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Umberto Lucentini (Palermo)

Il Libro "I Ragazzi di Paolo" > Palermo

La testimonianza di Umberto
Non è stato facile, lo confesso, tornare in certe stanze dopo la strage di via D'Amelio. Troppi ricordi, troppe nostalgie in quei luoghi. Parlo dell'ufficio della Procura di Marsala, dove ho conosciuto Borsellino, io giornalista alle prime armi, lui già affermato e rispettato magistrato. O della stanza in procura aPalermo, al secondo piano del palazzo di giustizia, dove ha lavorato come procuratore aggiunto occupandosi in prevalenza della mafia di Trapani ed Agrigento e iniziando, col suo lavoro, delicatissime inchieste su massoneria e politica. Già, non è stato facile tornare nella sala dove si tenevano le conferenze stampa, in cui venivano resi noti i retroscena delle inchieste antimafia condotte dal pool di giudici e investigatori coordinati da Borsellino. E nei commissariati, nelle caserme, dove per anni sono andato a raccogliere notizie, certo che al primo, importante blitz, avrei incontrato "il mio procuratore", corso a complimentarsi con i tanti poliziotti o carabinieri sconosciuti che avevano lavorato a quell'indagine.Scherzando, ma con un fondo di serietà, lo chiamavo "il mio procuratore". E anche se dopo la strage di via D'Amelio non ho pronunciato più quella frase - "come sta oggi il mio procuratore?"- non ho mai smesso di ringraziare il destino che mi ha permesso di conoscere un personaggio come lui. Non ne ero consapevole prima di via D'Amelio, l'ho capito solo dopo la strage: ogni uomo - giornalista, giudice, carabiniere, avvocato, prete, medico o che altro- deve avere la fortuna di conoscere il "suo procuratore". Un uomo che ama il suo lavoro, che crede in quello che fa, che affronta sacrifici, ingiustizie, falsità, perché non sopporta le ingiustizie e le falsità. Borsellino, prima di via D'Amelio, dopo via D'Amelio, mi ha insegnato questo: a volte basta un solo uomo, un solo giudice, ad aprire la strada a chi deciderà di seguirlo. Lo ricordo bene, lo ha fatto con me una mattina di novembre. Avevo scritto un'inchiesta sulla mafia del Trapanese, e sulla mia segreteria telefonica di casa, a Palermo, ho trovato due messaggi di minacce. Era la prima volta, ho avuto paura, la prima volta è "prima" per tutti. Gli ho portato la cassetta, l'ha ascoltata, s'è incupito. "Non è uno scherzo, ma le intimidazioni fanno parte del vivere e lavorare in Sicilia". E mi ha detto, schietto, immediato com'era suo carattere, che avevo solo due strade: "Smettere o andare avanti". Se queste parole fossero uscite dalla bocca di un pavido, di un prudente fino all'eccesso, chissà, forse avrei chiuso lì la mia esperienza di giornalista che scrive di mafia. Ma dette da Borsellino, come potevo non andare avanti? Anni dopo, tre anni dopo via D'Amelio, ho parlato con fatica, con emozione, dei miei ricordi legati a Borsellino e del libro scritto sulla vita del giudice. Era una delle prime volte, ero in una scuola media, a Marsala. "Chissà quanto servirà raccontare la vita di Borsellino a questi ragazzi...", mi chiedevo. Poi, a incontro finito, ho saputo da una professoressa che uno degli studenti che aveva letto il libro era di famiglia povera ma onesta di un sobborgo di Marsala. E le aveva detto: "Professoressa, ho letto che Borsellino ha fatto tanti sacrifici per diventare giudice. So che non era un giovane ricco, che la sua famiglia aveva sopportato disagi per farlo studiare. Allora, professoressa, anch'io, un giorno, potrò diventare come Borsellino?".



- Io oggi Voglio Vivere Libero - Aggiornato il 30 set 2008 - | ragazzi-di-paolo@libero.it

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