Il Fabraterno 2007/01


Per Leopardi momento di gioia fuggevole e ingannevole

Il sabato del Villaggio

Oggi bollettino di guerra del giorno dopo


di Enza Sperduti

Chi ormai lontano dai banchi di scuola non precipita con questi versi in un vortice di dolci ricordi mentre tra sé e sé canta quelli successivi, che non ha più dimenticato? Perché di un Canto si tratta, le cui note danzano a un ritmo semplice e soave e si fissano per sempre nella memoria. Giacomo Leopardi, il poeta amato da generazioni di studenti, il filosofo di professione come lui stesso si definì, nel Sabato del villaggio fa la rappresentazione incantata di un sabato sera in un borgo rurale. Ci presenta la giovane contadinella che torna dalla campagna con un mazzolino di rose e di viole con cui si ornerà l’indomani, giorno di festa. La vecchierella che fila di fronte agli ultimi raggi del sole e rievoca con le vicine la lontana gioventù. I fanciulli che giocano festosi nella piccola piazza. E il contadino che fischietta mentre rientra dal lavoro rallegrandosi al pensiero dell’imminente riposo. E quando intorno si spengono le luci e biancheggia solo la luna e tutto tace (ed è lecito pensare che sia molto presto, al contrario di oggi), si ode il martello, si ode la sega dell’artigiano che si affretta a terminare il lavoro prima dell’alba. Tutti contenti, nella vigilia della festa. A tanta amorosa contemplazione Leopardi fa seguire l’immancabile amara conclusione: la vita deluderà ogni dolce aspettativa dell’uomo e annegherà nel tedio tutte le sue speranze. Noi non vogliamo seguirlo fino in fondo. Anche ai tempi della scuola non indugiavamo troppo sul pessimismo di Leopardi: garzoncelli scherzosi, ne avevamo compassione ma non potevamo capirlo. Ci fermiamo invece alla parte descrittiva a rallegrante, e ne cogliamo non solo il riflesso gentile di gioie semplici, addirittura ingenue, ma anche quello di una povertà antica e accettata. La donzelletta è una fanciulla che gode di poco perché poco conosce e poco le è concesso: il suo orizzonte è quello che fu della madre, della nonna, e che sarà della figlia; non studierà, non viaggerà, non andrà al di là della sua casa e della sua campagna. La vecchierella del villaggio forse non è poi così vecchia, anagraficamente; e una sua coetanea oggi non vive solo di ricordi ma lavora, legge, viaggia. E lo zappatore, dove trova la forza di fischiettare dopo essersi rotto la schiena sulla zappa e aver consumato tutto il suo fiato? e sapendo che lo aspetta una parca mensa, poi. E infatti nessuno ha voglia di tornare indietro anche se il passato sa rivestirsi di una magia che cancella i difetti e ingigantisce le virtù. Ma il nostro sabato del villaggio, dopo quasi due secoli di progresso, è migliore di quello di Leopardi? Onestamente, possiamo rispondere solo con altri interrogativi. Perché i nostri giovani che hanno tante più opportunità della donzelletta, che sono più istruiti, più ricchi, più liberi di lei, irresponsabilmente si bruciano alla vigilia del dì di festa con alcol, droga e altri eccessi? Le vecchierelle, che la medicina rende più sane e longeve e le cure più giovani, perché vogliono confondersi con le figlie stravolgendosi il volto con la chirurgia plastica e il corpo con abbigliamenti ridicoli? I ragazzi che hanno perduto la piazza, ostaggio delle auto in sosta e del traffico, perché l’hanno sostituita con la televisione e i videogames, rifiutandosi al mondo reale? E il contadino, che le macchine agricole hanno affrancato da una fatica durissima, perché offende la terra con la chimica mentre aspetta il giorno del meritato riposo? Se il nostro sabato del villaggio è illuminato da rutilanti luci al neon e non dai raggi della luna, se è confortato da opportunità e comodità un tempo inimmaginabili, esso ci presenta un prezzo altissimo. Ma se c’è un luogo (o un tempo?) immediato e fatale in cui la donzelletta ci trasporta non appena si affaccia alla nostra memoria, questo è la scuola dove la incontrammo e ce ne innamorammo, mentre con passo danzante appariva dai campi tra erbe e fiori. Il nostro trasporto per lei è quello per la scuola di allora, vecchia e polverosa, ma severa e autorevole, dove gli studenti temevano gli insegnanti e non viceversa; dove i più recalcitranti ogni mattina pentiti e convinti giuravano il falso a se stessi: mai più impreparati; dove il genitore andava rispettosamente a informarsi sul rendimento del figlio e se risultava insufficiente, specie nella condotta (che poteva spedirti a settembre in tutte le materie), i conti non si facevano sul posto col preside o l’insegnante, ma a casa a tu per tu col manigoldo. Era una scuola non esente da difetti, un po’ classista un po’ nozionistica, ma perfettibile, credevamo, e aspettavamo che migliorasse. Invece piano piano, anzi nemmeno tanto piano, l’abbiamo vista evaporare, svilirsi nella forma e nei contenuti. Anch’essa ha pagato un prezzo troppo alto, invece che più demointerviste cratica e pensante è ora candidata alla bancarotta. Ma non volevamo essere troppo leopardiani. Ci sono ancora insegnanti che lavorano con professionalità e passione e studenti che lavorano con interesse, impegno e senso di responsabilità. Speriamo che non si stanchino.

Enza Sperduti