Il Fabraterno 2007/01


Nessun viaggio è un viaggio definitivo (Saramago)

ritratto di un perfetto viaggiatore

Perdersi tra le strade di una città, fumare un sigaro...


di Federica Turriziani Colonna

 

Il viaggiatore è un uomo strano: parte da solo, non vuole compagnia, viaggia insieme al proprio cuore, e sta bene così; non ama la folla, non ama i turisti. Prendere un aereo per Praga ad agosto, comperare una guida, darsi degli orari, fare programmi, frantumare il tempo e i luoghi: tutto questo non è gradito al viaggiatore. Il viaggiatore ama vivere un posto, non visitarlo. Vivere un posto è vivere se stessi nel modo in cui vivono gli altri, sperimentarsi, spogli dei propri costumi. Il viaggiatore è un infedele: egli non è buon custode dei costumi del popolo cui appartiene, ma si lascia investire volentieri dalle usanze di popoli nuovi, senza tuttavia farle proprie. È come il vento, leggero, indipendente, imprevisto. È condannato a non vivere l’amore, la casa, la famiglia, ma il suo cuore è pieno lo stesso: egli non ama un solo essere umano, li ama tutti, si sente soffocare dal caldo che c’è in casa, perciò insegue il vento, che è fresco e giovane: è una strana creatura, il viaggiatore. Per lui il viaggio non è un paradigma, definito entro un’andata e un ritorno, è piuttosto un inseguire una nuova possibilità del suo essere, per conoscerla, e sentirla propria per un po’: è un esperimento su se stesso, proprio come sostiene Saramago, “nessun viaggio è definitivo”. Viaggiare è sentire un contatto con la terra che si ha sotto i piedi: una persona abituata a vivere sempre nello stesso luogo non sa sentire la terra, ma il viaggiatore sì, la sente viva, le dà un’identità propria; la terra è per lui un’entità indipendente, è la prima cosa con cui egli entra in contatto, appena giunto in un posto nuovo, è la padrona di casa che gli dà il benvenuto. E poi i profumi: sono l’elemento che distingue un posto da un altro, che caratterizza una terra, un popolo, una cultura. La delusione più grande che una città possa dare è quella di non avere alcun odore: è così Los Angeles, insipida, anonima, un non-luogo. Altre terre, invece, profumano di buono, di persone, di gioia, o anche di povertà, di tristezza: la mente associa un odore con un’impressione non olfattiva, e tale sinestesia, tale raccordo di un connotato oggettivo con uno soggettivo, tale unione: la terra e le persone, quello è il viaggio: un viaggio tra le persone, un viaggio in una terra, un viaggio con se stessi, o anche dentro se stessi… Perdersi tra le strade di una città, fumare un sigaro con uno che in quella città ci ha vissuto una vita, fermarsi a stare in compagnia di un pittore che immortala uno scorcio al tramonto, cantare con i musicisti di strada la notte, vivere con chi certi posti li conosce da sempre e vivere quegli stessi posti in prima persona: questa è la vita del viaggiatore. Saramago non approva chi a fine giornata segna una croce sulla mappa, pensando “qui ci sono stato”; egli scrive: “viaggiare dovrebbe essere tutt’altro, fermarsi più a lungo e girare di meno”. Il viaggiatore inciampa in un sasso, si ferma, lo raccoglie e decide che quel sasso viaggerà con lui per sempre: “è il destino delle pietre, sempre nello stesso posto, a meno che non venga il pittore e se le porti via nel cuore”. Il viaggiatore sente la lontananza della patria quando è in viaggio esattamente come avverte quella dei luoghi da lui amati quando è a casa; Soldati scrive che “il primo grande viaggio crea nella mente una nuova categoria: la categoria della lontananza. Chi ha provato la lontananza difficilmente ne perde il gusto. Nasce in lui la nostalgia, ed è il desiderio di tornare, non solo in patria, ma dappertutto”. Dice lo stesso Ernesto Guevara nel film “I diari della motocicletta”: egli sente due grandi emozioni: la nostalgia di ciò che lascia, e l’eccitazione assoluta per il nuovo. Il viaggiatore ama la propria terra, perché ne è sufficientemente lontano per non esserne soffocato e per sentirne al tempo stesso la mancanza: “non ama il proprio paese chi non l’ha abbandonato almeno una volta”, come viene detto in “America primo amore”. Non sempre però, perché non sempre Ulisse torna a casa: talvolta il vento seduce il viaggiatore al punto che egli desidera divenire vento lui stesso. È incantevole e terrificante al tempo stesso il ritratto che fa Magris dell’Ulisse dantesco: “Sempre più incerto appare il ritorno a se stessi; l’Ulisse odierno non assomiglia a quello omerico o joyciano, che alla fine ritorna a casa, bensì piuttosto a quello dantesco che si perde nell’illimitato”. C’è chi sceglie il continuo divenire, il non tornare mai a lidi già esplorati, a ciò che si è già stati, “il viaggio coincide con la vita”, come scrive Torodov, e come prima di lui ha fatto Kerouac. Si può viaggiare anche negli occhi della gente, come scrive Affinati, e come fa Novecento, il protagonista dell’omonimo libro di Baricco, che altro non conosce che l’oceano, ma che negli occhi dei passeggeri vede Parigi, le passeggiate che vi si fanno al tramonto, il vento che soffia in un angolo particolare della città, senza esserci mai stato. “Per la stessa ragione del viaggio… viaggiare.”