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Vittorio Teresi (Palermo)

Il Libro "I Ragazzi di Paolo" > Palermo

La testimonianza di Vittorio
Ho conosciuto Paolo nel 1980, quando, finito il servizio militare che mi ha fatto ritardare di un anno l’inizio della mia carriera di magistrato, ho svolto il periodo di tirocinio presso gli uffici giudiziari di Palermo. All’epoca esisteva ancora l’Ufficio Istruzione (quello glorioso di Falcone, Borsellino e Chinnici per intenderci), ed il mio magistrato affidatario era Giovanni Falcone. Ricordo che erano già iniziate le prime imponenti indagini in processi di mafia, e proprio Giovanni e Paolo erano i titolari dei più importanti processi. Non si era ancora formalmente costituito il “pool”, ma loro due lavoravano già a stretto contatto, anche perché le indagini erano particolarmente complesse e necessitavano di un continuo scambio di idee ed esperienze. La principale attività consisteva nel controllo dei passaggi di centinaia di assegni, che erano stati sequestrati e nelle verifiche presso istituti bancari, da cui trarre le prove dei contatti e dei rapporti economici tra soggetti sospettati di fare parte della organizzazione mafiosa. Tanto più grande era il loro lavoro, se si pensa che all’epoca non esisteva ancora nel nostro codice il delitto di associazione mafiosa e non c’era traccia di collaboratori di giustizia che fornissero notizie dall’interno dell’organizzazione. Si può dire che la potenza e la pericolosa diffusione del fenomeno mafioso era, all’epoca, soltanto percepita dagli addetti ai lavori, da pochi e coraggiosi magistrati e da altrettanto pochi e valenti poliziotti. Quando la percezione della reale potenza del nemico che si aveva di fronte, iniziò a prendere le forme di fatti penalmente provabili in giudizio, Giovanni, Paolo e lo stesso Consigliere Chinnici, iniziarono una attiva opera di informazione e diffusione, mentre, sul piano giudiziario, continuarono a scavare in quella nuova e indefinibile realtà degli intrecci mafiosi. In quel periodo i contatti tra i colleghi erano demandati soltanto alla spontaneità ed all’affiatamento personale, non era ancora stata istituzionalizzata alcuna forma di collaborazione all’interno dell’ufficio, e ricordo che ogni giorno Giovanni e Paolo si ritagliavano qualche ora per vedersi e scambiarsi notizie, informazioni, impressioni. Stavano gettando le prime, concrete basi per quel lavoro di gruppo che Chinnici volle con coraggio formalizzare, mediante un sistema di assegnazione degli affari penali a diversi magistrati del proprio ufficio, che non era previsto dal codice, ma che neppure era vietato.
Giovanni appariva sempre molto serio e raramente si lasciava andare a battute ed a momenti di scherzosi rilassamenti, anche se qualche volta usava battutine, banali, e non sempre percettibili dal suo interlocutore (che quindi ai suoi occhi faceva la figura dello scemo). Paolo, invece era più gioviale, sempre pronto alla battuta, anche se a quei tempi io provavo una certa soggezione, dovuta alla mia giovane età ed alla condizione di “allievo” che doveva seguire grandi maestri.
Successivamente sono stato assegnato alla Procura della Repubblica di Termini Imerese come sostituto rimanendovi sino al mese di aprile del 1987.
Se rileggiamo le cronache di quegli anni, ci rendiamo conto che si trattò di una stagione tristissima e fitta di avvenimenti gravi che hanno mutato il corso della storia del nostro paese. Basta ricordare il lungo elenco dei c.d. delitti eccellenti, l’uccisione del Presidente della Regione Mattarella, di Reina, di La Torre, del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, successivamente la strage Chinnici, l’eccidio di Via Carini in cui vennero trucidati il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con la moglie e l’agente di scorta, poi ancora nel 1985, l’uccisione del Capo della Squadra Mobile Ninni Cassarà, del Dr. Montana, capo della sezione catturandi, l’uccisione del capitano dei Carabinieri Basile e del Capitano D’Aleo. Eventi che ricordo non in ordine di tempo, che hanno segnato per sempre la mia vita di cittadino e di magistrato. Nello stesso arco di tempo vennero approvate, finalmente, le leggi per una efficace lotta contro la mafia, il pacchetto di norme ideato e proposto dall’Onorevole Pio La Torre, che porta ancora il suo nome, con l’introduzione del delitto di associazione mafiosa, con le nuove misure patrimoniali. Fu anche il tempo delle polemiche sottili e laceranti, il “pool” di Falcone e Borsellino si doveva fermare ad ogni costo, invece l’arrivo a Palermo, come Consigliere Istruttore di Nino Caponnetto, che prese il posto del Consigliere Chinnici, diede nuovo impulso alle indagini ed un entusiasmo nuovo al lavoro difficile e pericoloso di quei giudici coraggiosi e tenaci. All’interno ed all’esterno del palazzo di giustizia si respirava un’aria di tensione e paura, certamente la stragrande maggioranza della gente (di ogni ceto e professione), temeva che venissero svelati gli inconfessabili rapporti con la mafia, che finalmente potesse essere messo allo scoperto il sistema mafioso, e non soltanto l’ala militare dell’organizzazione criminale, si temeva che la gente potesse prendere coscienza del fatto che intere fasce sociali, fino ad allora ritenute “perbene” potessero invece essere pesantemente coinvolte in un sistema di tolleranza e di condivisione della mentalità e delle metodologie della mafia.
Per fortuna in quel periodo si segna anche l’inizio del fenomeno della collaborazione di giustizia dei mafiosi, inizia a parlare Tommaso Buscetta, è il terremoto, sembra che il mondo criminale, incrostato in secoli di torbidi intrecci e cointeressenze inconfessabili, possa cadere con un tonfo, da un momento all’altro. La classe politica inizia a vacillare, nel panico che le pesanti connivenze possano finalmente venire alla luce.
Inizia il Maxi processo, a fronte di una società sospettosa e succube inizia ad affacciarsi una società partecipe, che fa il tifo per i giudici, che denuncia le connivenze, che finalmente prende coscienza della realtà paludosa della mafia, e spera nel riscatto e nella fine del giogo.
I numerosi ergastoli irrogati nel dicembre del 1987, con la sentenza di primo grado del maxi processo, appaiono come il segnale definitivo della svolta, sembra terminato il periodo delle facili assoluzioni per insufficienza di prove, che negli anni passati avevano sempre rinforzato e legittimato il potere mafioso.
Io torno a Palermo, quando già negli ultimi periodi a Termini mi ero imbattuto nella realtà mafiosa, le famiglie di Cosa Nostra della zona di Caccamo, le pressioni su di me esercitate, al fine di “alleggerire” la posizione di alcuni componenti di quelle cosche. Anche a Termini Imerese arrivò il primo “pentito”, e quindi fui in grado di capire, con orrore, la potenza e la diffusione del fenomeno, che estendeva il proprio controllo criminale ed il proprio dominio monopolistico, su tutte le attività imprenditoriali della zona. Non ci poteva essere concorrenza libera nel mercato del lavoro, nessuna impresa poteva partecipare a gare di appalto con la speranza di riuscire, con le sole proprie forze, ad affermarsi ed aggiudicarsi un lavoro, per quanto piccolo; Cosa Nostra controllava tutto, si accaparrava i lavori e li distribuiva alle imprese “amiche”, agli altri non veniva lasciato nulla.
La rilettura delle cronache del tempo diranno anche dei momenti politicamente esaltanti, la stagione della fine dei sindaci collusi, fu la speranza di un riscatto totale e di una vittoria definitiva.
La stagione successiva fu la stagione della delusione, delle speranza perdute e del timore del ritorno al passato. In appello il maxi processo venne fortemente ridimensionato, quanto meno nella sua principale impostazione logica.
Le laceranti polemiche della successione a Caponnetto, alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo e la designazione del Consigliere Meli, furono un altro sinistro segnale dell’aria di “normalizzazione” che si respirava. Le forze predominanti della politica, di gran parte della società civile, di molti magistrati e di tanti altri, riuscirono a creare un clima ostile intorno a quei giudici e più in generale intorno a tutti coloro che avevano sperato in una azione ormai inarrestabile di riscatto. Ma fortunatamente la strada era stata ormai segnata, solo pochi di noi capirono che si poteva ancora lottare, che vi erano ancora spazi di manovra e che non tutto il lavoro precedente era stato inutile. Un segnale di grande valore fu quello dell’esito del Maxi processo in Cassazione, la Corte, stravolgendo la sentenza di secondo grado, riconobbe la bontà delle tesi della sentenza di primo grado, rese definitivi gli ergastoli contro i mafiosi, sancì definitivamente l’esistenza della mafia come potere criminale, la sua natura unitaria e verticistica, la sua implicita forza intimidatrice. Sembrò la vittoria! Ma anche per Cosa Nostra, quella sentenza segnò un punto di non ritorno. Venne inaugurata la stagione delle stragi, il primo segnale fu l’omicidio di Salvo Lima, da sempre il garante della tolleranza politica verso la mafia ed il punto di snodo tra il potere criminale in Sicilia e le stanze della politica centrale.
Da questo momento ricordiamo tutti come si snodarono i successivi eventi, 23 maggio 1992 - 19 luglio 1992.
Giovanni Falcone era andato via da Palermo, il sistema non gli consentiva più spazi di manovra, la sua breve stagione di Procuratore della Repubblica Aggiunto a Palermo era stata irta di delusioni ed ostacoli.
Paolo Borsellino era da poco arrivato a Palermo, anche lui come Procuratore della Repubblica Aggiunto, relegato ad occuparsi solo della mafia della provincia di Agrigento; era stata costituita la Direzione Distrettuale Antimafia, che aveva competenza per tutti i fatti di mafia della Sicilia occidentale (Palermo, Trapani Agrigento), uno strumento che doveva essere utilizzato al meglio per coordinare in modo unitario e coerente le investigazioni per il contrasto a quella organizzazione che dell’unitarietà aveva fatto il suo punto di forza. Invece le norme vennero applicate in modo strumentale, per costringere Paolo in un angolo angusto, senza consentirgli una conoscenza diretta ed immediata dei rilevantissimi sviluppi che in quei mesi le indagini antimafia su Palermo, andavano prendendo.
E’ questo il periodo, breve ma intensissimo, in cui sono stato più vicino a Paolo Borsellino, la difficile stagione della Procura opaca, che avrebbe potuto produrre enormi risultati se si fosse avvalsa appieno della esperienza di Borsellino, ma che appariva frenata e lacerata, a causa di una dirigenza, che ritardava, frenava, ostacolava Paolo e lo teneva all’oscuro dei fatti maggiormente significativi, la stessa dirigenza che aveva mortificato la professionalità di Giovanni Falcone.
Potete dunque immaginare fino a che punto la sera del 19 luglio 1992, mi sentissi sconfitto, colpito a mia volta dalla potenza politica di quella bomba, svuotato. Ho sempre avuto l’incrollabile certezza, fin dai primissimi minuti, della esistenza dei c.d. “mandanti esterni”, ho anche sperato , nei periodi successivi, che si potesse arrivare ad individuarli, oggi temo invece che essi non saranno mai trovati, o comunque mai processati.
Le vicende successive, dal 1993 al 1999, hanno segnato un’altra stagione esaltante, siamo riemersi dal fondo del baratro, in nome dei caduti e grazie all’insostituibile stimolo ed esempio di Gian Carlo Caselli, ci siamo ricompattati, abbiamo ricominciato a macinare lavoro, abbiamo ottenuto, in pochi anni, risultati che non esito a definire straordinari. Di nuovo la gente ha creduto in noi, ed ha sperato che finalmente potesse arrivare il riscatto, che si potesse riaffermare la dignità dell’uomo libero dal sistema criminale. Non sono mancati gli attacchi ed i detrattori, le accuse più volgari di politicizzazione e di strumentalizzazione a fini personali dell’attività giudiziaria, siamo riusciti a superare anche questi attacchi………………….
Le vicende di questi ultimi periodi, mi colgono spesso in atteggiamenti preoccupati e rinunciatari, percepisco dentro e fuori di me un senso diffuso di rassegnazione e stanchezza, che certo non aiuta a proseguire nella strada tracciata dai nostri maestri.
Per grandi linee le condizioni generali mi appaiono le seguenti:
Le vicende politiche generali appaiono lontane anni luce dai tempi di massima tensione verso i problemi del contrasto alla criminalità organizzata ed ai grandi poteri criminali. Si vuole far apparire come risolti o comunque fortemente ridimensionati tali poteri, e si tende a ristabilire una sorta di restaurazione nel segno dell’esasperato garantismo. Come se l’epoca dei grandi processi e delle stragi sia stata soltanto una drammatica parentesi di emergenza ormai superata e risolta con l’arresto di alcuni latitanti storici.
Le riforme legislative, in tema di giustizia e di contrasto alle mafie, sembrano volte unicamente alla soluzione dei problemi (spesso presunti) delle garanzie degli imputati e non mostrano analoga attenzione per i diritti delle vittime, per la sicurezza dei cittadini e per la soluzione definitiva del vero problema che è quello dei controlli di legalità in ogni settore della pubblica amministrazione, della giustizia, dell’economia, della finanza, del lavoro, dei servizi.
Accuso una invincibile voglia di cambiare lavoro, forse perché intanto qualcuno ha operato una scelta precisa: è stato deciso che è meglio sfruttare le forze fresche e i nuovi entusiasmi dei giovani, piuttosto che continuare a sfruttare le conoscenze e le esperienze maturate dai “vecchi”. Io faccio ormai parte della schiera dei “vecchi”, quindi mi sento tra i “riservisti”, credo che sia più dignitoso trovare un posto da “effettivo” altrove.
Sono stato un “ragazzo di Paolo” solo per poco tempo, con lui in vita. Lo sono rimasto per sempre dopo la sua morte.
Vittorio Teresi



- Io oggi Voglio Vivere Libero - Aggiornato il 30 set 2008 - | ragazzi-di-paolo@libero.it

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