Da Repubblica del 13 febbraio 2008
Chi era Michele Greco, il boss morto oggi a Roma
Nella sua storia dai delitti politici e complici eccellenti
Ascesa, omicidi e sconfitte
tutti i segreti del "Papa"
di SALVO PALAZZOLO
Aveva
la mania di consegnare memoriali ai giudici che lo processavano. Michele Greco
raccontava sempre la stessa storia, quella di una Sicilia antica, in cui lui era
uno stimato proprietario terriero: "Nella mia tenuta, alla Favarella,
ricevevo ufficiali dei carabinieri, politici, magistrati, e pure alti
prelati". L'ultima volta che lo ribadì, con la sua solita grafia molto
ordinata, fu al processo per i delitti politici di Palermo. Michele Greco
continuava a scrivere molto, ma a dire poco. Lanciava segnali, ma è morto
portandosi dietro i suoi segreti, quelli sugli anni Ottanta che furono segnati
da una lunga scia di sangue e da una misteriosa catena di complicità.
Era stato nominato capo della commissione provinciale nel 1978, dopo la
deposizione di Gaetano Badalamenti. Già allora lo chiamavano il
"papa", per la sua capacità di mediare. Ma quando i corleonesi di Totò
Riina e Bernardo Provenzano scatenarono la guerra di mafia, lui non provò
neanche a capire cosa stava accadendo. Michele Greco si schierò presto dalla
parte dei vincenti. E conservò, almeno formalmente, il suo ruolo di vertice
nella commissione, fino al giorno in cui fu arrestato, il 26 febbraio 1986, dopo
quattro anni di latitanza. Il suo ruolo era stato ormai delineato dal pool di
Falcone e Borsellino. Così, il "papa" fece ingresso nel bunker dell'Ucciardone,
dove iniziava il primo maxi processo alle cosche.
Sono ormai celebri le sue dichiarazioni in aula. "Signor presidente, io
auguro alla corte pace e serenità per potermi giudicare...". Faceva di
tutto per apparire come un timorato uomo di Dio, gran lettore della Bibbia e
assiduo frequentatore di messe. Ma non bastò ad evitargli l'ergastolo, come
mandante per quattro omicidi. Lui non si rassegnò. Attraverso il suo legale,
fece sapere: "Le uniche cupole che conosco sono quelle delle chiese, il
personaggio sanguinario che mi hanno disegnato su misura è falso".
L'unica volta che Greco è rimasto in silenzio è stato il giorno in cui ha
deposto Nino Giuffrè. Con lui aveva vissuto durante la latitanza, nelle
campagne di Caccamo. All'epoca, Giuffrè era il più promettente dei picciotti
del mandamento gestito da Francesco Intile, qualche anno dopo sarebbe diventato
lui il padrino e per di più uno dei collaboratori di Bernardo Provenzano.
"Michele Greco mi parlava di tante cose - spiegò Giuffrè quando decise di
collaborare con i magistrati di Palermo, nella primavera del 2002". Gli
raccontò di come un uomo d'onore, Vittorio Mangano, era diventato stalliere
nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi: "L'imprenditore milanese aveva
paura dei sequestri di persona che in quel periodo imperversavano a
Milano".
Michele Greco raccontò ancora a Giuffrè di quando aveva incaricato l'esattore
Nino Salvo di andare a Roma, per parlare con Andreotti. "Bisognava
alleggerire la pressione di magistrati e investigatori". Grazie alle
confidenze del "papa", Giuffrè è diventato testimone d'eccezione nei
processi che hanno portato alla condanna di Marcello Dell'Utri e a una
dichiarazione di prescrizione per Giulio Andreotti. Greco non ha mai più
replicato. E' rimasto chiuso in isolamento.
Dall'84, era uscito una sola volta dal carcere, nel '91, per una questione di
decorrenza dei termini di custodia cautelare, decretata dalla Cassazione in base
a una cervellotica interpretazione delle leggi e del codice di procedura penale.
"Ma cos'è questa mafia? Ma chi ha mafiato mai?", disse ai giornalisti
che l'andarono a trovare nella sua villa di Croceverde Giardini, alla periferia
orientale di Palermo. "La mafia? Non so niente". E tornò ad insistere
sulla sua religiosità. Quella volta, restò davvero poco in libertà. Le porte
del carcere si riaprirono con un decreto d'urgenza del ministro della Giustizia,
Claudio Martelli, su input dell'allora direttore degli Affari penali, Giovanni
Falcone, e con l'avallo del governo, presieduto da Giulio Andreotti.
E' stato il cavallo di battaglia dell'ex presidente del consiglio al suo
processo per mafia. Ma Giuffrè è rimasto per i giudici
"attendibile". Adesso che Michele Greco è morto, l'ex picciotto di
Caccamo è davvero l'unico depositario dei segreti del "papa".
(
13 febbraio 2008
)
Da Panorama del 13 febbraio 2008
Stroncato, da quanto si
apprende, da un tumore ai polmoni, è morto mercoledì in una clinica romana,
dove era ricoverato da alcune settimane il boss mafioso Michele Greco, 83 anni,
detto “il Papa” della mafia. Il capomafia di Ciaculli, prima del ricovero in
ospedale, era detenuto a Rebibbia dove stava scontando alcuni ergastoli
definitivi. Greco era una figura storica di Cosa nostra ed era ritenuto fra i
mandanti di alcuni delitti eccellenti.
Lo chiamavano “Papa” perché sapeva mediare tra le famiglie di Cosa Nostra.
Ieratico, sempre incravattato e in ordine, sembrava lo “zio”, quegli
“zii” di Sicilia ritratti da Leonardo Sciascia cui chiedere un consiglio,
giustizia o ponderata vendetta secondo i casi. Fu “Papa” in tempi difficili,
quei primo Ottanta in cui i Corleonesi stavano prendendo in mano Cosa Nostra e
lui, il padrino di Croceverde-Giardini riceveva politici e potentame vario nella
sua tenuta di Ciaculli, “La Favarella”.
Greco divenne una figura nota a tutti gli italiani grazie alle immagini del
Maxiprocesso di Palermo, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dalle
gabbie in cui i maggiori capimafia facevano sfoggio di sé, lui parlava solo a
proposito e, a differenza di Luciano Liggio e il suo enorme sigaro cubano
agitato polemicamente come un bastone, interveniva solo per stretta necessità.
Da vero padrino disse ai giudici che lo interrogavano: “Se mi fossi chiamato
Michele Roccapinnuzza oggi forse non sarei qui”, poi si lanciò in una
filippica contro la pornografia e i film violenti che a suo dire avevano
rovinato il mondo. Disse infatti che se il pentito Salvatore Contorno avesse
visto I dieci comandamenti, anziché Il Padrino, non avrebbe
calunniato alcune persone. Greco fu arrestato il 26 febbraio dell’86 dopo
quattro anni di latitanza in un casolare nelle campagne di Caccamo, a una
cinquantina di Km da Palermo, dove si nascondeva sotto falso nome.
Nominato nel 1978 capo della commissione di Cosa Nostra, dopo l’espulsione di
Tano Badalamenti, non ostacolò l’avanzata dei corleonesi di Totò Riina e
Bernardo Provenzano, dei quali divenne anzi alleato. Insieme al fratello
Salvatore (detto “il senatore”, per i suoi rapporti con politici e
banchieri), fu il mandante dell’omicidio del giudice Rocco Chinnici.
Con undici ergastoli sulle spalle (tra cui quello del generale Carlo Alberto
Dalla Chiesa), il “Papa” sarebbe potuto tornare in libertà nel 2010, a 86
anni. Per i magistrati, infatti, non aveva più legami con la mafia. Coerente
con le scelte che ha fatto, è morto dopo una lunga malattia senza mai rivelare
quello che sapeva sugli anni passati dentro Cosa Nostra. Nemmeno sul significato
di quell’augurio di pace che rivolse ai giudici prima della camera di
consiglio del Maxiprocesso e che nessuno è stato mai capace di interpretare:
“Auguro a tutti voi la pace, perché la pace è la tranquillità dello spirito
e della coscienza, perché per il compito che vi aspetta la serenità è la base
per giudicare. Non sono parole mie, ma le parole che nostro signore disse a Mosè,
le auguro ancora che questa pace vi accompagni per il resto della vostra
vita”.