Il Fabraterno 2007/01


Io non ho più niente


di Gabriella Schiara

Ieri sera eravamo in sei attorno al tavolo di un piccolo e accogliente ristorante, ma, a chi ci avesse osservato dal di fuori, saremmo sembrati forse una strana compagnia. Oltre a me e a una mia cara amica, Michelle, operatrice di casa famiglia, c’erano quattro ragazzi afgani. Li avevo già conosciuti, un giorno di questa caldissima estate, sulla spiaggia; Michelle mi aveva parlato del loro arrivo e, quando li ho visti, ho capito che erano loro. Circondati dall’allegra confusione di un popolo vacanziero, essi erano seduti sotto l’ombrellone e, mentre li salutavo, mi chiedevo cosa stessero pensando di ciò che li circondava. La stessa domanda me la sono posta ieri sera mentre li guardavo parlare, ridere e sedersi per la prima volta al tavolo di un ristorante. Ve li voglio presentare: Imran, 17 anni, Arif, 17 anni, Mehdi, 16 anni e mezzo, Reza, 16 anni. Pochi anni e tanto dolore vissuto e subito. Comincio a fare qualche domanda, ma il loro turbamento e il mio pudore c’impediscono di andare oltre e, per il resto della serata, parleremo di scuola, ragazze e sogni. È Michelle che il giorno dopo mi parlerà di loro con amore e sensibilità. La loro storia è quella di un Paese martoriato da guerra e dittatura, per loro rappresentata dal crudele regime dei talebani. Chi ha letto “Il cacciatore di aquiloni” si accorgerà che ognuno di loro potrebbe chiamarsi Amir o Hassan. È Michelle che mi porterà le testimonianze raccolte dai ragazzi in inglese e da lei tradotte. Non le è stato facile rendere le interruzioni, lo sgomento, il dolore ancora vivo, il racconto del lungo peregrinare dopo aver abbandonato, ancora bambini, le loro case e i loro affetti più cari. Non è facile per lei spiegare quanto rispetto, quanti valori e principi abbiano questi ragazzi, quanto sia melodiosa la voce di Arif, quanto grande il desiderio di studiare di Imran, quanto intensa la luce negli occhi di Mehdi quando parla della sua mamma, quanto siano tristi gli occhi di Reza che non sa più niente dei suoi famigliari. Sono costretta a riassumere i racconti, ma vorrei che pensiate a loro che parlano… “Mi chiamo Imran ed ho 17 anni. Vivevo in un piccolo paese che si chiama Pullkhamri. Mio padre Jaffar era il capo molto benvoluto del paese, ma i talebani lo invitarono a lasciare l’incarico, minacciando di uccidere non solo lui, ma tutta la famiglia. Egli non voleva ed essi uccisero mio fratello maggiore e la mia sorellina più piccola. Aquesto punto mio padre decise di farci fuggire in Pakistan. Non rividi più mio padre e seppi in seguito che era stato ucciso per vendicare la morte del figlio di un capo talebano. Rimaniamo soli e non capisco più il senso della mia vita. Dopo tre anni in Pakistan, andai in Iran per altri due anni e qui lavorai tanto. Costretto ad andare via da qui, stanco e solo sono arrivato in Italia. Vorrei vivere per sempre qui dove mi sento capito e accolto. “ “Il mio nome è Nisar ed ho 16 anni. Un giorno, quando avevo 10 anni, tornando a casa da scuola, non trovai più nessuno e pensai di essere stato abbandonato. Più tardi capii che non era così e non ho saputo più niente della mia famiglia. I talebani avevano già ucciso i miei due fratelli e poi hanno preso me obbligandomi ad andare nella loro scuola; io non volevo, ma non avevo scelta, mi avrebbero ucciso. Per fortuna dopo due mesi mio zio mi mandò in Iran con suo figlio, dove ho vissuto per sei anni e dove ho lavorato facendo borse prima e mattonelle dopo. Un giorno mi fu detto che il presidente dell’Iran aveva ordinato a tutti gli afgani di tornare nel proprio paese. Io non volevo e così iniziò il mio viaggio verso l’Europa: prima la Turchia, dopo la Grecia e infine l’Italia viaggiando sempre su barche, camion e anche a nuoto. Roma ed ora Ceccano dove spero di poter restare. Io non ho più niente. Grazie.” “Io mi chiamo Arif ed ho 17 anni. Vengo dalla città di Ghazni. Mio padre è morto in guerra quando ero piccolo e la mia vita in Afghanistan è stata molto dura. Ho due fratelli e una sorella e vivevamo nel pericolo. Per questo fuggimmo in Pakistan con mia madre. Lei lavorava perché io ero troppo piccolo per farlo. Quando sono cresciuto un pò, sono andato in Iran per lavorare e lì sono rimasto a lavorare il marmo per quattro anni, finchè non ci costringono a lasciare il Paese. Decido di venire in Europa e pago un uomo con tutti i miei risparmi per fuggire su un camion. Arrivo in Italia ed è qui che voglio restare perché la gente qui è buona”. Ed infine Reza, il più timido, il più sofferente. Non ha saputo o forse voluto raccontare molto di sé. ”Non so più niente” e, se si prova ad indagare un pò di più, china la testa e le spalle. Eppure, aggiunge Michelle, tanto dolore non ha intaccato la loro bontà e la loro fiducia. Domani per loro inizierà il Ramadan ed essi, nonostante tutto, pregheranno.