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Chi è Bernardo Provenzano

da www.tgcom.mediaset.it dell'11 aprile 2006

Il boss era latitante dal 1963

E' finita la latitanza del boss dei boss Bernardo Provenzano. Era ricercato dal 1963 dopo l'omicidio di Francesco Paolo Streva, esponente di un clan avversario. Da quel momento carabinieri e polizia gli hanno dato la caccia senza tregua. E' considerato il capo incontrastato di Cosa Nostra. Di lui circolava solo una foto segnaletica scattata il 18 settembre 1959. Provenzano è nato il 31 gennaio del 1933.

Numerosissime le volte in cui stampa e tv hanno mostrato l'unica foto del boss, che risale all'epoca della sua giovinezza e invecchiata al computer. Quell'immagine risale al 1959, data dell'ultimo arresto. Sembrava che la storia di questo misterioso personaggio fosse ormai destinata a diventare mitologia e invece, forse, il boss ha sempre vissuto a Corleone, tra i suoi compaesani in tutta tranquillità.

Nonostante la seconda elementare, Provenzano è un boss di rango, uno di quelli che si fa acoltare che dispensa ordini e saggezze fin dalla giovane età. E' diverso dall'amico Totò Riina perché prima di entrare in azione tenta la mediazione, cerca di misurare la violenza. Ma è altrettanto spietato quando si deve sparare per eliminare un nemico. Fa parte del gruppo di fuoco composto da Giuseppe Ruffino, Calogero Bagarella e Giovanni Provenzano che in un giorno di maggio del 1963 si dà appuntamento per eliminare Francesco Paolo Streva, esponente di spicco del clan Navarra, rivale della famiglia dei corleonesi di Luciano Liggio, di cui Provenzano faceva parte.

Prima di quel fatto di sangue che dà inizio alla lunghissima latitanza, Provenzano era già noto alle forze dell'ordine per alcune vicende criminose. "Elemento scaltro, coraggioso e vendicativo - scriveva di lui la polizia, che lo aveva proposto per il soggiorno obbligato - si sposta con due pistole alla cintola".

Dal 17 settembre 1958, giorno in cui fu arrestato per l'ultima volta, non esistevano altre sue foto, ma solo descrizioni fornite dagli uomini d'onore poi diventati collaboratori di giustizia. Proprio nei mesi scorsi era stato presentato il nuovo identikit del boss mafioso, realizzato grazie all'aiuto di nuovi pentiti come Antonino Giuffré, il suo ex braccio destro, finito in carcere tre anni fa, che ha parlato a lungo di Provenzano ai magistrati.

E' stato Giuffré a descriverlo come un uomo "firrignu", cioé forte, "capace di dormire per piu' notti nel sacco a pelo". Non solo. Era stato proprio il nuovo pentito di mafia a chiarire ai magistrati la strategia numero uno del boss: "Non usa telefoni perché sa che ogni segnale potrebbe svelare il suo nascondiglio". E infatti Provenzano comunicava

Quarant'anni in fuga

Nel dossier di Palazzolo e Oliva i motivi per cui Provenzano non viene arrestato.

E un’intercettazione: «Lo sanno che c’è la rivoluzione industriale appena lo prendono»

 

di Monica Centofante

 

Più di una volta si è giunti a un passo dalla sua cattura. L’ultima, in ordine di data, il 30 gennaio del 2001, giorno dell’arresto del capomandamento di Belmonte Mezzagno Benedetto Spera. E di Nicolò La Barbera, proprietario della masseria dove lo Spera si rifugiava.

In quell’occasione il comandante del Ros, generale Sabato Palazzo, inviò una lettera alle procure di Palermo e Caltanissetta, all’attenzione dei rispettivi capi Grasso e Tinebra. Denunciò che l’operazione della Squadra Mobile di Palermo che portò alla cattura del boss aveva bruciato la pista che stava conducendo i Carabinieri dritti a lui. Al grande capo Bernardo Provenzano.

Che il Ros stava cercando proprio seguendo il La Barbera, usuraio e, secondo precedenti indagini “gestore del rustico che ospitava i convegni mafiosi”.

Le reazioni di Grasso e Tinebra furono immediate. Il coordinamento c’è stato, risposero agli attacchi, “la pista era sorta autonomamente da indagini svolte dalla polizia e di questa attività il Ros era da tempo correttamente informato”.

La questione irrisolta, però, rimase e rimane un’altra. Quelle “precedenti indagini” riconducevano infatti all’amara vicenda del confidente dei Carabinieri Luigi Ilardo che già nel 1995 identificò il La Barbera e indicò la località di Mezzojuso come punto d’incontro. Ma perché ci vollero oltre cinque anni per tornare sul posto e riprendere le inchieste?

L’interrogativo apre inevitabilmente ad altri più fitti ed oscuri misteri.

Il 29 ottobre del 1995 Ilardo rivelò al colonnello Michele Riccio: ““Martedì 31 Salvatore Ferro mi ha dato appuntamento al bivio di Mezzojuso, insieme a Lorenzo Vaccaro”. La sera del 30 l’ufficiale dei carabinieri incontrò in gran segreto Ilardo ed ebbe la conferma dell’incontro con Provenzano. Il giorno dopo, però, non c’erano le squadre speciali ad arrestare la primula rossa di Cosa nostra”. Perché? Se lo chiedono i giornalisti palermitani Salvo Palazzolo ed Ernesto Oliva ripercorrendo, in un dossier pubblicato sul sito www.bernardoprovenzano.net, le sottovalutazioni, le gravi carenze investigative e le fughe di notizie che hanno caratterizzato l’ormai quarantennale latitanza del padrino corleonese. Fino al 1994 considerato il braccio rozzo della mafia di Totò Riina.

Lo chiamavano ‘u tratturi, ricordano Palazzolo e Oliva, fino a quando il pentito Gioacchino Pennino non rivelò che era invece lui “la vera mente della politica siciliana”.

Accadde forse troppo tardi. Accadde quando la primula rossa di Cosa Nostra aveva già un prezioso e largo vantaggio sulla giustizia.

 

Gli anni

della sottovalutazione

A valergli l’appellativo di “‘u tratturi” fu la strage di viale Lazio, “spartiacque fra la vecchia e la nuova Cosa Nostra”. Erano gli della guerra tra il clan Navarra e la cosca di Luciano Liggio, della quale Provenzano fu uno dei più spietati killer.

Quel 10 dicembre 1969 capeggiò i sicari che fecero irruzione negli uffici del costruttore Moncada uccidendo il boss Michele Cavataio ed altre cinque persone e perdendo un solo uomo: Calogero Bagarella.

“Provenzano si fermò un attimo – rivelò il pentito Antonino Calderone al giudice Giovanni Falcone – poi tirò Cavataio per i piedi da sotto il tavolo, avvertì una strana resistenza e si accorse che era vivo. Cavataio, pronto, gli sparò un colpo in faccia, o meglio, tentò di sparargli, dal momento che aveva finito le pallottole. Provenzano premette il grilletto della sua mitraglietta, che si inceppò, e non fu in grado di rimetterla a posto perché era stato ferito alle dita. Lo colpì allora in testa con il calcio dell’arma e con i piedi per cercare di stordirlo e finalmente riuscì ad estrarre la pistola e ucciderlo”.

Era la terza volta che scampava alla morte e in Cosa Nostra, annotano Palazzolo e Oliva, divenne presto “una leggenda”. Le leggende, però, della verità raccontano soltanto una parte.

Nell’85, un confidente fece sapere al maresciallo Guazzelli (ucciso nel 1992) che il cognato “ucciso nel febbraio ’85, sapeva per certo che la mafia di Sambuca di Sicilia aveva per le mani il corleonese Bernardo Provenzano, individuo pieno di soldi, latitante, che non ammetteva errori nell’ambito della malavita. Mio cognato – aggiunse – ne aveva paura in quanto trattavasi di persona che andava per le spicce e faceva uccidere anche al minimo dubbio”.

Per questo quando a cavallo tra l’81 e l’82 il capo della Squadra Mobile fece mettere sotto controllo l’utenza del capomafia di Agrigento Carmelo Colletti, “amico” di politici e questori, nessuno immaginò che il fantomatico “ragioniere” che egli cercava chiamando l’Industria chiodi “Ic.re.” di Bagheria fosse proprio lui.

In Cosa Nostra se la ridevano, disse più tardi il pentito Angelo Siino, nessuno sospettava.

E il proprietario della Ic.re, il mafioso Leonardo Greco, si scoprì poi che era in quegli anni uno degli organizzatori della famosa Pizza Connection.

Ancora oggi, puntualizzano Palazzolo e Oliva, “nonostante le indagini delle polizie di mezzo mondo, nessun ‘ragioniere’ né Provenzano sono stati mai sfiorati anche da un solo sospetto. E molte di quelle ricchezze accumulate sono protette in depositi bancari o investimenti rimasti segreti”.

Ma contrariamente alla maggior parte dei boss il traffico di droga non era per Provenzano la principale fonte di approvvigionamento di capitali. Lui, già negli anni Settanta pensava alla munnizza (i rifiuti) e nei primi anni Ottanta, si legge su www.bernardoprovenzano.net, “mentre Riina era impegnato nella guerra di mafia”, “aveva sperimentato il più pulito dei business, le forniture alla sanità pubblica, che in Sicilia vale tantissimi zeri: se poi gli amministratori amici delle unità sanitarie locali spendevano più di quanto era previsto in bilancio per foraggiare le casse della holding mafiosa, non era un problema. Avrebbero provveduto i politici collusi della Regione. E così don Bernardo iniziava a tessere i suoi rapporti all’interno dei palazzi della politica”.

Qualcuno fece finta di non vedere.

Gli uomini della Sezione Anticrimine guidati dal capitano Angiolo Pellegrini, proseguono Palazzolo e Oliva, identificarono nel clan Provenzano una sorta di “élite” all’interno dell’organizzazione mafiosa, più avvezza ad “usare la calcolatrice che non il Kalashnikov”. “Ma le segnalazioni alla magistratura non ebbero seguito”.

Bernardo Provenzano istituì liberamente e tutte su una stessa via di Palermo, la via Umberto Giordano ’55, le società Scientisud, Residence San Vito e Im.a. (Immobiliare Aurora spa). Li accanto gli appartamenti della compagna Saveria Benedetta Palazzolo e del suo uomo di fiducia Giuseppe Lipari. Quando nell’84 la Sezione Anticrimine individuò e sequestrò le sedi sociali il boss non fece altro che spostare le attività in Via Alcide De Gaperi 53. Nello stesso palazzo in cui abitavano il fratello Salvatore e il nipote Carmelo Garriffo.

La Scientisud e un’altra società, la Medisud, furono successivamente trasferite in via Casella 7, nello stesso condominio in cui abitava Giovanni Napoli, funzionario dell’assessorato regionale Agricoltura e foreste. Segretario del boss latitante, lo definiscono i due giornalisti palermitani che citando un’indagine del Ros dei Carabinieri scrivono: “chi fra i quadri dirigenti di Cosa nostra avesse voluto mettersi in contatto con Provenzano avrebbe potuto chiamare il numero d’ufficio del funzionario, 091/6966242”.

Per gli “amici” imprenditori, invece, Provenzano mise a disposizione una delle sue ville, a Monreale. Nella zona in cui approdarono le indagini degli uomini del capitano Pellegrini e dove alla fine degli Ottanta, conferma oggi il pentito Antonino Giuffré, “io facevo lì gli

appuntamenti con Provenzano. In un basso, vi era un piccolo localino: i fratelli Settimo e Salvatore Damiani, in compagnia di un terzo giovane, chiudevano la porta dall’esterno, noi rimanevano chiusi lì dentro belli e tranquilli, anche giornate intere”.

Erano gli anni, continua Giuffré, in cui “nel corso di una riunione al deposito del ferro, a Bagheria, Leonardo Greco ci comunicò che Cosa Nostra stava cambiando strategia e che il futuro era Bernardo Provenzano”.

Bino il “ragioniere”

Del suo effettivo ruolo in Cosa Nostra non si seppe fino al 22 luglio del 1993. Quando il boss della Cupola Salvatore Cancemi si consegnò alla caserma dei Carabinieri di Piazza Verde, a Palermo.

Di Bernardo Provenzano, allora, si vociferava addirittura che fosse morto. Il 5 aprile dell’anno precedente la moglie Saveria Benedetta Palazzolo e i due figli uscirono dalla latitanza facendo ritorno a Corleone. Come vuole la tradizione mafiosa alla scomparsa di un padrino.

E a fine ’92 nell’elenco dei boss della Commissione accusati dalla Procura di Palermo del delitto Lima Riina c’era, ma lui no.

Quel 22 luglio tutto cambiò. Provenzano non solo era vivo, disse Cancemi, ma era il nuovo capo della mafia siciliana. L’anno successivo un altro pentito, Gioacchino Pennino, già uomo d’onore e politico della Dc, mise fine alla leggenda di Bino ‘u tratturi. “Per quel che ho potuto constatare – rivelò al pm Teresa Principato e agli investigatori della Dia - il livello culturale dei miei coassociati era scadente, fatta eccezione per Bernardo Provenzano che mostrava di avere buone conoscenze e di seguire molto attentamente le vicende politiche, in ordine alle quali interloquiva con competenza e buon grado di profondità, tanto da darmi l’impressione di gestire la vita politica della provincia palermitana”.

“Il mistero del padrino – annotano Palazzolo e Oliva – stava cominciando lentamente a svelarsi nel modo più inaspettato”.

E le sue strategie sfuggirono forse anche allo stesso Totò Riina.

Con cui nel gennaio del ’92, contravvenendo alla regola secondo cui mai avrebbero dovuto presenziare entrambi alla stessa riunione, partecipò al summit in provincia di Enna in cui venne decretata la morte del giudice Giovanni Falcone e l’inizio della fine della stirpe corleonese.

E già in quel periodo don Bernardo si occupò di “misteriose trattative con pezzi delle istituzioni”.

Nei dialoghi intercettati tra il ’96 e il ’98 nell’ufficio bagherese di Gino Scianna (…) si apprese di una telefonata di Calogero Calà, suo collaboratore, al ministero dell’Interno. Era il giugno del 1992, nel bel mezzo delle stragi dei giudici Falcone e Borsellino.

A seguito delle quali, spiegherà il pentito Giovanni Brusca nel ‘96, si creò una forte spaccatura tra i fedeli di Riina, decisi a proseguire con la linea dura, e quelli più protesi verso la mediazione proposta da Bernardo Provenzano.

“Le nuove linee operative di Provenzano per la rinnovata Cosa nostra del dopo stragi vennero esposte il 31 ottobre del 1995 ad alcuni prescelti uomini d’onore, che sarebbero stati poi fedeli portavoce”, riprendono Palazzolo e Oliva. “La sala riunioni fu scelta in un antico casolare, nelle campagne di Mezzojuso, contrada Accazzo – la provincia palermitana che fra vallate e trazzere guarda al cuore della Sicilia. Attorno al tavolo, ad ascoltare il padrino latitante, c’erano Lorenzo Vaccaro, capomafia di Caltanissetta; Giovanni Napoli insospettabile funzionario dell’assessorato regionale Agricoltura; Salvatore Ferro, di Agrigento e Luigi Ilardo, mafioso di Caltanissetta e confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio.”

Era il 1993 quando il reggente del mandamento di Caltanissetta Ilardo, detenuto nel carcere di Lecce, decise di tagliare i ponti con il suo passato. Con l’organizzazione criminale Cosa Nostra “diventata soltanto una macchina di morte, di tragedie e tante menzogne”. Lo disse al colonnello Riccio e con lui, una volta uscito dal carcere, nel gennaio del ’94, iniziò a vedersi di nascosto.

Fu grazie alle sue indicazioni che prese il via l’inchiesta “Grande Oriente”.

Per la prima volta i carabinieri del Ros, guidati dal capitano Ultimo, penetrarono nel quartier generale della primula rossa di Cosa Nostra. Quella Bagheria che “Liggio aveva affidato a Provenzano come fosse un personale feudo”, si legge nel dossier, da dove il padrino controllava e controlla i suoi affari. E dove trascorse buona parte della sua latitanza. “So che a Bagheria Provenzano ha una grossa proprietà – riferì Ilardo a Riccio – con una grande villa, bellissima, in stile antico. E lì incontrava i suoi, viveva tranquillamente con la famiglia”. Anche il pentito Francesco Di Carlo riferì che nella zona, e precisamente alla Icre, vi era l’ufficio del boss. Dove, tra le altre cose, zu Binu si riunì, per “quattro ore” con il potente esattore di Salemi Antonino Salvo alla vigilia dell’assassinio del consigliere istruttore Rocco Chinnici. E dove, aggiunge oggi Giuffré, venivano effettuati anche numerosi omicidi.

A Bagheria i carabinieri del Ros rimasero per tre anni, seguendo presunti gregari e complici di Provenzano, da Simone Castello ai Greco ai Giammanco.

Raccogliendo le informazioni via via fornite da Ilardo il colonnello Riccio fece arrestare numerosi latitanti. Quando si trattò di prendere Provenzano, però, la macchina si inceppò.

 

A un passo dalla cattura

Era il  29 ottobre del 1995 quando Ilardo rivelò al colonnello Riccio dell’imminente riunione con Provenzano.

Il 10 maggio successivo alla mancata cattura Ilardo venne assassinato a Catania, a seguito di un incontro con i procuratori Caselli e Tinebra durante il quale comunicò la decisione di ufficializzare la sua collaborazione.

“Chi decise davvero cosa si doveva fare il 31 ottobre ’95?”, si chiedono i due giornalisti. “Quel giorno – continuano – lo Stato si presentò con due carabinieri armati di macchina fotografica e di pochi altri militari su tre auto”.

Alla domanda sta tentando ora di rispondere la Procura con un’inchiesta affidata al pubblico ministero Antonino Di Matteo. Aperta in seguito alle denunce di Riccio: quel giorno “da Roma arrivò una sola autorizzazione, “pedinate, controllate a distanza, ma non prendete altre iniziative”. La motivazione: si volevano utilizzare i propri strumenti, che in quel momento mancavano. Ma io, con il mio gruppo, che fino ad allora si era preparato, eravamo pronti: avevamo tutti gli strumenti necessari”.

Il generale Mario Mori, allora alla guida del Ros, smentisce, ma la Procura di Palermo, “come atto dovuto”, lo ha iscritto nel registro degli indagati, insieme ad un altro ufficiale del Raggruppamento Operativo Speciale, il colonnello Mauro Obinu.

A seguito del blitz “Grande Oriente” che nel 1998 portò in carcere i presunti favoreggiatori del padrino corleonese, Riccio aveva dichiarato a Repubblica: “Una talpa ha salvato Provenzano”. Ilardo “mi aveva sempre parlato di talpe ad alto livello ed una volta mi disse anche di avere appreso da Simone Castello notizie relative ad un pentito che parlava di entrambi. Si trattava di una lettera di un aspirante pentito catanese, doveva essere una cosa riservatissima, invece Provenzano ed i suoi ne erano a conoscenza”.

Non si trattò certo di un caso isolato.

Nel 1996, subito dopo il suo arresto, Giovanni Brusca parlò agli investigatori di due insospettabili che avrebbero potuto portare al boss – il geometra Francesco Barbaccia e l’imprenditore Francesco Raineri – e di un tale “Amato, dell’Autoscuola Primavera”. E’ uno dei mille postini di Provenzano, disse, “è lui che mi portava i bigliettini”. Questa, come altre indicazioni, non fu verificata subito. Forse l’antimafia non aveva sufficienti uomini e mezzi, commentano Palazzolo e Oliva.

In ogni modo, proseguono il racconto, quando solo due anni dopo i carabinieri del Ros iniziarono a controllare stabilmente l’autoscuola, di Provenzano non trovarono traccia. Nel

2002 il pentito Antonino Giuffré ha spiegato il perché: “Mi chiamò Nino Gargano di Bagheria, mi ha dato comunicazione che il covo era stato scoperto dalle forze dell’ordine, e forse dai Ros, se ricordo bene. Dopo di ciò abbiamo cambiato, nessuno andava più lì, abbiamo cambiato posto per gli incontri”.

Quando fu catturato Brusca segnalò anche i posti in cui il padrino aveva trascorso l’ultimo periodo della sua latitanza: “Belmonte Mezzagno, Marineo e Casteldaccia” e avvertì di tenere sott’occhio l’ex geometra dell’Anas Pino Lipari, “ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”, “perno del sistema Provenzano”.

Stesso avvertimento venne il 12 aprile del ’97 dal collaboratore di giustizia Angelo Siino le cui dichiarazioni vennero ufficialmente acquisite all’indagine “Grande Oriente” l’anno successivo.

In quel ’97 la Procura di Palermo iniziò quindi a sorvegliare il Lipari individuando una serie di postini che recapitavano i suoi “pizzini” al latitante. Seguendo uno di questi, il genero Giuseppe Limpiasi, grazie ad una telecamera piazzata all’interno dell’ascensore di un ospedale di Palermo, Villa Sofia, filmarono il passaggio di una lettera a Vito Alfano, nipote di don Bernardo. Il quale, a sua volta, consegnò il pizzino a Paolo Palazzolo, fratello di Saveria Benedetta.

Lì, purtroppo, annotano ancora Palazzolo e Oliva, i pedinamenti e le intercettazioni della polizia si fermarono.

Un’altra occasione mancata. Alla quale si aggiunse, un anno dopo, quella legata alle indagini sul boss di Prizzi Tommaso Cannella.

A parlare di lui ancora i pentiti Brusca e Siino. Quest’ultimo lo indicò come il “principale personaggio a cui si riferisce Provenzano”. “E’ lui, titolare dell’impianto di Calcestruzzi Sicilconcrete, il referente per i contatti con le pubbliche amministrazioni e i lavori pubblici”. Nonostante all’epoca fosse già agli arresti domiciliari.

Così nel ’97 gli uomini del Ros diretti dal capitano Ultimo iniziarono a pedinare il Cannella e diedero il via ad una massiccia opera di intercettazione.

“Il 27 maggio del ’98, all’interno degli uffici della Sicilconcrete – riporta ancora il dossier – Giuseppe Vaglica (il cognato di Francesco Pastoia, l’autista di Provenzano) diceva a Cannella: “Domani alle cinque padrino?”. E Cannella rispondeva: “Alle cinque… c’è u zu Binu pure…”.

Ma il giorno dopo, nessuno andò a controllare se a quell’appuntamento c’era per davvero Bino Provenzano. Sembra che per carenza di uomini, le forze dell’ordine spesso non ascoltano in diretta le microspie, ma usano dei registratori. Talvolta, come in questo caso, riascoltare un nastro in ritardo può essere fatale”.

E forse lo fu anche il giorno della cattura di Benedetto Spera. Non tutti gli investigatori che si occupavano della ricerca di latitanti erano stati messi al corrente di una registrazione con le voci di un summit mafioso e forse anche quella di Provenzano.

 

Senza mezzi contro il boss

“Io sottoscritto, in servizio permanente effettivo. Ruolo Normale, effettivo al Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri, avendo preso coscienza dell’impossibilità di poter disporre dei requisiti minimi necessari allo svolgimento dell’attività investigativa sotto parametri di professionalità e di sicurezza personale mia e dei militari a me assegnati, ritenendo non più utile la mia permanenza al Raggruppamento Operativo Speciale, chiedo di essere trasferito ad altro Reparto dell’Arma”.

Con queste parole, il 27 marzo del 2000, il capitano Ultimo, famoso per aver catturato il boss dei boss Totò Riina lasciò il Ros, comandato allora dal generale Sabato Palazzo.

Più volte il capitano aveva lamentato un’insufficienza di mezzi e più volte aveva chiesto che i suoi uomini non fossero riciclati di anno in anno. “Se dopo un anno chi ha imparato va via, tanto vale lasciar perdere”, diceva.

La polemica che fece seguito alla richiesta di trasferimento fu riportata su Repubblica e sul Corriere, ricordano Palazzolo e Oliva. Un botta e risposta tra Ultimo e i vertici dell’Arma che si affrettarono a smentire le sue denunce. “La cattura dei latitanti è ritenuta dall’Arma, da sempre, obiettivo prioritario”, preciso il Comando in una nota. Ma il capitano incalzò dichiarando al Sunday Times: “Non mi hanno dato i mezzi per scovare il nuovo signore della mafia, Bernardo Provenzano”.

Parole molto simili a quelle in seguito pronunciate dal colonnello Michele Riccio. “Tutta la mia vita – disse il colonnello ai magistrati di Palermo – tutte le mie indagini, sono state un continuo sollecitare gli altri a fare qualcosa. Anche perché altrimenti sembrava che io volessi… io non mi posso arrogare il diritto di fare un personale contrasto a Cosa nostra. E invece mi ritrovavo a utilizzare il mio cellulare per le telefonate di servizio, ad anticipare le spese di viaggio… e dovevo lottare per i rimborsi”.

 

Lo Stato

non vuole prenderlo?

Nell’estate dell’anno scorso, dopo anni di silenzio, l’ultimo pentito di Cosa Nostra Antonino Giuffré, già uomo di fiducia di Bernardo Provenzano, ha fornito una miniera di preziose informazioni sul latitante e sulle nuove strategie di Cosa Nostra. Sempre più attenta all’imprenditoria e alla politica. Tra le altre cose il neo-collaboratore ha inoltre riconfermato il ruolo di Lipari e Cannella e fatto i nomi di alcuni suoi possibili favoreggiatori.

Nel frattempo i manager bagheresi di Provenzano, già condannati, sono stati scarcerati su ordine della Cassazione per scadenza dei termini di custodia cautelare.

“Carlo Guattadauro, Simone Castello, Nicolò Greco e Vincenzo Giammanco hanno solo il divieto di soggiorno nella provincia di Palermo – spiegano Palazzolo e Oliva -. Poco male. Possono rientrare per partecipare al processo d’appello”.

E se “Guttadauro ha preferito trasferirsi a Roma, in un lussuoso hotel del quartiere Parioli”, Nicolò Greco “ha invece scelto un albergo di Agrigento” e Vincenzo Giammanco ha deciso di andare via dalla Sicilia, almeno per il momento, e ha fatto sapere alle forze dell’ordine che fissa domicilio a Pomezia, alle porte di Roma”. “Meno fortunato è stato Leonardo Greco, lo storico capomafia di Bagheria” esiliato a Sulmona da dove, però, “ha già usufruito di tre licenze, ed è così potuto tornare a Bagheria”. “Che poi Greco sia da sempre uno dei più stretti collaboratori dell’imprendibile Provenzano, forse questo non importa”.

Intanto, al processo d’appello Grande Oriente Giuffré dichiara: “Anche quando era in carcere, Greco continuava a percepire i proventi delle attività illecite. Erano suo fratello Nicolò e Provenzano a mantenerlo in contatto con le cose di Bagheria”.

Quelle “cose” che si identificano anche e soprattutto nei contatti con gli ambienti istituzionali.

Nel luglio del 2003 si è appreso che nel corso di un’attività di pedinamento gli uomini del Ros avrebbero sorpreso l’ex segretario di Vito Ciancimino, Francesco Buscemi, in compagnia di Gianfranco Micciché, viceministro dell’Economia del governo Berlusconi. Con loro, quella mattina del 3 ottobre 2000, “c’erano anche altre persone”, scrivono Palazzolo e Oliva, “tutte coinvolte, nel passato o di recente, in indagini sul superlatitante Bernardo Provenzano”.

Tra queste Pietro Vallone, ex consigliere di Forza Italia; Vincenzo D’Amico, “uno dei nomi che figuravano nell’assetto societario voluto da Provenzano nei primi anni Ottanta2 e Stefano Vullo, “cugino di Giuseppe Piddu Madonia”.

In un latro emblematico capitolo del dossier Palazzolo e Oliva riportano il testo di un’intercettazione, risalente al 1999, di alcuni favoreggiatori di don Bernardo.

“Allo Stato non interessa prenderlo – sono le voci di Giuseppe Leone e Antonio Giannusa – lo sanno che c’è la rivoluzione industriale appena lo prendono”.

 

Allora, concludono i giornalisti “i magistrati non ebbero dubbi: stavano parlando di Bino Provenzano”.

 

Un completo dossier sulla primula rossa di Cosa Nostra: la sua storia, un servizio fotografico su un blitz mancato e l’elenco dei covi della sua quarantennale latitanza. 43 in tutto, secondo le indagini di magistratura e forze dell’ordine, tutti in Sicilia: da Bagheria a San Giovanni La Punta, da Mazara del Vallo a Sambuca di Sicilia. Sono gli ultimi aggiornamenti del sito www.bernardoprovenzano.net, curato dai giornalisti siciliani Salvo Palazzolo ed Ernesto Oliva e disegnato da Cesare Ausili. All’interno della web-site potrete consultare numerosi documenti processuali relativi al boss e troverete una moltitudine di informazioni sull’attuale capo di Cosa Nostra. Oltre ad alcune lettere inviate al superlatitante dalla moglie e dai figli. Comprese, queste, nel suddetto dossier del quale, in queste pagine, vi proponiamo un’ampia recensione.

 

Salvatore Cancemi racconta la mancata cattura di Provenzano

 

Gli insuccessi che hanno contraddistinto la mancata cattura di Provenzano si susseguono dunque negli anni, nonostante più volte si sia aperta la possibilità di un suo definitivo arresto. A tal proposito è Salvatore Cancemi ex boss della cupola, oggi collaboratore di giustizia a raccontare la sua storia in un libro – intervista scritto da Giorgio Bongiovanni dal titolo “Riina mi fece i nomi di…” di Massari editore. 

Signor Cancemi – si legge nel libro – quando si consegna ai carabinieri? Il 22 luglio 1993.

Quindi sicuramente contro di lei hanno sentenziato una condanna a morte che vorranno portare ad esecuzione a qualunque costo. Io mi sono condannato da solo quando  ho  deciso di rivelare tutto quello che sapevo su Cosa Nostra. Ormai, per me, “più buio di mezzanotte non può fare”. Io ho servito allo Stato italiano la verità su un piatto d’argento.

A che cosa si riferisce? Alla mia collaborazione in generale e alla preziosa occasione di catturare subito Bernardo Provenzano e Carlo Greco.

Mi racconta l’accaduto? Certo. Dopo aver chiesto di avvisare il Capitano “Ultimo” dissi ai carabinieri che io avevo, per quella mattina alle sette, un appuntamento con Provenzano; quindi se volevano potevano prenderlo.

Vuol dire che lei aveva con se un bigliettino con la data e il luogo dell’incontro? No, non esistono queste cose. Carlo Greco mi aveva dato un bigliettino in cui c’era scritto che mi dovevo far trovare alle sette nella zona del Baby Luna, non so se le è familiare.

Si è un locale piuttosto noto di Palermo. Lui doveva passare a prendermi là, vicino ad un negozio di antiquariato, e portarmi all’incontro con Provenzano. Io ovviamente il posto non lo sapevo, però so che era sempre nella zona di Palermo.

Mi scusi lei mi sta dicendo che quella mattina lei con Carlo Greco doveva andare da Provenzano e i carabinieri lo potevano catturare? Si.

E cosa è successo invece? All’inizio non mi hanno creduto, perché altri pentiti avevano dichiarato che non si sapeva se era ancora vivo. Mi hanno detto di aver avuto notizie attendibili che era stato ferito da un fucile di precisione da una terrazza; il fatto, poi, che la famiglia fosse tornata a Corleone per loro era una prova che Provenzano era morto. Era assurdo io l’avevo visto a maggio, due mesi prima, lo aveva accompagnato un nipote di Francesco Pastoia, consigliere della famiglia di Belmonte Mezzagno. Non so se fosse un uomo d’onore; aveva una Renault 5 di colore bianco.

I carabinieri invece facevano risalire il suo possibile omicidio a una data più arretrata. Qualche tempo dopo, infatti, su tutti i giornali d’Italia è uscita la notizia che Provenzano aveva mandato una lettera firmata autografa al suo avvocato, dottor Aricò. A quel punto ho avuto anche una discussione con i carabinieri perché non capivo il problema. “Vi ho detto che mi dovevo incontrare con Carlo Greco, se non volete prendere Provenzano, almeno arrestate Greco!!”.

Non si fidavano. Ma cosa potevo fare io? Anche se ti sto ingannando e ti faccio ammazzare dieci militari, io sono nelle tue mani…

Che aspetto aveva Provenzano l’ultima volta che lo ha visto?  Era magro con pochi capelli, non portava né baffi né barba. Poi non stava tanto bene, aveva problemi alla prostata, mi ricordo che glielo diceva a Raffaele Ganci, perché durante la riunione si era alzato un sacco di volte per andare in bagno.

E poi? Poi mi hanno fatto un buco nei pantaloni, ancora li conservo, per mettermi una microspia nella tasca in modo che io salissi in macchina con Carlo Greco. E li facessi arrivare a Provenzano. Ma tutto si è risolto in una bolla di sapone. Chi diceva di prendere il furgone blindato, chi gli elicotteri è intanto l’orario dell’appuntamento è passato.

Perché secondo lei non hanno voluto prendere Provenzano? Questo io non lo so. So che questa è la realtà, è oro colato! “.

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