più centrale e probabilmente più importante, in periodo greco e romano, fu quello sito nelle immediate vicinanze dell'acropoli, ma la sua precisa collocazione e configurazione sono a tutt'oggi sconosciute.

Tenendo conto che anticamente il promontorio di Cuma si protendeva profondamente in mare (dove oggi invece c'è la spiaggia), si è pensato che il porto greco fosse nella piccola insenatura a sud del promontorio Questa tesi potrebbe essere suffragata dal fatto che nelle vicinanze sono state rinvenute notevoli concentrazioni di ceramica greca. Inoltre, tra le dune sabbiose sono stati rinvenuti imponenti resti di quello che potrebbe essere considerato come il basamento del faro che indicava la posizione del porto ai naviganti di notte. Una ulteriore conferma, poi, verrebbe dar rinvenimento (avvenuto accidentalmente nel 1992, durante lavori di sistemazione di un metanodotto della SNAM) dei resti di un tempio dedicato alla dea egizia Iside, protettrice del mare, dei marinai e delle attività marinare, proprio in prossimità dell'antica linea di costa e, probabilmente, della stessa banchina portuale.

Dionisio di Alicarnasso (VII, 7, 1), ricordando il ritorno di Aristodemo dopo la vittoria di Aricia sugli Etruschi del 504 a.C., dice che <<entrò con le navi nei porti di Cuma>>. Questa espressione conferma l'ipotesi secondo cui Cuma disponeva di più di un porto.

E' certo che con la conquista sannita del 421 a.C. comincia un lento ma continuo declino delle attività marinare di Cuma. Agrippa, contemporaneamente al Portus Iulius (37 a.C.), dovette probabilmente creare ex novo il porto di Cuma installandolo nella rientranza lunga circa m. 500 a S-SO dell'acropoli. Per evitarne l'insabbiamento lo collegò al vicino lago Fusaro mediante un canale, alla fine del quale venne installata una chiusa mobile azionata per il periodico dissabbiamento.

Ipotesi moderne individuano come componenti del porto di Agrippa un bacino, moli in opera cementizia e, nelle vicinanze dello sbocco della Crypta romana, le banchine ed un bacino di carenaggio. Purtroppo tutta l'area è oggi soggetta ad un forte sfruttamento agricolo, cosicché di queste strutture quasi nulla è ormai visibile. Tuttavia, parzialmente nascosto da un fitto bosco, al confine con l'area dunale, spicca un affioramento di tufo alto circa m. 8, sul quale furono ricavati in età romana due ambienti rettangolari in opera reticolata. Sul lato orientale del banco tufaceo si nota inoltre un lungo muro in reticolato e due speroni perpendicolari in opera vittata. La struttura, databile all'ultimo quarto del I sec. a. C., potrebbe rappresentare un piccolo faro di segnalazione posto presso il canale d'entrata al porto.

Con la fine delle guerre civili, la concorrenza dei vicini grandi porti di Puteoli e Misenum e, soprattutto, il progressivo insabbiamento portarono abbastanza rapidamente al definitivo abbandono del porto di Cuma.

  • Il tema dell'ambiente naturale e storico del litorale di Cuma è affrontato dal Programma didattico "Scuola & Territorio" nell'ambito dell'itinerario "Cuma: alle radici della Magna Graecia". Durata 9,30-12,30. 

Informazioni: Feder Mediterraneo, tel. 081-8540000 e 081-5795242, cell. 338-3224540 e 347-4475322, fax 081-8044268, e-mail feder-mediterraneo@libero.it


Il dromos di Cuma: alla scoperta dei misteri della Sibilla...

Un culto mediterraneo  E' noto che, nel mondo antico, molte divinità disponevano, ai margini della loro organizzazione sacerdotale, di indovini, pitonesse o profeti, che, in nome del dio, emettevano oracoli o predizioni. La Pizia delfica è il caso più noto. Diffusa, tuttavia, era la credenza (sopratutto in presenza di sedi oracolari particolarmente antiche e rinomate) che, prima di questi personaggi, fossero esistite speciali interpreti della parola divina, esclusivamente di sesso femminile, non soggette al passare del tempo, isolate dal mondo e poco inclini a mostrarsi ai questuanti: erano le cosidette Sibille. Se ne indicava l'antica dimora in luoghi remoti, sparsi tra l'Asia Minore, l'Africa e le coste occidentali del Mediterraneo. Varrone ne elencò dieci: la persiana, la eritrea (da Eritre, in Lidia), l'ellespontia, la frigia, la cimmeria, la libica, la delfica, la samia, la cumana e la tiburtina. Fu anche pensato che, in realtà, si trattasse di un'unica Sibilla, immortale, che si spostava in luoghi diversi. La Sibilla Cumana, tuttavia, è una delle figure semimitiche più complesse e affascinanti che emergono dalla letteratura latina, anche se la sua prima mensione risale a un autore greco del III secolo avanti Cristo, Licofrone. Essa appare già, indirettamente, nel IV secolo avanti Cristo, quando, secondo una consolidata tradizione, sarebbe stato proprio dalle sue mani che il re di Roma Tarquinio Prisco avrebbe acquistato una cospicua raccolta di oracoli, redatti in esametri greci su foglie di palma, in seguito definiti Libri Sibillini. Quale che ne sia stata l'origine, è certo che questi libri costituirono uno dei principali fondamenti della religione romana arcaica, tanto da essere consultati solo in caso di estrema necessità e di fronte a signa e prodigia che potevano lasciar intendere una precisa volontà degli dei. Significativamente, alla consultazione di questi oracoli potevano accedere solamente i membri di un particolare ordine sacerdotale, originariamente di due, poi di dieci e, infine, di quindici componenti: i cosidetti quindecenviri. Costoro, infatti, oltre che ai Libri Sibillini, erano istituzionalmente legati ai culti di origine greca (in particolare, quello di Apollo) e, successivamente, al controllo di quelli orientali. I libri, dapprima custoditi nel tempio di Giove Capitolino, bruciarono nell'incendio del Campidoglio avvenuto nell'83 avanti Cristo. Tuttavia, furono, poi, ricomposti in seguito alla raccolta di tutti gli oracoli custoditi in Grecia e in Asia Minore e, quindi, collocati da Augusto nel tempio di Apollo sul Palatino, accanto alla dimora imperiale. Qui rimasero fino al IV secolo dopo Cristo, quando furono distrutti dal generale Stilicone. La leggenda che indica la Sibilla Cumana quale autrice dei Libri Sibillini trova riscontro nel fatto che l'area di Cuma fu sede di oracoli sin da epoche remote. E', forse, più sulla scorta di questa tradizione locale che sulla presunta origine cumana dei Libri che Virgilio, nel libro VI dell'Eneide, descrisse la figura tremenda della Sibilla, maestosa sacerdotessa di Apollo e di Ecate Trivia, custode dei libri divini e delle porte dell'Ade. A Enea che sbarca sulle coste cumane e risale fino al suo antro, essa mostra il futuro, ma anche le gli abissi del Tartaro. Nei poeti posteriori a Virgilio la solitaria, antica grandezza della Sibilla cede il posto a elementi superstiziosi e, talvolta, popolareschi. Properzio, Ovidio e Lucano tracciano la figura della longaeva Sibylla con mille anni di vita, mentre il Satyricon dell'iiridente Petronio descriverà una Sibilla decrepita che, concorde con la testimonianza di Servio, Apollo avrebbe reso immortale, ma non eternamente giovane: essa, ridotta a un minuscolo essere chiuso in una bottiglia, invoca (in greco) la morte. Al tempo di Stazio, la consultazione dell'oracolo cumano risulta del tutto abbandonata e della sua immagine non resta altro che un simbolo astratto di Cuma. Se, con il tramonto degli oracoli, i pagani dimenticarono la loro Sibilla, già dal II secolo avanti Cristo, essa, tuttavia, era stata assorbita dalla tradizione ebraica, che, oltre a crearne una propria, recuperò l'uso degli oracoli e le diede voce tramite testi definiti Oracoli Sibillini, in cui era annunciata la fine di Roma e del corrotto potere imperiale. Grazie a questa mediazione, i cristiani recuperarono dall'oblio la Sibilla Cumana, diffondendo a suo nome oscure visioni sul tempo a venire che, confluendo negli Oracoli Sibillini ebraici, diedero vita agli Oracoli Sibillini cristiani. In questo clima, autori cristiani come Lattanzio, Eusebio da Cesarea e Costantino scoprono che la IV egloga  delle Bucolicae virgiliane, in cui la Sibilla annuncia l'inizio di una nuova era (quella augustea) e la nascita prodigiosa di un fanciullo divino (Ottaviano), poteva, in realtà, essere letta anche come l'avvento del cristianesimo. La voce dell'antico oracolo di Cuma entrò, così, a far parte della schiera dei profeti che preannunciarono l'era cristiana e la fine dei tempi, come, alla fine del XIII secolo, ricorderà Tommaso da Celano nei primi versi di un componimento poetico: Dier Irae, dies illa, teste cum Davide et Sibylla.

Il tempio di Apollo, a Cuma

L'antro dell'oracolo  Se i più antichi riferimenti alla presenza di un antro della Sibilla a Cuma si trovano in un testo pseudo-aristotelico del VI-III secolo a.C. e in Licofrone (III secolo a.C.), l'evocazione più famosa è, senza dubbio, quella fatta da Virgilio nel VI libro dell'Eneide, che, tuttavia vuole creare un'immagine suggestiva più che rappresentare una situazione topografica reale. Sono soltanto lo pseudo Giustino, Procopio e Aghatias, autori del IV secolo d.C., a dare, nei secoli successivi, una descrizione compiuta dell'antro. Ma, la loro descrizione, piuttosto tarda e influenzata dalle fantasiose tradizioni locali, non può ritenersi pienamente attendibile. Le loro indicazioni, infatti, sembrano riferirsi, piuttosto, alla cosidetta Crypta romana, caduta probabilmente in disuso in quel periodo e la cui grandiosità poteva facilmente far pensare a un ambiente a destinazione sacrale. Maggiore attenzione, invece, meritano altre due fonti che sembrano escludere l'esistenza di una particolare sede oracolare della Sibilla, almeno in età tarda. Pausania (II secolo d.C.), infatti, sostiene che i cumani non avevano da mostrare alcun oracolo della Sibilla, ma soltanto un'urna con le ceneri della profetessa custodita nel tempio di Apollo. A questa interpretazione pare dare una conferma indiretta una notizia contenuta nella Vita (IV secolo d:C.) dell'imperatore Clodio Albino (196-197 d.C.), secondo cui questi si sarebbe recato a interrogare l'oracolo nel tempio di Apollo cumano. L'interesse per la figura della Sibilla sopravvisse, comunque, alla scomparsa del mondo antico, così che anche nel Medio Evo si cercò di individuare, sulla scorta della poesia virgiliana, spesso letta attraverso il commento di Servio, la sede dell'oracolo sibillino. Il rilievo dato all'episodio della discesa di Enea negli Inferi, avvenuta sotto la guida della profetessa, indusse, però, a cercare l'antro sulle sponde del lago d'Averno, localizzandolo negli ambienti ancora oggi indicati con il nome di Grotta della Sibilla. Tale identificazione restò canonica per tutto il Rinascimento, ripetuta, tra gli altri da Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, dagli antiquarii locali e dai viaggiatori stranieri. Soltanto alcuni studiosi, come l'Alberti e il Capaccio, respinsero la localizzazione dell'antro all'Averno, sulla base di una letture più attenta del testo virgiliano, riconoscendo nella cosidetta Grotta della Sibilla un antico camminamento tra il lago d'Averno e il lago Lucrino. Nonostante i crescenti dubbi degli eruditi, la visita all'antro dell'Averno rimase, fin quasi al XIX secolo, una delle tappe più suggestive del Grand Tour, mentre le rovine dell'acropoli di Cuma, ormai da tempo interrate, giacevano in un secolare abbandono. Fu soltanto a partire dalla prima metà dell'Ottocento che l'interesse degli archeologi si portò su Cuma. Ad aprire la strada fu Leopoldo di Borbone, conte di Siracusa, fratello del Re delle Due Sicilie Ferdnando II. Se le prime campagne di scavo ebbero come oggetto di studio solo la zona della necropoli, nel 1910 iniziò la ricerca sul colle di Cuma, con lo scopo dichiarato di riportare alla luce l'antro, che ormai si riteneva dovesse trovarsi nei pressi dell'antica città. I primi tentativi non ebbero successo e l'impresa fu ritentata nel 1925 da Amedeo Maiuri, il quale credette di riconoscere lo speco oracolare in una galleria, da lui scoperta, che attraversava il monte di Cuma: la cosidetta Crypta romana.  Rivelatasi erronea tale interpretazione, fra il 1926 e il 1930, Maiuri riprese la ricerca. Ulteriori indagini portarono, nel maggio 1932, alla scoperta di un ambiente a pianta quadrangolare, scavato nel tufo e in parte interrato, sulla cui parete era visibile una apertura a sezione trapezoidale. Questo ambiente, utilizzato come cellaio, si sviluppava in direzione della galleria esplorata nelle precedenti campagne di scavo. Dopo un mese, l'antro, liberato da tutti i detriti di vecchie cave di tufo, apparve molto simile a un dromos, rispondente alla descrizione dello pseudo Giustino. Il Maiuri poteva fiduciosamente affermare: "Il lungo corridoio trapezoidale, alto e solenne come la navata di un tempio, e la grotta a volte e a nicchioni, formavano un unico insieme. Era la grotta della Sibilla, l'antro del vaticinio quale ci appariva dalla poetica visione di Virgilio e dalla prosaica e non meno commossa descrizione dell'anonimo scrittore cristiano del IV secolo". In realtà, tale ipotesi è stata successivamente messa in dubbio e si è giunti alla conclusione che la galleria, databile IV-V secolo a.C., abbia avuto una funzione di fortificazione militare. L'antro andrebbe, allora, cercato vicino al tempio di Apollo, nei pressi del peribolo, lì dove è situato un ambiente quasi completamente sotterraneo, conosciuto come la "cisterna greca".

Una raffigurazione della Sibilla

Il dromos del mistero. Il crollo dell'ingresso originario di quello che è, tutt'oggi, convenzionalmente indicato come l'antro della Sibilla, di cui restano solo gli stipiti, e della prima parte della galleria permette di osservare immedietamente, come in sezione, la forma trapezoidale dell'antro, scandita dalla luce filtrata da sei aperture sul lato occidentale. Il taglio trapezoidale risale, forse, alla seconda metà del IV secolo a.C., mentre a una fase successiva è, invece, da attribuire l'abbassamento del piano pavimentale con un taglio più stretto del precedente e di andamento verticale, che portò l'altezza della galleria agli attuali 5 metri. A sostegno della nuova ipotesi, quella secondo cui il dromos costituirebbe parte di una struttura militare difensiva,  sono indicati la posizione della galleria, posta sotto la sella che unisce l'acropoli con la collina meridionale; l'analogia con altre strutture difensive presenti nella Magna Graecia e della stessa Grecia, come nel caso delle fortificazioni di Micene e Tirinto; il confronto, infine, con le testimonianze antiche che riguardano la costruzione di fortificazioni. Si tratterebbe, dunque, di una difesa avanzata, parallela alla linea delle sovrastanti fortificazioni e a quella della costa. Percorso il primo tratto privo di copertura, si entra in un lungo corridoio (l131,2 metri) scavato nel tufo con andamento perfettamente rettilineo. Anticamente, esso riceveva aria e luce da alcuni pozzi, in parte ancora visibili. Nella parete occidentale (a destra), si aprono, a intervalli quasi regolari, nove bracci: di questi, sei sono comunicanti con l'esterno e tre sono chiusi.. Verso la metà del percorso, si trova un braccio articolato in tre ambienti rettangolari disposti a croce e utilizzati in età romana come cisterne. Esse erano rifornite da un canale di alimentazione, le cui tracce sono ancora visibili lungo la parete sinistra della galleria. Sul fondo delle cisterne, alcune casse in muratura e fosse sepolcrali  indicano che questa parte della galleria svolse, in epoca cristiana, funzione di catacomba. Alla stessa epoca risale un arcosolio, visibile poco più avanti lungo il corridoio.  Si giunge, infine, in una sala rettangolare. Di qui, un vestibolo a sinistra, anticamente chiuso da un cancello (come dimostrano i fori degli stipiti sui banchi esterne), introduce in un piccolo ambiente, che è suddiviso ulteriormente in tre celle minori disposte a croce. Questa stanza è stata interpretata come l'oikos edotatos in cui la Sibilla, assisa su un trono, avrebbe pronunciato i suoi vaticini. La copertura a volta ha fatto, però, ipotizzare per la sala una datazione alla tarda età imperiale. 

  • Il tema del culto mediterraneo della Sibilla Cumana è affrontato dal Programma didattico "Scuola & Territorio" nell'ambito dell'itinerario "Cuma: alle radici della Magna Graecia". Durata 9,30-12,30. 

Informazioni: Feder Mediterraneo, tel. 081-8540000 e 081-5795242, cell. 338-3224540 e 347-4475322, fax 081-8044268, e-mail feder-mediterraneo@libero.it


Viaggio in Italia: i Campi Flegrei visti da Goethe

di Marcello Gigante

Nella storia della fortuna dei Campi Flegrei nella cultura europea del Settecento l'incontro di Wolfgang Goethe con i Campi Elisi del nostro Mezzogiorno ha un posto di rilievo. L’approccio alla realtà flegrea è molto singolare. Nel celebre Viaggio in Italia il Goethe ci dà una visione rapida della terra intorno a Puteoli: il 1° marzo 1787 il poeta eseguì un disegno della Solfatara molto apprezzato dagli esperti e nel Viaggio, alla stessa data, parla di una gita col principe Waldeck a Pozzuoli e dintorni. Fu una gita frettolosa "sotto il cielo più puro, il terreno più infido". Al poeta si presentò il paesaggio degli Astroni alla Solfatara non privo di effetto e suscitatore di pensieri sulle "vicende della natura e della storia". Il senso delle rovine che possiamo percepire in tanta letteratura del Settecento, in questa pagina goethiana non è affatto arcadico, ma improntato a una profonda malinconia prorompente dal grembo stesso della madre terra. Nella visione di E. Zaniboni (1948) leggiamo: "Rovine dì un'opulenza appena credibile, tristi, maledette. Acque bollenti, zolfo, grotte esalanti vapori, montagne di storia ribelli a ogni vegetazione, lande deserte e malinconiche, ma alla fine una vegetazione lussureggiante, che si insinua da per tutto dove appena è possibile, che si solleva sopra tutte le cose morte in riva ai luoghi e ai ruscelli e arriva a conquistare la più superba selva di querce sulle pareti d'un cratere spento".

Che la visita dei Campi Flegrei, "la regione da cui sono sorte tutte le antiche poetiche intorno al Paradiso e all'Inferno" secondo la definizione di Herder, si fosse limitata ai fenomeni della Solfatara e alla cupa vegetazione degli Astroni rimarrebbe un fatto enorme, se non sapessimo che il poeta aveva letto la relazione sull'Averno e sul Lucrino, su Miseno e Baia del padre Johann Caspar Goethe. Ma soprattutto il silenzio su Cuma, fonte primigenia della religione della morte e dell'aldilà creata da Virgilio, rimarrebbe un mistero se il poeta in una poesia scritta quindici anni prima con l'immaginazione dominata da disegni, incisioni e quadri già ammirati nella Galleria d'Arte di Mannheim non avesse evocato attraverso il semplice nome della città il patrimonio spirituale dei Campi Flegrei. La poesia è Il viandante, Der Wanderer, in cui due parole, Nach Cuma, lasciano balenare il mondo della poesia accordato con la natura, dove la condizione dell'uomo si rivela ansiosa di un rifugio sicuro all'ombra del passato immobile e tranquillo, costituito da sepolcri, anzi da avanzi di sepolcri. Una visione winckelimanniana della nobile forma armoniosa ed eterna, insidiata tuttavia dal tempo e dai bisogni dell'uomo.

Il viandante goethiano che rimase impresso nella mente del Wilamowitz, come ricorda il grande filologo nelle sue Memorie, volge il suo cammino verso Cuma apparentemente vicina, tre miglia da una capanna costruita dall'uomo fra le eccelse rovine del passato. Ma nella realtà poetica Cuma sfugge, è difficile ad essere raggiunta perché le certezze di cui ogni viandante ha bisogno sono un traguardo faticoso e, nello stesso tempo, salvifico. Raggiungere la vetta di Cuma è un ritrovare la natura e, insieme, un ritorno misterioso a se stesso. Cuma è il culmine del pellegrinaggio nei Campi Flegrei, fitti di rocce e sentieri: un simbolo della religiosità dell'uomo, del dialogo con la divinità, dell'unione della morte e dell'oltretomba; una sintesi del passato e del presente, della storia e della natura. Il genius loci sopravvive al monumento che gli era stato innalzato e ora è precipitato al suolo. Sassi, erba, cardi cospargono i ruderi solenni e solitari del passato quasi incalzato dal presente che ha costruito un tugurio con tegole e pietre tratte da antiche muraglie. La natura crea per la gioia di vivere e non disdegna di rendere felici le creature umane, la rondine, il bruco, ponendo a loro servizio le creazioni dell'arte.

Sul Viandante si è molto scritto e i germanisti l'hanno ritenuto una tappa dell'itinerario poetico di Goethe. Ladislao Mittner scrisse che l'idillio "contiene in germe tutta la interiore poesia classica di Goethe ed in parte la supera". Il criterio non menziona Virgilio che, a mio parere, è la fonte primigenia dell'ispirazione goethiana. A me pare che la poesia delle Bucoliche è sottesa al Viandante e prepara all'Eneide simboleggiata dal nome di Cuma. Il Mittner ha intuito che dinanzi al viandante del Nord "risorge d'improvviso l'antichità classica animata ancora dal proprio Genio, che è il genio della natura stessa, la quale perennemente rinasce dalle proprie rovine".

Come credo, il mistero che pervade la poesia di Goethe proviene dal Colle di Cuma cui si dirige il viandante: il mistero della vita e della morte, dello spirito immortale che regge la natura e la storia la cui epifania Virgilio affidò alla Sibilla. Il Mittner, se ha ragione ad avere individuato nell'idillio goethiano il manifesto di un "nuovo classicismo", non credo possa aver avuto ragione a percepire nei versi un sia pur lieve umorismo. Credo che il nuovo classicismo di Goethe sia la conquista della continuità del presente nel passato, ma anche un continuo mistero da svelare: un mistero sottile, ma non impalpabile, che possiamo additare nel sintagma Nach Cuma. Anche il giovane Goethe dà forma al suo classicismo in modo personale: attraverso i sepolcri, i ruderi, le macerie, le colonne infrante e le iscrizioni egli intuisce la forza del passato, la storia antica, l'eterno spirito. La rivelazione della grandezza del passato viene sentita dal poeta attraverso l'Acropoli di Cuma. Al passato che permane nel presente si congiunge il futuro, su cui si stende l'incerto destino dell'uomo.

Nella visione del passaggio come interiorità spirituale noi vediamo l'eredità virgiliana come nel viandante vediamo non Ulisse, come parve al Mittner, ma piuttosto Enea, anche se Ulisse non è estraneo alla storia poetica dei Campi Flegrei. Goethe pensava al profugo il cui destino era di approdare ai lidi di Lavinio dopo il lungo penoso viaggio. Come ha mostrato Stärk in un libro sulla Campania (1995) e in una Memoria dell'Accademia di Lipsia sull'Antro della Sibilla Cumana e i Campi Elisi (1998), solo attraverso la poesia virgiliana possiamo percepire la spiritualità del paesaggio flegreo.

Per questo, ogni volta che ascendiamo al Tempio di Apollo, sulla collina di Cuma, siamo in compagnia dì Virgilio e di quanti dalla poesia di Virgilio, come il grandissimo Goethe, seppero attingere il valore spirituale della terra flegrea.

  

 


 

 

 

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Aggiornato il: 04 febbraio 2003