Viaggio nella memoria

 

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Cap-2  Kolane, ancora...

 

Non ci mancava proprio niente: c’era l’orto, il frutteto, il grano, il granturco, la vigna; la caccia ci offriva abbondante selvaggina, il mare era a due passi, ricco di pesce che papà catturava con la bilancia, le nasse, la fiocina; nei fossi c’erano le rane (che divertimento andare di notte a catturarle con la lampada a carburo !); nel vasto recinto le capre, le pecore che la nonna tutte le sere mungeva: un latte cremoso, saporito, che diventava ottimo formaggio, burro, ricotta; le tosava, trattava la lana, la scardassava, la filava, con i ferri o con l’uncinetto ne faceva indumenti per l’inverno, calze, giacche, gonnelle, abitini, maglioni, berretti, guanti che tingeva con il Super Iride. Purtroppo con quella lana ci confezionava anche le maglie per sotto, le camiciole che, finché non erano state lavate molte volte, erano un vero tormento, sembrava di indossare una grattugia. Inutile era lamentarsi e protestare, non c’era niente da fare: "Dai, mona, che xe question de poco; dopo ti ghe fa l’abitudine e no ti senti più gnente. Quante storie per un poco de spissa (prurito)". E bisognava grattarsi finché la "spissa" se ne andava o diventava un’abitudine.

Uscendo di casa, girando sul lato destro, si raggiungeva un vasto cortile rettangolare, che si stendeva lungo tutto il lato posteriore della casa. Vi si aprivano vari ambienti, il pollaio, la stalla di Ax, e quella di un ciuchino: animale di razza inferiore, non aveva nome, era semplicemente "l musso" (il somaro), ma poiché in croato somaro si dice "magarac", per la nonna era "l magarasso". C’era anche il castrino per i maiali che papà andava a comperare a Obrovac, una località sulle pendici meridionali della catena del Velebit, lambita dal fiume Zermanja. Oltre alle galline razzolavano anatre, oche, tacchini. Ricordo le galline, numerosissime, e un solo gallo; non so come, la nonna le conosceva tutte, riusciva anche a contarle: la rossetta, la ssota (zoppa), l’orba (la cieca), la nerina, la grigeta… All’alba, con il grembiule pieno di granturco (kukuruz), le metteva in libertà: "coche.. coche.."e quelle correvano, e si ingozzavano, si becchettavano; man mano che uscivano dal cancello, la nonna afferrava quelle che poteva e con molta delicatezza infilava il dito mignolo nell’ano di ciascuna, per sentire se c’era l’uovo; quel mignolo così solerte aveva un nome "l ministro dell’interno"; così si sapeva all’incirca quante uova si sarebbero raccolte nella giornata. Per questa operazione, che può sembrare strana, il motivo c’era: non tutte le galline, soprattutto le più giovani, ritornavano al pollaio a deporre l’uovo, alcune lo deponevano dove capitava, tra i sassi o nelle siepi e spesso il falco, il "sokol" si mangiava l’uovo e si portava via anche la gallina. A questo proposito mi torna in mente un’altra delle espressioni "croato –dialettal – venete" di nonna Savina: il termine gallina in croato suona "kokoš " (s = sc, come in scimmia) e forse per lei era più facile e più etimologicamente "corretto" chiamarlo "l cocossaro". Più di una volta è anche successo che una gallina non facesse ritorno al pollaio e fosse quindi ritenuta preda del cocossaro. Ma all’improvviso, dopo qualche settimana, ce la vedevamo ricomparire seguita da una variopinta, pigolante nidiata; non solo si era salvata dal rapace, ma aveva deposte le uova, chissà dove, le aveva covate e, quando tutte si erano schiuse, era tornata a casa. Noi bambine facevamo festa: "Mama, nona, la xe tornada, la ga anca i pulesini !".

In questo itinerario a ritroso della memoria, si affollano ricordi difficilmente collocabili nel tempo: mi assalgono all’improvviso, soprattutto di notte, verso l’alba, quando il sonno se ne sta andando, ma il risveglio non è ancora completo, il corpo è riposato e la mente è ancora immersa in una specie di torpore alieno dalla realtà. Allora mi sembra di udire voci, suoni, rumori familiari e ad essi subito si associa un ricordo: la voce di nonna Savina, povera nonna ! rimasta vedova a 27 anni, ha lavorato come una schiava per crescere e far studiare i due figli, Ettore, mio padre, nato nel 1896, e Angelo, nato nel 1898 quando, così raccontava, il marito, nonno Giovanni, ufficiale della Regia Marina, era sepolto da qualche mese a Zanzibar, stroncato dalla febbre gialla. Mio padre riuscì a completare il corso di studi, mi pare all’Istituto Tecnico Nautico di Venezia; ma con Angelo, che lei definiva con mal celato cruccio, "quel teston", fallì. A guerra finita (la prima guerra mondiale) fu assunto come meccanico alle Officine "Breda" di Sesto San Giovanni (Milano). Triste destino il suo: appassionato di montagna, trascorreva le ferie vagabondando in bicicletta per i boschi e i monti della Lombardia, su per quelle salite faticose, mangiando quel che capitava, dormendo dove capitava. Un giorno, per limitare la fatica di una ripida ascesa, si attaccò ad un camioncino che lo precedeva, il mezzo improvvisamente ebbe un arresto e retrocesse travolgendolo. Non ricordo l’anno, so soltanto che lasciò la moglie con quattro figli da crescere. La nonna viveva con noi e con noi rimase sempre, tranne un breve periodo prima della sua scomparsa. Si occupava della casa e di noi bambine, sostituendo la mamma che, di salute cagionevole, non riusciva a tenerci a bada, soprattutto non ce la faceva a spuntarla con me, piccola ribelle, caparbia e orgogliosa. Nonna Savina era una donna saggia, di quella saggezza che le proveniva dalle avversità della vita e che un tempo era qualità peculiare degli anziani, compagna di chi, da una vita a lungo vissuta, ha potuto trarre non pochi insegnamenti. Odiava i pettegolezzi, le malignità: "Tutte ciacole, diceva, gente che se ocupa più dei fati dei altri, che dei sui, gente che no ga gnente da far e passa el tempo a inventarse, tanto per dir qualcossa." "Ricordite, mi ripeteva, no creder gnanca ai to oci, perché de quel che se vede metà se crede, de quel che se sente no se crede gnente !". A volte rumori e suoni si confondono insieme, senza che l’uno prevalga sull’altro, ma senza stonature, come se un’invisibile orchestra mi mandasse da ogni suo strumento un suono diverso e tuttavia non dissonante dagli altri: il "qudrupedante" scalpitio di Ax, il cigolio delle ruote del calessino trainato dal somarello senza nome, lo starnazzare nel pollaio, il belato delle pecore e delle caprette, il muggito della mucchina, il gracidare delle rane, il fischiare della bora che soffiava sul retro della casa…. Mi immergo in questo magico concerto e direi che "il naufragar m’è dolce"; ma la nostalgia mi assale e volontariamente vado alla ricerca di qualche cosa di diverso.

La sirena, la sirena della miniera: chiamava al mattino i minatori al lavoro, a mezzogiorno ne segnava l’interruzione per il frugale pasto, poi per la ripresa del lavoro e finalmente alla sera per rimandare tutti alle loro case. Alcuni provenivano dal vicino villaggio di Kolane, altri da Pag o da Novalja, ma la maggior parte proveniva dai casolari sparsi lungo la costa orientale di un piccolo mare interno, quasi una laguna alla quale si accedeva attraverso uno stretto passaggio che si apriva sul Canale della Morlacca. Alla sua estremità meridionale sorgeva il piccolo porto di Pag, dove, due volte alla settimana approdava, proveniente da Zara, il "Grignano", un piroscafo, non saprei dire di quale stazza, che trasportava passeggeri ma anche bestiame, soprattutto ovini. Se la sirena suonava fuori da quei precisi orari, annunciava un incidente o un imminente pericolo. Un unico suono, lungo: era successo qualche cosa: "Maria Vergine, cossa sarà suceso !" mamma e nonna correvano verso la miniera…Io ho il ricordo di un solo incidente: un operaio, contro ogni regola di sicurezza, camminava sul piano inclinato ed era stato urtato da un carrello: lo portarono sanguinante a casa nostra dove fu medicato, niente di grave, ma quell’imprudenza avrebbe potuto costargli la vita.

A tre brevi suoni intermittenti, mamma e nonna interrompevano ogni attività, si facevano il segno della croce e aspettavano, immobili, mute: in pericolo c’era papà; si rilassavano soltanto quando un duplice, lungo suono annunciava che tutto era andato bene, anche questa volta. Per estrarre il carbone veniva usato il piccone, ma prima era necessario usare la dinamite. Papà non permetteva ad alcuno dei minatori di maneggiarla, perché non si fidava, ma soprattutto perché preferiva rischiare di persona. Preparava i fornelli, vi introduceva i candelotti, allestiva le micce e, prima che fossero accese, la sirena imponeva a tutti di porsi al sicuro. Poi lo scoppio, gli scoppi che si susseguivano così rapidamente da dare l’impressione di un unico boato. Il pericolo era lì, pronto a cogliere il minimo errore: mio padre doveva calcolare dal primo all’ultimo fornello la lunghezza della miccia in modo da avere il tempo di porsi al riparo nell’intervallo tra la accensione dell’ultima e lo scoppio della prima.

Ricordi, sempre, ricordi; ma "chi non ha ricordi, non ha passato, e, chi non ha passato, non ha vissuto"; a volte nitidi, a volte confusi, cancellati da altri, a loro volta cancellati da altri ancora: come le onde del mare in tempesta che si susseguono senza tregua cancellate sulla riva dall’onda successiva. Così rivivo la mia vita, l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza… con rammarico per ciò che non ho saputo o voluto fare, orgogliosa di ciò che ho fatto… L’orgoglio ! orgoglio, ambizione, testardaggine, a volte presunzione, mi hanno accompagnata per tutta la vita; mi hanno fatto vincere tante battaglie, mi hanno aiutata a rimediare errori inevitabilmente commessi. L’orgoglio: a poco a poco ho imparato ad usarlo con misura e intelligenza, perché, smisurato, non diventasse colpa. Per orgoglio, da bambina, ho cominciato a tener testa a mio padre, a non urlare di dolore quando, per punire le mie malefatte, si sfilava la cintola dai pantaloni e la faceva fischiare sulle mie gambe nude; per orgoglio mi attaccavo sempre più a lui per dimostrargli che le sue cinghiate non lasciavano alcun segno dentro di me; e per orgoglio mi attaccavo alla nonna, perché non trapelasse la mia sofferta gelosia nei riguardi di mia sorella, per la quale la mamma aveva particolari attenzioni. Lydia era un esserino divorato dalla malaria, timida, incapace di reagire alle mie cattiverie, piangeva per un nonnulla, mi stava sempre vicina, mi seguiva dovunque; per farla piangere la mandavo via, a volte la picchiavo, la prendevo a sassate, e non per spaventarla ma per colpirla. Una volta un sasso la colpì alla tempia sinistra, ne porta ancora la cicatrice. Ma fu l’ultima volta: ne presi tante, e poi tante, da papà, dalla nonna, anche la mamma trovò la forza di darmele. Avevo deciso di non rivolgere più la parola a nessuno, me ne andavo alla mattina e ritornavo alla sera. Loro fingevano di ignorarmi, e aspettavano che cedessi. Cedere significava dimostrarmi debole e non cedetti; cedette invece la nonna, mi fece sedere sulle sue ginocchia, mi fece capire che quella sassata alla tempia era molto pericolosa, mi fece promettere che non avrei più picchiata mia sorella. Quella promessa io l’ho mantenuta fino alla mattina del 23 settembre 1942; ma questa è un’altra storia. Mantenni dunque la promessa, ma probabilmente ritenni umiliante deporre le armi, siglare la resa: lo suppongo conoscendomi troppo bene. In realtà volevo molto bene a mia sorella, ma non sopportavo che fosse così diversa da me; avrei voluto che mi imitasse, che mi tenesse bordone nelle mie monellerie, ma se anche ce l’avesse messa tutta, non sarebbe mai stata capace di farlo. E poi c’era sempre quella gelosia che in qualche modo doveva pur trovare sfogo.

Nonna Savina aveva l’abitudine, la sera, di volerci sedute accanto a lei ad ascoltarla mentre ci narrava le favole: "Vegnì qua, vissìn a mi, che ve conto una bela storia". I personaggi della "bela storia" erano sempre gli stessi, streghe, orchi, matrigne cattive, fate, principi e principesse che alla fine vivevano felici e contenti. Non le sopportavo e non sopportavo neppure i racconti sugli animali, lupi, tigri, pantere, coccodrilli, che la nonna sicuramente inventava. Non mi sono mai piaciute le favole, non volevo ascoltarle, ma quelle sugli animali, anche se ascoltate distrattamente, mi servivano per terrorizzare mia sorella, per riempire di incubi le sue notti. Ero davvero una carogna. E quando io, mamma, mi sarei dovuta comportare come tutte le mamme di questo mondo e raccontarle ai miei bambini, non ho saputo farlo, non le conoscevo, cercavo di inventarne, ma senza successo, mi mancava la materia prima, quei principini, quelle fatine, le streghe che non avevano mai popolato i miei sogni, le mie fantasie.

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