Viaggio nella memoria

 

cap1cap2cap3cap4cap5| cap6| cap7cap8cap9cap10cap11cap12cap14|

Home

Indice

 

Cap-13  Il dopoguerra, una vita difficile

 

Ancora molte pagine potrei riempire se volessi annotare tutto quanto seguì alla fine della guerra e al ritorno a una pseudo normalità, sotto certi aspetti, non facile da raggiungere. Eravamo sposati, avevamo una figlia, formavamo una famiglia che aveva bisogno di basi solide per andare avanti. Avevamo una laurea ma non era sufficiente, dovevamo uscire dagli "incarichi e supplenze", dovevamo entrare in ruolo e per raggiungerlo, era necessario affrontare i concorsi a cattedre; erano prove difficili per l’enorme mole dei programmi e per il mostruoso numero dei concorrenti: quelli bocciati nei concorsi d’anteguerra, quelli ai quali la guerra aveva impedito di parteciparvi, i laureati vecchi e nuovi. L’ultimo concorso era stato bandito nel ’43, con prova scritta a Firenze, nel mese di luglio, il 27 o 28, mi pare. Né io, né Beppe potemmo partecipare: lui era in Provenza con il 5° Rgt. Bersaglieri, in procinto di essere trasferito a Torino dopo i fatti del’25 (deposizione di Mussolini), io ero in avanzato stato di gravidanza e si era ritenuta inopportuna, anzi rischiosa, la mia partenza (Luisa infatti nacque il 30). Comunque dopo un più o meno lungo periodo di incarichi in varie scuole e in varie località, con notevoli disagi, i concorsi furono banditi e potemmo parteciparvi, ottenendo abilitazioni e riuscendo vincitori. Il primo a lasciare Lucca fu Beppe assegnato al ginnasio di Montepulciano (era l’anno scolastico ’49/50); io rimasi a Lucca alla scuola media di "Corte Portici ". L’anno seguente, ‘50/51, Beppe passò al ginnasio di Siena, io al ginnasio di Chiusi. Qui il 24 dicembre, vigilia di Natale, dopo una notte di lampi, tuoni, fulmini e pioggia a dirotto, alla mattina fra le 7 e le 8, nacque Elisa, subito chiamata Lisetta. Purtroppo potei allattarla con il mio latte solo una settimana: per una improvvisa mastite, fui costretta a passare all’allattamento con latte sempre della stessa mucca. Quando, dopo le vacanze di Natale, ripresi servizio, a lei pensava la padrona di casa, una persona d’oro, veramente. Lisetta cresceva bene, Luisella frequentava la II elementare. L’anno successivo, nel settembre del ’51 lasciammo definitivamente Lucca, trasferiti a Siena. Ottenemmo un appartamento nelle "Case INCIS" e vi trasportammo le nostre povere e poche cose da Lucca. Ma finalmente eravamo riuniti, avevamo la sicurezza del futuro e potevamo vivere in tutta tranquillità. Nel ’53 moriva nonna Savina e veniva inumata nel cimitero di Rifredi. Nel gennaio–febbraio del ’58 Beppe si permise la prima macchina, una 600 FIAT, colore carta da zucchero, con motore posteriore. Qualche cosa non funzionava: dovevamo portar sempre con noi dei fiaschi pieni d’acqua perché, dopo pochi chilometri, il motore cominciava a fumare: dovevamo scendere, aspettare che si raffreddasse e rimettere l’acqua. Nessuno ha mai capito da che cosa dipendesse! Fu la prima di una lunga serie di macchine di vario tipo e cilindrata. Il 6 ottobre dello steso anno nacque Angela; volli che le fosse imposto questo nome perché pochi mesi prima era scomparso, a soli 49 anni, stroncato dal solito male incurabile, il fratello maggiore di Beppe, Angelo: sopravvissuto a tante guerre, a tante battaglie, ai rigori della prigionia, prima a Nairobi in un campo inglese, poi in America, non ce l’ha fatta con quel male che non ha misericordia per nessuno. Al battesimo di Angela non venne sua nonna, nonna Gemma; era indignata perché avevo messo al mondo la terza femmina! A Beppe aveva detto: "Cosa te ne fai di una donna che ti riempie la casa di femmine!" Erano passati gli anni, ma la vita non l’aveva cambiata, era rimasta la stessa … L’8 luglio se ne andava anche papà. Dopo una breve parentesi al ginnasio di Massa Marittima (un anno) ottenni la cattedra al ginnasio di Siena, mentre Beppe la lasciava per darsi alla presidenza, con grande soddisfazione: il liceo scientifico di Colle Val d'Elsa è la sua creatura. Riuscimmo a lasciare l’appartamento dell’I.N.C.I.S. a San Prospero per trasferirci in questo, di nostra proprietà. Vi entrammo con la gioia di chi ha finalmente realizzato un sogno che sembrava impossibile, il 18 giugno 1961. Sembra una data storica! E per noi lo è sempre stata. Il 29 novembre di quell’anno avvenne nel condominio il primo evento felice: nacque Umberto. La serie delle femmine era chiusa, Beppe aveva assicurata la continuità della "stirpe" Del Grande, era l’unico in condizione di farlo e per me doveva essere un melodioso, ma forse più che melodioso, sonoro canto del cigno: avevo 43 anni! Con quattro figli, dovevo accontentarmi di essere una insegnante impegnata, senza velleità di carriera. Ero moglie e mamma. La vita non è certo stata avara di soddisfazioni con me: io mi sentivo soprattutto mamma e soffrivo quando non riuscivo, e non era facile, conciliare la scuola con la famiglia, dove oltre ai figli, esisteva anche un marito con diritti che non potevo trascurare. Ma proprio l’essere mamma mi ha dato la maggior ragione di vita. I miei figli: la gioia di metterli al mondo, di sentire il loro primo vagito; nove lunghi mesi di attesa passati chiedendosi "sarà maschio o femmina". Andare alla ricerca del nome, sempre in forma ipotetica, la preoccupazione che tutto andasse bene, ma soprattutto che loro, i miei bimbi, fossero sani, perfetti: Luisa, Elisa, Angela, Umberto. Ci saranno certamente figli migliori di loro, ma per me i migliori di tutti sono "i miei bimbi". Vederli crescere, seguirne gli studi, esaltarli per i loro successi, aiutarli nei loro interessi, preoccuparsi per i loro immancabili problemi, spesso non confidati, e perciò solo intuiti; avrei voluto non vederli mai ammalati, non avrei voluto vederli mai in lacrime. Ma spesso i casi della vita contrastano con quello che noi vorremmo. E poi il loro matrimonio: un misto di gioia nel supporli felici e di intimo dolore nel vederli andare per la loro strada, e la preoccupazione per quello che la vita avrebbe serbato loro in seguito. Scherzosamente si è sempre detto che avevo il complesso della chioccia, che avrei voluto tenere sempre i "miei pulcini" sotto le mie ali. E’ vero, è un complesso di cui soffro anche ora: a volte mi scopro a pensare a loro così intensamente, a sentire così profondamente la loro mancanza, che a stento freno un urlo: "Ridatemi i miei bimbi, voglio i miei bimbi!" E me li vedo tutti lì, in fila davanti a me, con i loro numerosi figli; sembra che sorridendo mi dicano: "Ma che vuoi di più, mamma! Guarda quanti siamo, non sei sola!".

No, non sono sola, ci sono i miei "bimbi", i miei nipoti , ma a tenermi compagnia ci sono anche i miei ricordi , ricordi, lontani e recenti, numerosi , perché la mia vita è stata vissuta intensamente . Nel giugno dell’ ’89 mio genero Antonio mi accompagnò in Jugoslavia; vi ritornavo dopo più di 50 anni: ero emozionata, quel viaggio per me era come un pellegrinaggio alla ricerca di ricordi smarriti:. Che cosa mi aspettavo ? Tutto e niente . Passammo la frontiera , man mano che si procedeva verso Rijeka (Fiume), la mia emozione aumentava ; percorremmo tutta la litoranea a mezza costa lungo le pendici del Velebit , da Prizna alla nostra destra oltre il canale della Morlacca , ci accompagnava il profilo dell’isola di Pag . L’ansia mi faceva tremare . A Jasenica voltammo a destra diretti a Zara , la mia Zara , diventata ormai Zadar. Passata Murvica , a qualche chilometro da Zara ci fermammo ad un distributore di benzina . Ci venne incontro un giovane sui 20 anni, lo salutai in croato , guardò la targa della macchina , ci rivolse la parola in dialetto zaratino : era dal ’59, dalla morte di mio padre , che non sentivo quell’idioma , né più avevo avuto occasione di usarlo . I suoi nonni erano italiani , ci disse, avevano optato per la cittadinanza croata , ma in casa parlavano ancora lo zaratino . Entrammo in città, vi entrai piena di entusiasmo . Mi guardavo intorno , respiravo quell’aria , godevo di quel sole , con gli occhi bevevo tutto quello che mi si presentava , come un assetato nel deserto che finalmente scopre una pozza d’acqua . Ci dirigemmo verso la " Fossa "attraverso Porta Terraferma; mi sembrava diversa , eppure era intatta : sopra il portale una volta era scolpito il leone di San Marco, ora non c’era più .Raggiungemmo la Riva Nuova, eccolo là il mio collegio , bello , maestoso , perfetto, come un tempo : trasformato in sede di studi universitari , facoltà di filosofia, mi sentii offesa : filosofia! Proprio la materia che avevo sempre odiato ! Ci accolse il centro, Calle Larga , Piazza dei Signori con la Loggia del Comune e la Loggia della Gran Guardia con la torre del Campanile : anche qui mi colpì lo stesso particolare , il leone di San Marco era stato rimosso ; la stupidità dell’uomo non può capire che ogni vestigia di civiltà è patrimonio comune del genere umano . La mia scuola ? non c’era più, distrutta . La mia casa ? inesistente, nella zona si ergevano costruzioni nuove ; nessuno parlava italiano, qualcuno masticava un po’ di zaratino . Mi si strinse il cuore , quella città non era più mia . Speravo che almeno a Pag fosse rimasto qualche cosa a ricordarmi il passato . Troppi anni erano trascorsi perché io potessi ancora trovare tutto come l’avevo lasciato . La miniera non esisteva più, Kolane era cambiata , Luka Simun mutata anch’essa : scomparsa la macchia mediterranea , le nostre baracche di legno erano state sostituite da poche casette in muratura : qualche cosa era rimasto le rovine di quel pontile a cui attraccavano le imbarcazioni per caricare il carbone, e il mare , quel mare di un azzurro ineguagliabile : sentii la voce di mio padre che mi gridava : " Nua , mona …" (nuota, scema), mentre io , piccola , mi dibattevo per restare a galla . L a piena dei ricordi ebbe il sopravvento e venne finalmente il pianto, lacrime cocenti . Ci imbarcammo a Novalja e ritornammo sul continente . Costeggiammo tutta l’Istria . a Novigrad (Cittanova) ebbi una gradita sorpresa : in un piccolo ristorante , ad un tavolo vicino al nostro . alcuni giovani parlavano croato , ma come intercalare , usavano un’espressione che , lungi dall’esser blasfema per me in quel momento era solamente zaratina, era veneta , era italiana :" dio can ", poco , ma era pur qualche cosa ! Man mano che ci si avvicinava a Trieste , la parlata era slovena , e si sentiva spesso parlare in triestino . Dopo Koper , (Capodistria) , ripassammo la frontiera . Quello che mi lasciavo alle spalle era come una casa che, in mia assenza , era stata invasa da estranei , da barbari che l’avevano saccheggiata . Mi avevano tolto tutto , ma i ricordi , quelli erano sempre stati dentro di me e nessuno avrebbe mai potuto portarmeli via e farne scempio

cap1cap2cap3cap4cap5| cap6| cap7cap8cap9cap10cap11cap12cap14|