Viaggio nella memoria

 

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Cap-3  L'infanzia sta per finire

 

Riversando l’affetto su nonna e papà, mi allontanavo lentamente dalla mamma; le volevo bene, ma nei suoi confronti nutrivo dell’insofferenza, quasi dell’ostilità: mi davano fastidio i suoi continui malesseri, mal sopportavo le sue scenate, le sue lacrime per i continui tradimenti di papà che, dongiovanni incallito, se la faceva tranquillamente anche con qualche compiacente contadina di Kolane. Quanto inqualificabile fosse allora i mio comportamento, l’ ho capito molto più tardi, quando anch’io ho vissuto la sua stessa tragedia. Ma mentre lei, povera mamma, ha finito per aggravare il suo male e soccombere, io, dopo anni di sofferenze, di pianti, di umiliazioni, ho avuto la forza di dire "basta", il mio orgoglio a lungo umiliato ha prevalso sull’amore tradito. Niente colpi di testa, decisioni inconsulte, le cui conseguenze sarebbero ricadute sui miei figli. Mi sono concentrata sulla professione, sulla casa, mi sono attaccata morbosamente ai figli. Non è stato facile; la mia fiducia era stata calpestata, tutto il mio mondo era crollato, eppure sentivo che era mio dovere sforzarmi di essere una buona madre ma anche una buona moglie. Ho imparato allora a soffocare i miei sentimenti, la gelosia che stava sempre là, pronta ad esplodere. Quanti sacrifici, quante rinunce, quante notti passate a chiedermi: "Perché?…perché ?". Ma ho vinto. I miei figli, solo i miei meravigliosi figli contavano, loro che certamente meritavano di avere da me molto più di quanto sia stata capace di dare loro. Non mi è mancata la volontà, mi è venuto meno il tempo, la possibilità. E certo io ho avuto da loro più di quanto abbia dato. Mi hanno dato momenti di gioia, di felicità, per loro ho affrontato tutto, per loro sono vissuta e continuo a vivere. La loro presenza mi ha dato la forza di sopportare con serena ironia il trascorrere del tempo che, lento ma inesorabile, si portava via la mia giovinezza, la mia maturità, insomma tutto; solo il mio cervello, il mio spirito, non ho permesso che mi fosse sottratto. Ho finito per convincermi che la vita è come quella di un albero, che cambia col mutare delle stagioni, che in ciascuna di esse assume un aspetto diverso: i germogli della primavera, i fiori dell’estate, lo spettacolo dei frutti, l’oro dell’autunno, ma che anche in inverno, senza foglie, con i rami spogli come braccia nude tese verso il cielo, rimane sempre quell’albero che ricordiamo vivo, in una festa di colori. Questa convinzione mi ha aiutata ad arrivare a questa età senza traumi, senza rimpianti. Solo un velo di tristezza per la consapevolezza che, mentre l’albero avrà una nuova primavera, tante altre primavere, io avrò solo l’inverno, non ci saranno altre primavere, un inverno forse lungo, forse breve, così ricco di ricordi che mi vanno ripetendo: "Hai saputo vivere; non sei vissuta, non vivi inutilmente".

Può sembrare che la nostra vita trascorresse sempre uguale, quasi monotona; le nostre giornate erano costellate da continui imprevisti che la movimentavano. Io e Lydia eravamo sempre pronte a cogliere con interesse qualsiasi novità, come diversivo e divertimento.

Quanto tempo, troppo, sarebbe necessario per raccontare tutti gli episodi: la caccia alle "pantegane" (topi enormi) che scorrazzavano in soffitta, il fuoco acceso sotto i gradini d’accesso della casa, per stanare le vipere che vi avevano fatto il nido, la gallina gettata dalla nonna nel fosso pieno d’acqua, con una zampa legata ad una cordicella per poterla ritirare su, con lo scopo di placarne "il calore": c’era bisogno di uova, non di chiocce; l’agnellino rimasto orfano e cresciuto in casa come un bambino, le feste paesane, i matrimoni, i battesimi con pranzi pantagruelici, e i dolci, i "buzolai" che sostituivano i confetti, le tavolate imbandite sul prato. E i "graniciari" (guardie di confine: granic a = confine) che tutte le sere, nel loro giro di ispezione, si fermavano a casa nostra a ubriacarsi di "rakija". Si presentavano con un allegro "dobro vec e! Kako je?" (buona sera! Com’è = come va?). Si levavano la giacca, posavano la pistola e il fucile che papà metteva subito dove noi non potessimo arrivare e cominciavano le chiacchiere e le bevute. Andavamo a cena e papà "oc ete?" Volete? E come no! Cenavano con noi senza complimenti e bevevano; man mano che aumentavano le bevute diminuivano le chiacchiere. E bisognava rimetterli a viva forza sulla strada zigzaganti, perché sarebbero rimasti fino all’alba; qualche volta invece di "dobra noc ’" (buona notte) sarebbe stato più appropriato salutarli con un "dobar dan" (buon giorno)

 

Trascorrevamo l’estate a Luka Simun (Porto Simoni), perché era in quel periodo che il carbone della miniera, unita a questo porticciolo dalla teleferica, veniva imbarcato. Non c’era alcuna costruzione in muratura, solo baracche di legno, e la vita in quel periodo dell’anno era ancora più selvaggia. Papà aveva molto tempo libero e lo dedicava alla caccia e alla pesca. Calava le nasse al largo, verso il tramonto, servendosi di un "caìcio", una barca a remi dalla quale, un giorno, mi scaraventò in mare legata ad una corda: avevo all’incirca 3 o 4 anni. Urlavo terrorizzata, annaspando, e lui tranquillo: "Movi le man e i pìe, mona! No ti te neghi, movite, testa de svirac" (facile la traduzione!). Ed io, muovendomi e bevendo, imparai a stare a galla. Quanto ai movimenti, imitavo soprattutto C urlij, tanto che parlando in casa dei miei progressi come nuotatrice, papà soleva dire: "Quela là, co la nua, la par un can!".

Il porticciolo era costituito da un’insenatura ad "elle" che verso ovest sfociava nel mare aperto, popolato tuttavia da innumerevoli isolotti; verso nord finiva in un piccolo fiordo e qui c’era il pontile, qui attraccavano le imbarcazioni. Da esso si calava la bilancia, si gettava qualche briciola di pane e la si ritraeva carica di pesciolini, i "gavonzini", guizzanti, argentei, che finivano subito infarinati in una padella di olio bollente. Che squisitezza! Al tramonto, con la bassa marea, era facile che enormi polpi si avvicinassero alla riva tra gli scogli. In genere era compito della nonna: armata di fiocina, passava di scoglio in scoglio finché non trovava la sua preda. La fiocinata arrivava precisa, ma non sempre era facile tirarla su, così tenacemente attaccata alle rocce con la forza dei suoi tentacoli armati di ventose. Allora la nonna chiedeva aiuto: "Fiòi, vegnime aiutar, go ciapà una’bubònissa"(ubonica = polpo). Non era la cena, era il pranzo per il giorno seguente.

A volte però il polpo aveva la meglio e, anche se ferito, riusciva a liberarsi dall’arpione e a svignarsela in tutta fretta in un mare di nero. Il disappunto era grande; ma se una cosa del genere capitava a papà, era una vera tragedia: diventava una furia, e, come era solito fare per tutte le contrarietà, reagiva sputando una bestemmia dietro l’altra. Aveva un modo tutto suo, molto pittoresco, di sfogarsi bestemmiando: un po’ in dialetto veneto, un po’ in zaratino, un po’ in croato, malediceva il padre, la madre, (di chi? del polpo scappato, del martello col quale si era pestato un dito, del coltello con il quale si era tagliato?…) I fratelli, le sorelle, tutti i parenti, gli antenati… E quando aveva esaurito l’albero genealogico, se la prendeva con Cristo, la Croce, la corona di spine, i chiodi, la lancia, per ricominciare da capo: "Te ciavo ti, to pare, to mare…..". Andava avanti finché la rabbia non era del tutto sbollita. E questa era la nostra vita, la mia vita, il tempo passava sempre nuovo, sempre diverso.

Era l’anno 1927: il 4 Aprile compivo 8 anni. Non c’era l’abitudine di festeggiare i compleanni, si ricordavano e basta. Ma quel 4 Aprile mio padre fece una scoperta: ero cresciuta, ed ero ignorante, di un’ignoranza senza fondo. Tutti i miei coetanei andavano regolarmente a scuola (a Kolane esisteva una scuola elementare di lingua croata) sapevano leggere, scrivere, far di conto, io ero "ignorante", rozza come una zingara. Quel giorno decise che io dovevo diventare una persona civile, educata, colta; per il momento, il pedagogo sarebbe stato lui. Non ricordo che mi avesse mai fatto lezione di civiltà e di educazione, o di "buone maniere" come diceva lui. Ricordo invece il sistema confuso, farraginoso col quale pretendeva di insegnarmi a leggere e a scrivere. Non aveva un sillabario, i ferri del mestiere erano vecchi giornali; non riuscivo a distinguere l’alfabeto corsivo, sicché sapevo leggere a malapena qualche parola in stampatello. Quando pretendeva che leggessi qualche cosa scritto da lui, erano sberle: "Mussa! Mi te porto a lavorar in miniera!" Con l’aritmetica era diverso, avevo il bernoccolo della matematica: chiudevo gli occhi, pensavo alle dieci dita delle mie mani, magari ci aggiungevo anche quelle dei piedi, e i calcoli mi riuscivano estremamente facili. Mi aspettavo una lode, invece si arrabbiava perché non ero il "Bruno", futuro ingegnere, che lui aveva sognato, ma quella "Bruna" dalle capacità matematiche sprecate, perché era una femmina: "Che sbaglio che ga fato to mare! (a quel tempo era convinzione, ancora oggi non del tutto sfatata, che il sesso del nascituro dipendesse dalla madre) la ga fato una grossa monada: una femena! Che bel ingegner che ti sarìa sta’!". Avevo finito per sentirmi in colpa, come se anch’io, insieme a mia madre, fossi responsabile di questo sesso sbagliato. Mi assaliva la paura di perdere il suo affetto e cercavo di comportarmi come si sarebbe comportato, almeno così pensavo, quel Bruno mancato: altro che educazione e buone maniere! Parolacce in croato (anche oggi mi sembrano meno volgari), prepotenze, disobbedienze a non finire… Un bel giorno, eravamo alla fine di Agosto o primi di Settembre decise che le sue lezioni, seppur bislacche, senza metodo, incoerenti, irrazionali, mi avevano preparata a sostenere l’esame di ammissione alla seconda classe delle elementari: dovevo pur recuperare gli anni perduti. Mi avrebbe portata a Zara, dalle Suore di Santa Maria che gestivano una scuola elementare.

Zara: ci imbarcammo a Pag sul "Grignano"; non era il mio primo viaggio per mare, ma del precedente non serbavo alcun ricordo. Al nostro arrivo, ci attendeva la madrina di battesimo di Lydia, la signorina Meri Merlin, presso la quale pernottammo. Al mattino successivo fui condotta da quelle suore in Calle Santa Maria: non avevo mai visto una suora, appartenevano appunto all’ordine di Santa Maria. Erano vestite tutte di nero, parlavano sotto voce, in una lingua che non avevo mai sentito parlare e che tuttavia riuscivo a capire; ero confusa, disorientata, io avevo sentito parlare solamente il dialetto veneziano, quello zaratino, quello croato, e solo con questi idiomi mi ero sempre espressa. E quello, che cos’era? Era, ma lo seppi dopo, la lingua italiana!

Mi portarono in una piccola aula, mi dettero un foglio con delle righe che formavano alternati spazi più larghi e più stretti che io non avevo mai visto. L’aula era buia, tetra, il banco era nero, sulla sua estremità destra, in alto, c’era un buco che conteneva una specie di bicchierino pieno d’inchiostro, accanto c’era una cannuccia con il pennino. Ero confusa, attonita, depressa; ma ben presto ebbe il sopravvento una rabbia sorda. Mi sentivo in trappola, mio padre mi aveva imbrogliata, mi aveva portata a Zara senza dirmi che cosa sarebbe successo; in quel momento lo odiavo. Una suora mi disse che per prima cosa mi avrebbe fatto un "dettato". Un dettato? E che cosa era? Prese un libro, cominciò a leggere scandendo le sillabe. Io la guardavo e pensavo: "che asina, legge male come me." "Perché non scrivi?" disse. Scrivere? Che cosa dovevo scrivere? E in quali spazi? In quelli larghi o in quelli stretti? No! Così non andava. Erano in tre, mi guardavano esterrefatte. "Voio far l’aritmetica" dissi risoluta in dialetto. Ma quelle ridacchiavano con l’aria di prendermi in giro. Non avrebbero dovuto farlo, se c’era una cosa che mi mandava in bestia, era proprio l’essere presa in giro.

Che ci facevo io in quel luogo, lavata, pettinata con un fiocco in testa, con le calze e le scarpe nuove di pelle lucida che mi facevano male, mi stringevano i piedi come in una morsa? Se questo era il prezzo da pagare per diventare una persona civile, colta, beh! preferivo lavorare in miniera. Piantai in asso quegli esseri vestiti di nero come i "rebondoa stronsi" (stercofori) e raggiunsi mio padre che mi attendeva in una saletta. "Tornemo a casa" gli dissi, e a casa tornammo. Papà non disse niente, aveva capito, tuttavia mantenne la parola e mi portò in miniera a fare la telefonista; mi pagava 5 dinari al giorno, l’equivalente di una lira e venticinque centesimi (una lira valeva 4 dinari); con quei soldi, alla fine di Settembre, mi comperai una bambola, la mia prima bambola, bellissima, di porcellana, con i capelli lunghi e un bel vestito azzurro. Ebbe breve vita: Lydia me la distrusse.

Fu tanta l’umiliazione subita in quel disastroso approccio con il mondo della scuola e della cultura, che giurai a me stessa che non sarebbe mai più successo, e quella promessa ho mantenuta fino alla laurea e ai concorsi per salire in cattedra.

Il mio insuccesso convinse papà, a malincuore, che forse era più adatto a fare il direttore della miniera, che il pedagogo. Ma al "nostro" fallimento si doveva comunque porre rimedio. Era venuto a conoscenza che a Zara esisteva un prestigioso collegio per figlie di Italiani residenti all’estero, o comunque impegnati per lavoro all’estero. Era retto dalle suore Mantellate dei Servi di Maria, ordine fondato da Santa Giuliana Falconieri, della nobile famiglia fiorentina, con casa madre a Pistoia. Io avevo i requisiti per ottenerne l’ammissione; presentò la domanda, credo al Ministero degli Esteri a Roma, e ottenni il posto. Mamma e nonna lavorarono come negre per prepararmi in fretta l’abbondante corredo richiesto: lenzuola, coperte, materasso, guanciale, piumino, asciugamani, tovaglioli, più la biancheria personale, tutto contrassegnato dal numero 107. Ai grembiuli (neri!), alla divisa invernale e da mezza stagione, al cappotto, al soprabito, al copricapo, visto che dovevamo essere vestite tutte uguali, provvedevano le suore, previo pagamento. Vi entrai, piena di entusiasmo per la novità, il primo giorno di ottobre dell’anno 1927 e, con alterne vicende, i primi anni costretta, i rimanenti per mia scelta, vi rimasi fino all’8 Luglio 1938, quando, ottenuto il diploma di maturità classica lasciai il collegio e Zara.



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