Viaggio nella memoria

 

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Cap-9   Un po' di incoscienza

 

Ma se i nostri insegnanti erano seri e impegnati, altrettanto non si poteva dire di noi: le sfilate, gli slogan, gli inni, ci avevano tolto quello spirito, quelle capacità e volontà di apprendere che avevamo prima; eravamo stanchi, frastornati, come svuotati, portati alla leggerezza incosciente degli scherzi, più che all’impegno scolastico. Quell’anno ne combinammo di tutti i colori, rischiando grosso. L’insegnante di religione, don Simeone, aveva l’abitudine di salire sulla pedana della cattedra, farci recitare un’Ave Maria e lasciarsi andare pesantemente sulla sedia in paglia di Vienna che stava alle sue spalle. Chi sa come, a qualcuno di noi venne l’idea che sarebbe stato divertente infilargli un pennino in quei forellini della paglia e vedere la sua reazione. Non avrebbe poi sentito tanto male con tutto quel lardo che si portava dietro, nel posteriore. Il divertimento non ci fu, don Simeone non batté ciglio, solo un impercettibile scatto come se volesse rialzarsi: finì all’ospedale con un’infezione alle natiche. Interrogatori, minacce di sospensione, di 7 in condotta (con 7 in condotta si veniva rimandati a settembre in tutte le materie); ma inaspettatamente proprio lui, la vittima, salvò i suoi carnefici: non si poteva provare che quel pennino l’avessimo messo noi, poteva anche essersi infilato per caso durante le pulizie. Non so se qualcuno ci ha creduto, comunque tutto fu messo a tacere e il caso fu chiuso. Quanto a noi, ci guardammo bene dal ritornare sull’episodio. Chiedere scusa ? sarebbe stato ammettere la nostra colpevolezza. Ci bastava esserne usciti. Tralascio le numerose assenze in massa, tutta la classe al completo, mai puniti anche se le nostre giustificazioni erano, a dir poco, ridicole: "ci eravamo riuniti per studiare tutti insieme" e il preside, prof. Domenico Orlando (siculo) le accettava. Ad avvalorarle, c’era sulla giustificazione mia e della mia compagna Argia, la firma di "Suor Teresita Scarselli", così ben imitata che forse solo una perizia calligrafica avrebbe potuto scoprire il falso. Sospettavamo che ci fosse anche un altro motivo: era nostro capo–classe (era d’obbligo un capo–classe, eletto, assai poco democraticamente dal preside) Tullio Chiarioni , "penisolano", il più bravo della classe, studiosissimo, sempre preparato, sapeva sempre tutto, di una intelligenza mostruosa; in compenso madre natura gli era stata tutt’altro che benigna: magro, anzi secco, lentigginoso, curvo, con occhiali dalle lenti spessissime, non avrebbe aiutato i compagni in un compito in classe, neppure con la tortura; il preside frequentava la sua famiglia, quindi eravamo convinti che fosse "‘spion ", anche perché era costretto a partecipare alle nostre scappatelle: al mattino, presto, Vuka (Vukasina) e Turi (Foretic) lo aspettavano dietro l’angolo della sua casa, e tranquillamente, come se tutto fosse normale, lo portavano dove noi eravamo in attesa. Reagire fisicamente non era in grado di farlo, verbalmente non serviva a niente. Se il preside avesse preso dei provvedimenti, avrebbe dovuto coinvolgere anche lui, escludendolo sarebbe stato gettarlo nelle fauci dei leoni, così l’abbiamo sempre fatta franca. Ricordo un altro episodio avvenuto il primo maggio di quell’anno, 1938: il giorno precedente aveva avuto luogo al campo sportivo l’annuale saggio ginnico – sportivo; in tribuna c’erano tutte le autorità locali e qualche pezzo grosso venuto da Roma. Squadre maschili e femminili si alternavano in esercizi di gruppo (clave, cerchi, moschetto) e individuali (salti, lanci, anelli). Alla fine le squadre si ricomponevano in tre settori, davanti le ragazze, dietro i ragazzi. Al suono degli inni nazionali, alcune staffette passavano tra le file distribuendo un fazzoletto colorato, bianco al centro, rosso e verde ai lati, a noi il rosso. Ritiratesi le staffette nei propri ranghi, mentre la banda suonava la Marcia Reale (oggi sostituita dall’inno di Mameli), i tre settori sventolavano i loro fazzoletti. Nel mio settore, oltre a noi ragazze del classico, poche per la verità, erano schierati anche tutti i nostri compagni. Finita la manifestazione, sfilavamo marciando davanti alla tribuna per salutare le autorità con il consueto "attenti a …..sinist" (o dest), dato dai capi – gruppo, diretti all’uscita dallo stadio, dove erano stati messi degli scatoloni nei quali avremmo dovuto depositare i fazzoletti. La solita voce anonima sparse il "diktat": No ghe li demo, doman li portemo a scola"! E il giorno dopo in classe quei piccoli drappi rossi fecero un gran casino passando di banco in banco, appallottolati e lanciati da un capo all’altro dell’aula. Il prof. di scienze, Callestani si limitò a urlarci ripetutamente e inutilmente di farla finita. La facemmo finita all’ingresso del prof. di religione, legandoci il fazzoletto intorno al collo. Che spettacolo doveva essere ! un’intera classe, tutti con un bel fazzoletto rosso al collo! Ma a don Simeone, al quale forse le natiche erano ancora doloranti, non piacque e ci mise nei guai: era il primo maggio, festa internazionale dei lavoratori, bandita dal Fascismo, così come la bandiera rossa simbolo del socialismo e del comunismo. Noi, nella nostra ignoranza, ignoravamo tutto ciò, ma il prete no, in storia era più ferrato di noi pare, e certamente vinto da un poco cristiano desiderio di vendetta, fece rapporto al preside esigendo che ne fosse informato il Ministero. Vennero due ispettori da Roma, fummo sottoposti ad uno ad uno, a interrogatori di terzo grado, volevano sapere vita, morte, miracoli dei nostri genitori. Meno male che mio padre era a Firenze, sarebbe stato capace di mettersi a cantare "quando bandiera rossa se cantava…". Ma anche quella volta dopo tanto chiasso, non successe nulla, fu considerata una ragazzata, e lo era veramente; molta paura, ma quando tutto finì, quasi quasi eravamo orgogliosi di aver creato tanto putiferio e di esser stati presi per sovversivi. Per quanto mi concerne personalmente, sono convinta abbia avuto buon gioco il fatto che, durante l’interrogatorio, dissi che dall’estate precedente, ero segretaria del Fascio di Serpiolle. L’episodio non suscitò alcuna reazione nei nostri insegnanti, solo il prof. Pescani, insegnante di latino e greco, ci disse che avevamo dato prova di incoscienza e di immaturità. Il prof. Pescani era l’unico che ci metteva soggezione per la sua intransigenza, l’unico che non ci dava confidenza. Zaratino puro sangue, venne da noi in prima liceo, nell’ottobre del’35, fresco di laurea ottenuta alla "Normale" di Pisa, come vincitore di concorso. Cominciò a torchiarci, pretendeva che parlassimo in latino, ci interrogava in latino e in latino dovevamo rispondere: "Dic mihi, quaeso, quid apud Vergilium heri legisti ?" E noi ci sforzavamo di ripetere quel riassuntino che ci eravamo preparato, prendendo qua e là qualche parola, qualche frase del testo. Succedeva che a volte, da principio piuttosto spesso, sparassimo delle bestialità: "O mi bone Deus !" esclamava tra il divertito e lo scandalizzato "quid est hoc ? Monstrum, monstrum!" Dapprima era uno strazio, poi diventò quasi un divertimento: finimmo per conversare tra noi in un latino talmente maccheronico che quello del "Baldus" di Teofilo Folengo, appariva quasi classico. Ci faceva fare i compiti in classe senza vocabolario, e passi per il latino, ma per il greco era una battaglia persa in partenza. Ricordo un compito in classe; Parlava di Diogene, letto e riletto non riuscivo a capire niente, andavo alla disperata ricerca di quegli episodi noti su quel filosofo, ma i discorsi non tornavano. C’era un "heimònos", genitivo di tempo certamente, e il significato? Ne ricordavo uno solo "pioggia" Beh, chiaro, no! Venne fuori che "mentre pioveva, Diogene costruiva statue coperte di neve". Il commento, ricordo, fu micidiale: "Cose dell’altro mondo! Ma la logica, non hai pensato alla logica? Diogene era strano, cinico, irriverente, ma tu lo fai diventare completamente deficiente". E andava ripetendo a mezza voce: "ma come si fa a pensare che si possano costruire statue coperte di neve, e poi mentre piove ! che bestialità!" Comunque i "monstrum" scappavano anche ai miei compagni. Un po’ alla volta diventammo dei latinisti e dei grecisti non disprezzabili. In 3° liceo, Orazio: odi, epodi e satire; che soddisfazione leggerlo, tradurlo, riassumerlo, recitarlo a memoria; anche oggi, dopo sessant’anni, ricordo intere odi a memoria.

E giunse anche il 15 giugno del’38, ultimo giorno di scuola, due settimane di tempo per studiare, ripassare, riprendere almeno un po’ del tempo perduto. Ora l’esame di maturità ci spaventava, eppure la nostra vita di studenti era fatta tutta di esami, ma questo era decisivo per il nostro futuro. Come sembravano lontani i primi anni di ginnasio col prof. Cettineo, il biennio con la prof.ssa Carlotta Bizzi! Quanti scherzi le abbiamo combinato ! le abbiamo messo un topo nel cassetto della cattedra, le abbiamo riempito la classe di "moscondori" (gazzillori ?); le abbiamo dedicato un inno, il nostro inno che cantavamo nelle passeggiate scolastiche, a squarciagola. Ricordo ancora il ritornello: "Zia Carlotta ardita e fiera al sapere ci conduce; il suo naso è una bandiera (vero !), la sua scienza è nostra luce". Arrivammo al 1° luglio stanchi, sfiniti, esauriti. Ci aspettavano quattro compiti scritti uno dietro l’altro, italiano (senza vocabolario), dal latino, in latino (senza vocabolario)e compito di greco (senza vocabolario). Al quinto giorno avevano inizio gli orali. Eravamo 17, ci interrogarono tutti in due giorni e il 7 luglio, nel pomeriggio, erano esposti i risultati; tutti maturi, un solo respinto. Il compito di italiano era impostato sul Mazzini, non ricordo il titolo né che cosa si richiedesse nello svolgimento. Ricordo però un particolare, uno di quegli episodi che non si possono cancellare dalla memoria: dovevo scrivere la parola "umiliazione". Tanti anni di studio non erano stati sufficienti a liberarmi dalle incertezze della lingua italiana scritta, spesso diversa dalla nostra pronuncia dialettale. Dubbi, incertezze mi prendevano con le parole di uso meno comune, e quella "umiliazione" non dovevo proprio averla mai scritta. Così, senza poterla controllare sul vocabolario, mi fidai del mio orecchio e una "g" prima della "l" mi suonava così bene che ce la infilai. La mattina seguente mi si avvicinò il prof. Carlo Battisti, presidente della commissione e, con un sorriso, chi sa se di compassione o ironia, : "signorina Belli, disse, come si scrive " umiliazione "? Lo sapevo come si scriveva, appena rientrata in collegio ero andata subito a controllare sul vocabolario, e speravo che la segnassero come errore e basta. Rossa come un pomodoro maturo, non avevo giustificazioni da addurre, "Lo so, ho sbagliato, dissi". "Eh, voi veneti mezzi croati, aggiunse, con l’italiano non andate proprio d’accordo. Mi sarei aspettato, magari, una doppia "l" ma la "g" è stata proprio una sorpresa !". Lo ritrovai a Firenze alla facoltà di lettere, insegnava glottologia romanza. Andai a salutarlo, "Professore, si ricorda di me?", azzardai; mi guardò socchiudendo gli occhi, come se volesse mettere a fuoco il ricordo: " Ricordarla ? Certo, bellissima città Zara; ma non dimentichi, anche là "umiliazione" non vuol saperne della "g". Non avrei seguite le sue lezioni, mi ero iscritta a lettere classiche e avrei studiato glottologia classica con il prof. Giacomo Devoto. Battisti nel 1951, mi pare, avrebbe interpretato splendidamente il personaggio di " Umberto D " nell’omonimo film diretto da Vittorio De Sica.

Avevo superato la maturità con la media di 8/10, potevo iscrivermi all’università senza gravare sulla famiglia. Mio padre venne a Zara per portarmi a casa con tutta la roba che mi era servita per tanti anni di collegio. Ci imbarcammo sulla m/n "Stamura" che faceva servizio giornaliero da Zara ad Ancona, con partenza alle 22 e arrivo alle 5.30, e ritorno Ancona – Zara con partenza alle 10 e arrivo alle 17.30. Avevo già fatto quel tragitto notturno un paio di volte per raggiungere Firenze. Ad Ancona prendevo il treno per Bologna e qui per Firenze. In genere però preferivo il viaggio più lungo passando da Venezia sia all’andata che al ritorno. Ho già ricordato il motivo: restavo qualche giorno di meno con la mia matrigna, la Rika. Lasciai Zara in lacrime, lasciavo il mio mondo, la mia gente, per una città dove mi sentivo estranea, spaesata. In quelle brevi estati trascorse a Firenze avrei potuto fare delle amicizie, ma bastava che aprissi bocca, per sentirmi dire: "ma te, tu’n sei miha fiorentina! O di dove tu vieni ?" "Da Zara". "Da Zaraaa! O in dove l’è ?" Mi sentivo, ed ero, diversa dalle altre ragazze; erano tutte eleganti, truccate, briose. Cominciai a frequentare il campo sportivo della "Giglio Rosso" sul viale dei Colli e la palestra di Piazza Beccaria, avevo ripresa la mia attività di segretaria al fascio di Serpiolle. A poco a poco le cose cambiarono in meglio: da Serpiolle ci si trasferì in via del Ponte di Mezzo, in un appartamento più grande, visto che c’ero anch’io. Ora si trattava di affrontare l’argomento università, quale facoltà? Quando espressi il desiderio di iscrivermi a scienze politiche: "Ti xe mata ? per far cossa dopo? Ti devi far medicina e specialisarte in ostetricia. Co quei dei longhi e sechi che ti ga, ostrega che brava che ti saria." Ostrega che non volevo fare l’ostetrica! "E mi te mando a lavorar!" Sarei andata a Orvieto, alla Accademia femminile di Educazione Fisica. Nemmeno per sogno! "E mi te meto in fabrica!" Poi l’idea brillante: visto che i voti migliori li avevo avuti in latino e in greco, dovevo iscrivermi a lettere classiche. "O letere clasiche, o ti va a lavorar!" La prospettiva di aver studiato per tanti anni, e poi rinunciare all’università, mi deprimeva, l’ultimo giorno valido per l’iscrizione, feci come voleva mio padre, mio signore e padrone. Avevo obbedito, e questa prepotenza non mi andava giù. Mi consolavo pensando che avrei potuto fare come il prof. Pescani, tornare a Zara come insegnante, dopo la laurea; la guerra mandò al diavolo anche questo mio progetto.

Alla facoltà di lettere c’erano molte ragazze, pochi ragazzi, era proprio una facoltà da donne ! Cominciai a seguire le lezioni di storia romana col prof. Giulio Giannelli e di filosofia col prof. Lamanna; la prima perché mi piaceva l’argomento, la seconda guerra punica; l’altra perché non vedevo l’ora di levarmela, visto che di filosofia, nonostante tanta buona volontà e impegno, non avevo mai capito nulla. Rimanemmo tutto l’anno sulla seconda guerra punica, ne imparammo di particolari ! Se Annibale avesse dato un nome ai suoi elefanti, avremmo imparato anche quelli. Ma Aristotele e Kant, con le loro "categorie" erano tutt’altra cosa. Mi preparai all’esame, il prof. Lamanna, coadiuvato dal suo assistente prof. Lantrua, mi buttò fuori con un voto da deficiente, 13/30. In compenso ottenni 30/30 col prof. Giannelli: dopo l’umiliazione subita in filosofia, una iniezione di coraggio ci voleva proprio. E non sapevo che cosa mi aspettava: ripresentatami nella sessione di febbraio, il professore Lamanna mi ributtò fuori un’altra volta , ma è un episodio tutto da dimenticare . Avevo seguito le lezioni di storia assiduamente, avevo riempito di appunti, disegni di schieramenti, schemi di battaglie, due grossi quaderni; quei quaderni determinarono il mio destino, il mio futuro, tutta la mia vita. C’era un ragazzo che avevo già intravisto al campo della "Giglio Rosso". Un giorno mi fermò, e senza preamboli, mi chiese di prestargli i miei appunti, aveva notato che scrivevo continuamente. Si chiamava Giuseppe Del Grande; non era male, fisico atletico, sembrava simpatico: "Ma te t’ho visto al campo, facevi i lanci". "Anch’io ti ho visto al campo, correvi, saltavi gli ostacoli". Cominciammo a uscire insieme dalla facoltà, lo accompagnavo fino alla stazione ferroviaria, abitava a Ponte a Signa, lì prendevo il tram che mi portava a casa, ma spesso procedevo a piedi, perché non avevo i 50 centesimi per procurarmi il biglietto. Feci subito l’iscrizione al G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) per l’attività atletica: in questo modo il G.U.F. mi pagava il 50% delle tasse universitarie e potevo usufruire della sessione straordinaria degli esami, che aveva luogo in febbraio; era riservata a pochi e per particolari meriti: attività sportive e culturali, quindi partecipazione ai Littoriali della cultura e dello sport; per me contava anche come punto di merito l’esser segretaria di Fascio. Così arrivai tranquillamente alla laurea, senza richiedere sacrifici alla famiglia.

Quel ragazzo era veramente in gamba, mi dava consigli sui piani di studio, sugli esami da scegliere, su come prepararli. Conosceva la biblioteca Nazionale, la Marucelliana, quella di facoltà. Con lui non mi sentivo più fuori luogo, il mio italiano andava migliorando, usavo espressioni più corrette; qualche accento si ostinava ancora ad andare proprio dove non era il suo posto, e continuava feroce la mia lotta con le consonanti doppie, battaglia persa, visto che anche oggi, dopo sessanta anni di vita in Toscana, non riesco ancora a pronunciarle. In quel ragazzo avevo trovato un amico prezioso, mi sembrava di essere ritornata a Zara, dove l’amicizia tra uomo e donna non veniva criticata e non dava adito a maligni pettegolezzi. Ma mi sbagliavo: un giorno, uscendo dalla facoltà, sentii un vociare indirizzato a noi: "pane, pane", ridendo mi spiegò che a Firenze la parola "pane" e l’espressione "far farina" avevano un significato ben preciso. La cosa non mi piacque, soprattutto il significato di quelle espressioni; decisi di allontanarmi da quell’amico, e cominciai a evitarlo sistematicamente: Firenze non era Zara. Durante l’estate ci perdemmo di vista; io trascorsi quaranta giorni a Montepiano come vigilatrice di colonia. Ci ritrovammo a novembre, all’inizio del secondo anno di università, riallacciammo l’amicizia interrotta. A dicembre, soprattutto durante le vacanze di Natale, ci incontravamo in biblioteca, spesso studiavamo insieme. Fissammo di ritrovarci la vigilia di Natale per farci gli auguri, in realtà aveva un suo programma preciso, e doveva averlo in testa da parecchio tempo. Mi fece un discorso di questo tenore: da un anno uscivo con lui, fumavo le sue sigarette (mi aveva iniziata a questo vizio), mi facevo pagare il tram, il cinema perché non avevo mai un soldo in tasca; i suoi amici credevano che fossi la sua ragazza e non sapevano che, se solo mi toccava un braccio, scattavo come se fossi punta da uno scorpione. Ora si era stancato, mi voleva bene seriamente; quindi, dopo Natale, o gli dicevo "sì", o mi levavo dai piedi. Fu il Natale più tormentato e tormentoso della mia vita: il tono perentorio del suo discorso mi aveva dato fastidio, avrei voluto mandarlo al diavolo, nello stesso tempo c’era una forza che mi impediva di farlo: ero come una naufraga: in fondo all’orizzonte vedevo una terra, la mia terra che volevo raggiungere ad ogni costo con le mie forze. Appariva una barca, qualcuno mi tendeva una mano per salvarmi, e io mi ostinavo a rifiutarla. Come amico mi andava a pennello, ma a lui l’amicizia non bastava. Dove mi avrebbe portata quella barca ? Se gli avessi detto "sì" e poi l’avessi piantato per tornarmene a Zara ? e se fosse stato lui a mollarmi? Si fa presto a dire "ti amo, ti voglio bene", sono parole e basta. Decisi di dirgli "sì" ma ad una condizione: se non avesse funzionato, ognuno per la sua strada senza rancore, senza rimpianti. Era il 27 dicembre 1939, avevo 20 anni, lui 21! Quel giorno per la prima volta andammo sul viale dei Colli senza fermarci al campetto della "Giglio Rosso". Alla sera mio padre, ritornato dalla Manifattura, mi riempì di botte urlando che voleva sapere chi era "quel bischero in occhiali" con il quale ero stata sul Lungarno. Qualcuno mi aveva vista e glielo aveva riferito in buona fede, o la Rika mi aveva seguita per spiare (e riferire) dove andavo in un giorno in cui l’università era chiusa ? E meno male che non ero stata vista sul viale dei Colli, meta di coppiette, mi avrebbe ammazzata. Ai miei tempi si viveva così: il medioevo era lontano ma per la donna, moglie o figlia che fosse, il padre, il marito, era sempre padrone. Beppe, così lo chiamavano gli amici, volle venire subito a parlare con mio padre, che, prima non lo voleva vedere, poi lo accolse con l’intento di minacciarlo e intimorirlo, poi…si calmò e divennero amici, mentre la Rika si lamentava che "quell’ostriga" fosse sempre tra i piedi. Mio padre dunque nutriva per lui stima e affetto, ma non lo riteneva l’uomo giusto per me. Diceva che, se fossimo arrivati al matrimonio, la nostra vita sarebbe stata un po’ troppo movimentata; erano diversi i nostri caratteri e nello stesso tempo con non pochi lati in comune che ci avrebbero senza dubbio portati a scontri feroci. Vide giusto, la nostra vita fu tutta una continua competizione, a cominciare dagli esami universitari; mentre prima l’amicizia ci univa, ora l’amore ci metteva in continui contrasti. Dopo il mio "sì", divenne autoritario, a volte prepotente, e in quei casi nessuno dei due cedeva, perché non voleva essere da meno dell’altro. Volevo laurearmi entro i termini prescritti dalla legge (4 anni) per accelerare i tempi di una mia definitiva decisione. Lasciai la segreteria di Serpiolle per dedicarmi tutta allo studio. Ricordo con amarezza la reazione della dottoressa Tronci e del segretario della sezione maschile del fascio di Serpiolle: rinunciavo a una carriera politica iniziata sotto i migliori auspici, nel Fascio avevo un futuro brillante; non c’entrava per caso quel ragazzo? chi era? cosa faceva? perché non ci ripensavo? Fui irremovibile con grande soddisfazione di Beppe. Chiesi subito al prof. Giannelli l’argomento della tesi di laurea, (L’ordine equestre dai Gracchi a Crasso) e mi misi subito al lavoro. Intanto tra me e Beppe non mancavano i motivi per una rottura: era geloso, mi tormentava continuamente, voleva sapere tutto della mia vita a Zara e non credeva a quello che gli dicevo, dovevo vestirmi come voleva lui, non potevo parlare con nessuno, era arrivato al punto di proibirmi di andare al cinema con i miei. Eppure, eppure, nonostante tutto, ero innamorata di lui: la ragione mi suggeriva di mollarlo, il cuore si ribellava e, quasi per dispetto, me lo faceva diventare sempre più necessario, come l’aria che respiravo. Più tardi mi allontanò anche dall’attività sportiva, per il semplicistico motivo che non avevo alcuna necessità di mettermi in mostra. Una rinuncia questa che mi costò molta sofferenza. Avevo incominciato a praticare l’atletica fin dai tempi del liceo, ero adatta al lancio del giavellotto, mi allenavo seguita dalla mia insegnante di Educazione fisica, Anita Crociani. A Zara ero qualcuno, come giavellottista, arrivata in Italia ero quasi nessuno, non riuscivo mai a classificarmi se non tra le prime sei, ma regolarmente sesta! Troppo poco per me: a Firenze mi allenava l’astista Danilo Innocenti, che aveva fiducia di portarmi a buoni livelli. Il mondo dell’atletica era sano allora. Si raggiungevano i risultati, i primati, con le doti fisiche che ci aveva fornito madre natura e con l’allenamento, un allenamento costante che richiedeva sacrifici e rinunce. Altro che anabolizzanti e doping! Il materiale usato era ben diverso da quello di oggi: Innocenti, primatista del salto con l’asta, usava il regolamentare attrezzo di bambù, i saltatori non cadevano su un soffice materasso, ma in una buca piena di sabbia, i velocisti non avevano i blocchi di partenza: si recavano in pista con la paletta e si scavavano le buchette. Tra gli amici di Beppe, oltre a Danilo, c’era Angiolino Profeti, campione pesista, Arturo Maffei, campione europeo di salto in lungo. Beppe era campione nei 400 metri a ostacoli, medaglia d’oro ai Littoriali di Torino, ottenuta il 24/5/’40. (Il giorno seguente, mi recavo all’università, dalla Gazzetta dello Sport appresi la notizia; corsi all’ufficio postale e gli inviai il famoso telegramma dei tre "B": Bravo, Baci, Bruna). E altri, molti altri che sognavano un record che non avrebbero mai raggiunto. Noi ragazze non avevamo una società di appartenenza, gareggiavamo con la G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) e/o con il G.U.F. Alla G.I.L. facevano capo giovani, di tutte le scuole, impiegate e operaie. Nel G.U.F. eravamo quattro gatte; io, la Minervini e la Francalancia, velociste, Fernanda Maffei, sorella di Arturo, mia carissima amica. Le squadre del Nord-Italia, invece, erano organizzate anche in campo femminile, e i buoni risultati generalmente venivano proprio da quelle. Aveva ragione De Coubertin, importante non è vincere, ma partecipare. La vittoria ti riempie di felicità, di commozione, di orgoglio, la stampa ti elogia, ti porta alle stelle; ma domani capiterà uno più bravo di te, più giovane e la tua vittoria sarà ricordata solo come la misura o il tempo battuti da altri. Il tuo nome un giorno farà sì parte della storia dello sport, ma i risultati recenti relegheranno quasi nell’oblio quel tuo risultato di un passato ormai lontano. Ma quello che tu hai provato, partecipando, non lo dimenticherai mai; si conoscono giovani di altre regioni, di altri stati, di altri continenti, nascono simpatie, amicizie. Si scoprono linguaggi, tradizioni, culture diverse, spesso affascinanti. Io non ho mai avuto la possibilità di partecipare a campionati internazionali, ma anche gareggiando solo in Italia, ho scoperto tanti aspetti nuovi, e diversi da regione a regione. Sono venuta a contatto con giovani del Nord e del Sud, ho conosciuto formidabili atlete come Ondina Valla, bolognese, di alcuni anni più anziana di me, mostro sacro dell’atletica femminile in Italia e nel mondo. Aveva partecipato alla Olimpiade del ’36 svoltasi a Berlino alla presenza di Hitler, vincendo la corsa degli 80 metri a ostacoli (oggi sono equiparati a quelli degli uomini: 110 a ostacoli). Altra ostacolista era Claudia Testoni, bolognese pure lei; grande amica di Fernanda Maffei, mi aveva data la sua amicizia. Ho conosciuto Caldana, Mariani, Obervegher, campioni di allora, ho conosciuto Calvesi, antagonista di Beppe, da Beppe battuto nei Littoriali di Torino: entrò in finale, ma arrivò soltanto quarto, quindi escluso dal podio, a 2" 1 da Beppe ( tempo di Beppe 56"5, di Calvesi 58"6). Sarebbe diventato marito di una discobola di primo ordine, zaratina, Gabre Gabric', oggi suocera dell’ostacolista Edy Ottoz e nonna di due giovani atleti di questi tempi, Lorain e… non mi ricordo il nome di suo fratello. E perché non ricordare quel nostro compagno? Ottavio Missoni, passato alla storia dell’atletica come un fenomeno, bravissimo, bellissimo, ma che a me personalmente non stava proprio simpatico . Tutti giovani famosi o destinati a diventarlo se la seconda guerra mondiale non avesse impedito lo svolgimento dell’Olimpiade del ’40, alla quale non pochi di noi, e Beppe tra i primi, erano destinati a partecipare. A guerra finita, qualcuno di noi provò a ritornare in pista o in pedana e ci riuscì, ma per molti di noi il sogno di gloria rimase nel cassetto dei sogni inappagati. Dovetti rinunciare a questo mondo e con esso alle mie amicizie, Beppe era intransigente: lui e basta. E io cedevo, era riuscito a dominarmi senza che io mi ribellassi; bambina mi ero ribellata a mio padre, poi avevo fatto impazzire le suore in collegio, e con lui non riuscivo a reagire. Mia sorella rideva di me, mio padre era quasi preoccupato, la Rika, sorniona stava zitta. Prima di legarmi a Beppe, poiché la Rika mi faceva pesare il fatto che io non contribuissi alle finanze della famiglia, decisi di dare lezioni private. La nostra casa era vicina al panificio militare, vi alloggiavano molti ufficiali e sottufficiali con le famiglie; in breve divenni l’insegnante privata dei loro figli. Prendevo 3 lire e 50 centesimi all’ora, ma non avevo mai un soldo a disposizione: la Rika segnava tutte le lezioni e, quando riscuotevo, non le sfuggiva neppure un centesimo. In seguito trovai un posto di insegnante all’istituto privato "Lenardon" in via dell’Oriolo. Credevo di aver risolto il mio problema, ma l’ambiente era impossibile: mal sopportavo l’autorità della direttrice , intransigente con gli insegnanti e di manica troppo larga con gli alunni , che , del resto, non avevano nessuna voglia di seguire le lezioni,; ero pagata una miseria, 7 lire all’ora, lorde, orari impossibili, anche dopo cena. Finii per licenziarmi dopo qualche mese e, una volta tanto papà fu d’accordo con me.

Era il 1940. Il mondo era scosso da venti di guerra; in Oriente il Giappone, profondamente rinnovato nella sua economia, era entrato a far parte delle grandi potenze; le sue mire espansionistiche si allargavano a scapito dell’impero Cinese ormai in completa disgregazione. In Europa, la Germania, che, dopo la sconfitta subita nella guerra ’14/’18, il trattato di Versailles avrebbe dovuto rendere impotente, aveva rialzato la testa e, sotto la guida del partito nazionalsocialista e del suo capo, Hitler, forte della dottrina dello "spazio vitale", nel 1936 aveva incominciato ad occupare sistematicamente tutte le regioni del defunto impero austro-ungarico: Austria, Cecoslovacchia, Polonia venivano invase; a questo punto Francia e Gran Bretagna dichiararono la guerra, ma da sole non riuscirono a frenare le truppe tedesche che si spingevano vittoriose in Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, Belgio e nella stessa Francia. Il Giappone intanto attaccava a tradimento gli Stati Uniti a Pearl Harbor, costringendoli a entrare nel conflitto. Da quelli che si potrebbero definire conflitti regionali, la guerra era diventata mondiale. Solo l’America Meridionale e l’Africa Australe non ne furono coinvolte direttamente. E l’Italia? Per certi aspetti di una politica comune, nel ’36 si era unita alla Germania con l’"Asse Roma-Berlino", nata dall’incontro di Hitler con Ciano, che, tre anni più tardi, portò alla conclusione dell’alleanza italo-germanica; con essa le parti si impegnavano a prestarsi aiuto immediato nel caso che l’una o l’altra si fosse trovata in guerra; l’Italia però, militarmente non preparata, si riservò il diritto di non intervenire per un periodo di tre anni. Ma il 10 giugno 1940 Mussolini, nonostante i tentativi di dissuaderlo fatti dal presidente degli U.S.A. Roosevelt e anche da parte del papa Pio XII, entrava in guerra a fianco della Germania, convinto che il conflitto fosse ormai deciso e che dalla situazione potesse trarre vantaggi. Gli altoparlanti di tutta Italia trasmisero il discorso del Duce che informava gli Italiani della guerra ormai dichiarata. Affacciato allo storico balcone di Palazzo Venezia, al popolo che ne gremiva la piazza, chiedeva con la sua voce dal timbro metallico: "Popolo d’Italia, la volete voi la guerra?" E l’urlo compatto: "Siiiiiiiiii! Du-ce, Du-ce; Du-ce!" E mio padre: "Eco ’l popolo bue! I italiani i xe stai ben solo co i ga avudo ’l giogo sul colo! Ste teste de c …! Mi so cossa xe una guera, e vuialtri ve ne acorxerè co sentirè ’lcaldo dele bombe soto ’l culo che ve farà saltar le bale!" Per ora la guerra era lontana, si combatteva, i nostri soldati combattevano e morivano sui vari fronti, lontani dalla patria. Ma le conseguenze si fecero sentire comunque: i viveri, i beni di consumo vennero razionati; a tutti fu consegnata un "tessera annonaria", che consentiva il minimo necessario per mangiare e vestirci. Con essa si poteva ottenere solo un quantitativo fisso di generi alimentari. Chi poteva, si procurava il superfluo a mercato nero. Ricordo che allora capii e provai che cosa fosse la fame: avevamo a disposizione un panino per tutta la giornata e con quello bisognava far colazione, pranzo e cena. Non era facile distribuirlo, era soltanto un etto, per tre pasti; anzi, per me era talmente difficile che me lo mangiavo tutto al mattino, poi stavo a guardare con occhio famelico mio padre, mia sorella e la Rika che, più capaci di me, se lo gustavano anche a pranzo e a cena. A tutte le ore del giorno e della notte suonava la sirena dell’allarme per la presenza nei nostri cieli dei bombardieri nemici. Bisognava scappare nei rifugi antiaerei, anche se si sapeva che il bersaglio non eravamo ancora noi. Mio padre allergico al grigio-verde, fu inquadrato nelle squadre dell’U.N.P.A. (unità nazionale protezione antiaerea). Comunque la nostra vita scorreva abbastanza tranquilla. Io e Beppe continuavamo a frequentare l’Università, a sostenere esami, a preparare la tesi di laurea. Non so come funzionasse allora il servizio militare di leva; ricordo che Beppe aveva fatto il "premilitare" con i Giovani Fascisti e che nel giugno del’41 (aveva 23 anni) partì per Pola (nell’Istria allora italiana) per un corso di tre mesi nei Bersaglieri come AUC (allievo ufficiale di complemento). Ritornò a casa alla fine di agosto con il grado di sottotenente e fu mandato a Castiglioncello, poi alla "scuola di guerra" di Civitavecchia, infine a Siena, alla caserma "Lamarmora". Alla domenica spesso veniva a casa dalla mattina alla sera; aveva la possibilità di sostenere gli esami, ma senza poter frequentare le lezioni. Ciononostante entrambi finimmo tutti gli esami entro il quarto anno. Io potei presentare la mia tesi di laurea, quanto a Beppe, il fatto di essere sotto le armi gli dava il diritto di discutere la sua tesi oralmente. Ci laureammo lo stesso giorno, il 26 giugno 1942, XX° E.F. (Era Fascista). ce l’avevamo fatta.

Quella sera ci fu festa a casa mia: il mio 107/110 aveva mandato mio padre al settimo cielo! Beppe rimase a cena. Nel bel mezzo dell’ennesimo brindisi ai "neo dottori", dichiarò che a settembre ci saremmo sposati. Io non ne sapevo niente, papà ancora meno, perciò la notizia fu accolta con una risata e attribuita alle abbondanti libagioni consumate dal suo autore. Ma il giorno seguente ritornò a casa mia e ribadì la volontà di convolare a giuste nozze. La guerra, disse, si faceva più lunga del previsto, l’Italia otteneva più insuccessi che successi; non sarebbe rimasto a lungo a Siena, un trasferimento per "destinazione ignota" in zona di operazioni poteva capitare all’improvviso. Prima voleva sposarmi. La data venne subito fissata: il mercoledì 23 settembre. Avevo tre mesi di tempo per i preparativi. Ero confusa, frastornata, non riuscivo a capire se dovevo essere contenta o no; papà era preoccupato, Lydia ridacchiava ironica, la Rika era la più felice: senza darsi da fare, le si presentava su un piatto d’argento la possibilità di liberarsi definitivamente di una figliastra troppo scomoda. Pensare ad un normale corredo, era follia; e non per la mancanza di tempo, ma perché con la tessera annonaria c’era poco da stare allegri; c’era, sì, un supplemento per i matrimoni, ma era una presa in giro. Ricordo che mettemmo insieme tre paia di lenzuoli con federe, che cercai inutilmente di ricamare: la stoffa, grezza, sembrava tela da sacchi; due tovaglie con sei tovaglioli, una coperta; una seconda coperta "Lane Rossi", che esiste e resiste ancora, mi giunse provvidenzialmente come regalo di nozze, non ricordo da parte di chi, forse da nonna Elena Petrocchi. Andò meglio con la biancheria intima, ma solo perché le zie di Venezia mi avevano regalato parecchi metri di seta "Venus" celeste e altrettanti di seta bianca. Con quelli mi confezionai e ricamai delle parures, camicia da notte, sottoveste (a quel tempo si portava), reggiseno e culottes (gli slip non esistevano). Il tutto, ben poca cosa per la verità, venne completato da un paio di scarpe, qualche gonna, qualche golfino, un cappotto; era deprimente. E l’abito da sposa? Se mai avessi sognato il tradizionale abito bianco, lungo, con il velo altrettanto lungo, sarebbe stato proprio il caso di rinunciare ai sogni. Oh! sì, la roba a mercato nero si trovava, a prezzi da strozzini, ma la mia coscienza si rifiutava di esigere sacrifici da parte di mio padre. Ricordo che mi regalò un impermeabile con la raccomandazione di non dir nulla alla Rika. Così, per la cerimonia, si ripiegò su un tailleur grigio chiaro con una sottilissima riga rossa, che confezionai io stessa, sandali con la zeppa (era la moda di allora, ritornata in voga oggi), un cappellino nero con veletta (usava), dono di nozze di Olghina, un’amica dei Del Grande che a Signa aveva, appunto, una fabbrica di cappelli. Il problema più grosso però erano i documenti, richiesti con urgenza: da Venezia mi giunsero l’atto di nascita e di battesimo, a Firenze mi procurai il certificato di stato libero, da Zara mi sarebbero dovuti giungere il certificato di cresima e quello di stato libero. Impossibile ottenerli: la città era distrutta dai bombardamenti dal mare, la popolazione moriva, comune e archivio diocesano non esistevano più. Questa era la situazione fino a pochi giorni prima di quel fatidico 23 settembre. Erano state spedite le partecipazioni (poche), erano pronte le bomboniere con i confetti (ancora meno), era stata fissata la cerimonia, ma ancora non erano state affisse le pubblicazioni. Non sapevo più cosa fare: Beppe era a Siena, mio padre e Lydia lavoravano tutto il giorno, la Rika era imbranata, non mi avrebbe dato nessun aiuto. Mi recai dal nostro parroco, don Facibeni, un sacerdote anziano, che già da vivo veniva considerato santo, per dirgli che il matrimonio "non s’avea da fare". Mi rimproverò per aver aspettato tanto prima di rivolgermi a lui: "Figliola, ma il diritto canonico lo conosci? (no, non lo conoscevo) C’è l’articolo 13 che rende possibile un matrimonio senza documenti, senza pubblicazioni "sub condicione" in casi particolari. Questo è uno di quelli, ma ci vuole il "nihil obstat" da parte dell’autorità superiore". L’autorità superiore in questione era il cardinale di Firenze S.E. Elia Della Costa. Scrisse una lettera da consegnargli personalmente, e il caso fu risolto. Il mio fu veramente un matrimonio di guerra, non solo per l’applicazione dell’articolo 13, ma per la sua povertà, e non credo di esagerare nell’usare questa espressione. Non avevamo nemmeno il denaro sufficiente per acquistare le fedi d’oro. Furono benedette due fedi di metallo che conservo ancora. Solo nel 1951, quando insegnavo al ginnasio di Chiusi, potei permettermi di sostituirle. Le feci benedire il giorno della prima comunione di Luisa. Io la porto ancora, Beppe l’ha perduta, non so in quale bosco, mentre raccoglieva terra per le sue piante. Dei parenti dello sposo presenti alla cerimonia, c’erano soltanto Vittoria e Guido, sorella e cognato, che fecero anche da testimoni. Non ricordo se c’era anche la Lilli, una mocciosa di 15 anni. Il padre, Umberto, non stava bene, la madre, Gemma, non aveva mai messo piede in casa mia, non conosceva mio padre, e, ferma in questo suo accanito proposito, non l’avrebbe mai conosciuto. Gli altri, sorelle, cognati, avevano tutti i loro impegni. Mio padre noleggiò una macchina che ci avrebbe portati tutti in chiesa, la mia parrocchia in via delle Panche, la chiesetta di santo Stefano in Pane. Beppe sarebbe arrivato da Signa in treno, il treno era in ritardo, io ero, non emozionata, ma tesa: stavo facendo un passo che avrebbe decisa tutta la mia esistenza, un passo non premeditato, non discusso, forse neppure vagheggiato, ma quasi imposto e accettato passivamente. Fu proprio mentre si aspettava l’arrivo dello sposo che ruppi la promessa fatta a nonna Savina, tanti anni prima, che non avrei mai più messo le mani addosso a mia sorella. Ho già ricordato che né mio padre, né Lydia ritenevano che Beppe fosse l’uomo giusto per me; ma mentre papà dal giorno della laurea non era più ritornato sull’argomento, Lydia continuava a stuzzicarmi, e, mentre quella mattina cercavo malamente di non palesare il mio stato d’animo, "Dai, " mi disse "ti xe ancora in tempo!" La reazione fu immediata e rabbiosa, le mollai uno schiaffo. Quello schiaffo, con l’aiuto della Rika, ci tenne separate fino a qualche anno fa, e sono stata io a cercarla. Quel mercoledì pioveva a dirotto, durante la notte un temporale in combutta con i miei pensieri, mi aveva impedito di dormire. Beppe arrivò in divisa da ufficiale dei Bersaglieri, avvolto nel mantello nero fuori ordinanza (doveva essere corto, ma il suo era lungo). Quando lo vidi apparire, la mia tensione si placò d’incanto.Andammo tutti in chiesa in quell’unica macchina che, per quanto grande, non ci impediva di essere pigiati come sardine in scatola. Officiò don Facibeni: alla domanda "vuoi tu etc." risposi "Sì" prima del tempo, e dovetti ripeterlo al momento giusto; mi ero distratta, mi era balzato alla memoria un fatto avvenuto quando frequentavo l’ultimo anno del liceo: una mattina, verso la fine dell’anno scolastico, decidemmo, tutti, (quante volte l’avevamo fatto e sempre impunemente) di non entrare in classe. Dopo aver girovagato un po’ sulle mura, ai giardini pubblici dei Cinque Pozzi, al parco Regina Elena, "sfavati" si direbbe oggi, decidemmo di andare a farci quattro risate dalla chiromante, l’unica esistente a Zara, con "studio" in Calle del Paradiso. Ci ricevette uno alla volta, dopo averci avvisati che, se eravamo lì solo per far casino, potevamo andarcene subito; lei lavorava, non scherzava. Arrivò il mio turno, spinta dentro a forza dai miei compagni. Non mi meravigliai che esordisse dicendo che io soffrivo per un particolare situazione della mia famiglia; a Zara la conoscevano tutti e che io ne soffrissi era umanamente pensabile. Il seguito, cioè quanto riguardava il mio futuro, mi lasciò perplessa, anche se mi ostinavo a ripetere che, tanto, non ci credevo: avrei lasciata Zara per non farvi più ritorno, presto avrei lasciata anche la mia famiglia, accanto a me vedeva un uomo con un lungo mantello nero, lo avrei sposato e avrei avuto quattro figli: mi aveva fatto chiudere a pugno la mano sinistra, sul lato esterno, alla base del mignolo, c’erano quattro pieghe, erano i miei figli. Avrei avuta una vita lunga, tormentata verso la fine da malanni gravi e da dispiaceri. Il particolare sul quale si concentrò l’attenzione dei miei compagni, era quel lungo mantello nero. Quante risate! Quanti personaggi tirati in ballo! Non ultimo il "passator cortese, re della strada, re della foresta". Mancarono i "quattro banditi armati fino ai denti che aspettavano la diligenza"; noi non li conoscevamo, non erano personaggi nostrani! Questo mi venne in mente mentre don Facibeni iniziava a chiedermi "vuoi tu …" E se quella chiromante avesse visto giusto? Dovevo io aspettarmi tutto quello che mi aveva predetto, che aveva letto nella mia mano? L’uomo avvolto nel lungo mantello nero era lì, accanto a me ! E oggi si sta avverando tutto quanto mi aveva pronosticato, tutto si è già avverato. Eppure io non credo, non ho mai creduto nella capacità, da troppi ciarlatani conclamata, di leggere il futuro, e sono convinta che ognuno di noi ha un suo destino al quale non si può sfuggire, e che "il futuro è l’ignoto". E allora? Solo coincidenze?



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