Il professore era uno scrittore segreto, insospettato

Il posto giusto


di Enza Sperduti

 Il prof. Venturini fece la sua apparizione alle otto. La spiaggia era vuota, come piaceva a lui, e odorava di mare, di fresco, non di umanità che si cuoceva al sole. Non ancora. Con un sospiro di soddisfazione depositò la sacca sotto l’ombrellone e sistemò i suoi libri sul piano di appoggio insieme al quotidiano che aveva appena acquistato. Il suo rapporto coi libri, strettissimo e riparatore di malanni esistenziali, non si accontentava di uno solo alla volta e anche se non aveva ancora trovato il modo di leggerli simultaneamente lo confortava averne parecchi a disposizione. Il professore era uno scrittore. Ma non di quelli che scrivono e pubblicano i loro racconti e romanzi: altri, ne era convinto, lo facevano molto meglio di lui. Era uno scrittore segreto, insospettato, e le storie che traeva dal mondo circostante e da quello infinitamente più ampio che stava dentro di lui le narrava solo a se stesso. Raggiunse la battigia e coi piedi nell’acqua, sforzandosi di non vedere la selva degli ombrelloni aperti, contemplò a lungo la spiaggia dorata e semideserta che si incurvava tra il promontorio e una propaggine rocciosa come una baia appena accennata. Poi guardò il mare, quella gran massa turchina che gli faceva volare l’anima, e ne ascoltò l’ansito potente e trattenuto che andava a perdersi ai suoi piedi in riccioli di spuma. Quando era bambino ogni tanto il parroco chiedeva a lui e ai compagni se qualche volta parlavano con Dio, se udivano la sua voce. Impossibile, replicavano, Dio è troppo lontano. No, se date ascolto alla natura la sentirete, ascoltate bene. Lui non capiva, era troppo piccolo, poi col tempo imparò a riconoscerla, a ricercarla, e ora ne udiva anche i sussurri. Tornò all’ombrellone. La spiaggia si andava popolando. Era giugno, mamme e nonne accorte non tardavano ad arrivare coi loro bambini. C’era la signora Maria, una mamma giovane e vivace con Carletto al secondo o terzo cornetto della giornata. C’era la coppia dei nonni che traboccava amore ed energia per i quattro turbolenti nipoti, e la coppia abbastanza giovane con le figlie adolescenti sempre annoiate per la scarsità di coetanei. E la signora Elena, che badava ai suoi tre bambini con l’aiuto della propria madre. Tutti uguali, tutti usciti da uno scalpello poco fantasioso che nulla rivelava della loro condizione sociale e culturale. Spogliati, insieme agli abiti, di ogni identità. Alla minuscola comunità che accerchiava il professor Venturini mancavano i due giovani amici che si facevano vedere solo sul tardi. Arrivavano silenziosi, e senza uno sguardo o un sorriso si stendevano a leggere e a prendere il sole fino al momento di fare il bagno. Allora si alzavano e col distacco di chi si trova su un’isola deserta entravano in acqua e si spingevano al largo. Apparivano ogni anno per un paio di settimane, belli e imprendibili come due grossi uccelli migratori che si fermano a riposare e non gradiscono intrusioni. Mentre il professore apriva uno dei suoi libri, all’estremità della spiaggia che corrisponde al centro cittadino Jussef iniziava il suo viaggio giornaliero. Era venuto con lo zio, che lavorava al litorale successivo e sarebbe passato a riprenderlo verso sera. Jussef era un bel ragazzo sui quattordici anni, con le gambe magre fuori dai pantaloni corti e i gomiti resi più appuntiti dal gesto di reggere la cassetta che teneva appesa al collo. Nei ripiani a vista della cassetta c’erano collane dai colori brillanti, bracciali che parevano di ambra e di avorio, ciondoli e anelli che sapevano luccicare sulla pelle abbronzata delle signore. Lo zio era in Italia da molti anni e ora poteva permettersi una merce che si vendeva con un discreto guadagno. Discreto per lui, s’intende. Guardando i compagni appena arrivati sentenziava: merce povera, guadagno povero. Così era stato anche per lui, all’inizio.
Jussef camminava a occhi bassi, senza perdere alcun segno d’interesse da parte dei bagnanti. Non voleva indugiare sui corpi nudi stesi al sole, specialmente quelli femminili che pure costituivano la sua clientela. A l suo paese, povero e impolverato dalla sabbia del deserto e così caldo che lui e l’anziano padre a volte cacciavano fuori i materassi e dormivano sotto le stelle, uomini e donne erano sempre coperti da capo a piedi. Era andato via da due anni, un’infinità, ma pareva ieri che oltrepassava la soglia della sua casupola mentre Baba gli teneva sul capo il Corano mormorando la sua benedizione. Accanto la mamma piangeva col viso tra le vesti e le sorelle lo guardavano con gli occhi brillanti di lacrime e speranze. Il più piccolo partiva per seguire lo zio, ma non li avrebbe dimenticati, soprattutto non avrebbe dimenticato i comandamenti di Allah, mai. Mentre si attaccava alla cara immagine delle sorelle e della mamma nascoste nei loro veli incrociò un gruppo di coetanei, maschi e femmine, che scherzavano e ridevano fra loro in tutta naturalezza. Le ragazze si fermarono a osservare le collane. Erano dolci e gentili come le sue sorelle e non gli parevano sfrontate, anche se erano coperte solo da due minuscole strisce di stoffa. Contro questi pensieri la sera tirava fuori il suo tappetino e si inginocchiava a pregare. La libertà del nuovo paese lo turbava, gli metteva in testa fantasie pazze e meravigliose. Stava a oltre metà del viaggio e il sole che al mattino regnava benevolo sulla terra si era fatto minaccioso. Qualcuno diceva che da un po’ di tempo il mese di giugno era il più caldo dell’anno. Doveva essere vero, pensava sotto la vampa ardente mentre il lido che di solito riservava alla pausa e al panino gli appariva lontanissimo. Quel giorno aveva incassato poco e lui ci teneva a non essere di peso allo zio e a mandare a casa quanto più poteva. Il pensiero della sua casa, della sua mamma, del padre anziano e malato, delle sorelle lo afferrò acutamente e per un attimo non fu più l’orgoglioso capofamiglia ma solo un ragazzo di quattordici anni desideroso di tenerezze. Il professor Venturini lo vide avanzare a fatica, e a un cenno della signora Maria entrare prontamente nel cerchio d’ombra, liberarsi della cassetta e inginocchiarsi speranzoso sulla sabbia fresca. Le signore vicine lo circondarono e presto si avvicinarono anche quelle più lontane, attirate dal capannello. La mercanzia cominciò a passare di mano in mano, tra gridolini di sorpresa e di apprezzamento. Tutte toccavano, provavano, ammiravano. Jussef aspettava, tenendo d’occhio le sue cose senza darlo a vedere. Era diventato bravo, lo zio era contento. Il tempo passava, qualche signora distoglieva gli occhi dai bracciali e s’informava affabilmente sulla sua condizione. Lui rispondeva brevemente. Carletto finì di asciugarsi al sole e reclamò a gran voce il sacchetto di patatine che gli spettava dopo il bagno. La mamma si alzò e contemporaneamente, come uno stormo che d’improvviso inverte in cielo la rotta, il gruppo girò le spalle alla cassetta e al suo proprietario. Jussef sentì tutto il caldo dell’ora, la fatica, la solitudine. Guardò i ragazzi che al bar sorbivano bibite fresche e gelati (il professor Venturini ogni giorno era tentato di offrigliene, ma non osava), i piccoli despoti prontamente accontentati, le ragazze che si stendevano al sole annoiate. Si rimise in piedi e nel riprendere il cammino sferrò un calcio alla sabbia che andò a finire negli occhi di Carletto. La reazione fu immediata: -Ma guarda che maleducato, ma come si permette….. -Ma chi ti ha chiamato, chi ti ha detto di venire qui ad insultarci, mentre ce ne stiamo per i fatti nostri….. -Andatevene alle vostre case, ai vostri paesi, tu e i tuoi degni compagni….. -E dire che per compassione compriamo cose che nemmeno ci servono. Ah no, la compassione no, lui era un lavoratore e lavorava sodo per sé e per la sua famiglia. Voleva solo il rispetto. E loro compravano comodamente, senza il disturbo di andare a cercarle, cose che in qualunque negozio avrebbero pagato molto di più. Compravano per convenienza, non per compassione. Se c’era una cosa che non sopportava era proprio quella falsa simpatia pronta a sparire se non stava al posto suo. Ma il posto mio dov’è? si chiedeva Jussef. Non al paese, così immobile nella miseria, e nemmeno qui, dove pure tante cose belle mi attirano, che Allah mi perdoni! Sferrò altri calci alla sabbia gridando in arabo la sua rabbia, e quella lingua oscura e gutturale inquietò ancor più le donne presenti. Cominciò a correre, incredulo per la sua audacia. Il professore, che stava sistemando mentalmente una frase rincorsa da giorni, se ne staccò per seguire la situazione. Vide la signora Maria animata e rossa in viso zittirsi di colpo e spostare lo sguardo da Jussef al mare. Lontano, al largo, i due giovani scontrosi dell’ombrellone accanto non erano più loro. Si tuffavano, nuotavano, galleggiavano, giocavano tra spruzzi d’acqua e scintillii di sole, felici e liberi, lontano da tutti. La mamma di Carletto li esaminò con sospetto, guardò Jussef ormai lontano, quindi tornò ai due giovani che laggiù, tra le onde, danzavano alla vita e alla giovinezza. Li fissò a lungo, poi accostò le labbra all’orecchio della sua vicina. Nell’aria incandescente che traeva barbagli tremolanti dalla sabbia e dall’acqua, il professor Venturini cominciò a raccogliere le sue cose. Chissà se c’è un posto giusto per qualcuno…..

Enza Sperduti