Viaggio nella memoria

 

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Cap-4   A Zara

 

Zara: ci imbarcammo a Pag sul "Grignano"; non era il mio primo viaggio per mare, ma del precedente non serbavo alcun ricordo. Al nostro arrivo, ci attendeva la madrina di battesimo di Lydia, la signorina Meri Merlin, presso la quale pernottammo. Al mattino successivo fui condotta da quelle suore in Calle Santa Maria: non avevo mai visto una suora, appartenevano appunto all’ordine di Santa Maria. Erano vestite tutte di nero, parlavano sotto voce, in una lingua che non avevo mai sentito parlare e che tuttavia riuscivo a capire; ero confusa, disorientata, io avevo sentito parlare solamente il dialetto veneziano, quello zaratino, quello croato, e solo con questi idiomi mi ero sempre espressa. E quello, che cos’era? Era, ma lo seppi dopo, la lingua italiana!

Mi portarono in una piccola aula, mi dettero un foglio con delle righe che formavano alternati spazi più larghi e più stretti che io non avevo mai visto. L’aula era buia, tetra, il banco era nero, sulla sua estremità destra, in alto, c’era un buco che conteneva una specie di bicchierino pieno d’inchiostro, accanto c’era una cannuccia con il pennino. Ero confusa, attonita, depressa; ma ben presto ebbe il sopravvento una rabbia sorda. Mi sentivo in trappola, mio padre mi aveva imbrogliata, mi aveva portata a Zara senza dirmi che cosa sarebbe successo; in quel momento lo odiavo. Una suora mi disse che per prima cosa mi avrebbe fatto un "dettato". Un dettato? E che cosa era? Prese un libro, cominciò a leggere scandendo le sillabe. Io la guardavo e pensavo: "che asina, legge male come me." "Perché non scrivi?" disse. Scrivere? Che cosa dovevo scrivere? E in quali spazi? In quelli larghi o in quelli stretti? No! Così non andava. Erano in tre, mi guardavano esterrefatte. "Voio far l’aritmetica" dissi risoluta in dialetto. Ma quelle ridacchiavano con l’aria di prendermi in giro. Non avrebbero dovuto farlo, se c’era una cosa che mi mandava in bestia, era proprio l’essere presa in giro.

Che ci facevo io in quel luogo, lavata, pettinata con un fiocco in testa, con le calze e le scarpe nuove di pelle lucida che mi facevano male, mi stringevano i piedi come in una morsa? Se questo era il prezzo da pagare per diventare una persona civile, colta, beh! preferivo lavorare in miniera. Piantai in asso quegli esseri vestiti di nero come i "rebondoa stronsi" (stercofori) e raggiunsi mio padre che mi attendeva in una saletta. "Tornemo a casa" gli dissi, e a casa tornammo. Papà non disse niente, aveva capito, tuttavia mantenne la parola e mi portò in miniera a fare la telefonista; mi pagava 5 dinari al giorno, l’equivalente di una lira e venticinque centesimi (una lira valeva 4 dinari); con quei soldi, alla fine di Settembre, mi comperai una bambola, la mia prima bambola, bellissima, di porcellana, con i capelli lunghi e un bel vestito azzurro. Ebbe breve vita: Lydia me la distrusse.

Fu tanta l’umiliazione subita in quel disastroso approccio con il mondo della scuola e della cultura, che giurai a me stessa che non sarebbe mai più successo, e quella promessa ho mantenuta fino alla laurea e ai concorsi per salire in cattedra.

Il mio insuccesso convinse papà, a malincuore, che forse era più adatto a fare il direttore della miniera, che il pedagogo. Ma al "nostro" fallimento si doveva comunque porre rimedio. Era venuto a conoscenza che a Zara esisteva un prestigioso collegio per figlie di Italiani residenti all’estero, o comunque impegnati per lavoro all’estero. Era retto dalle suore Mantellate dei Servi di Maria, ordine fondato da Santa Giuliana Falconieri, della nobile famiglia fiorentina, con casa madre a Pistoia. Io avevo i requisiti per ottenerne l’ammissione; presentò la domanda, credo al Ministero degli Esteri a Roma, e ottenni il posto. Mamma e nonna lavorarono come negre per prepararmi in fretta l’abbondante corredo richiesto: lenzuola, coperte, materasso, guanciale, piumino, asciugamani, tovaglioli, più la biancheria personale, tutto contrassegnato dal numero 107. Ai grembiuli (neri!), alla divisa invernale e da mezza stagione, al cappotto, al soprabito, al copricapo, visto che dovevamo essere vestite tutte uguali, provvedevano le suore, previo pagamento. Vi entrai, piena di entusiasmo per la novità, il primo giorno di ottobre dell’anno 1927 e, con alterne vicende, i primi anni costretta, i rimanenti per mia scelta, vi rimasi fino all’8 Luglio 1938, quando, ottenuto il diploma di maturità classica lasciai il collegio e Zara.

Non era la prima volta che andavo a vivere a Zara: la mia famiglia vi aveva soggiornato, proveniente da Venezia dalla fine di Gennaio del 1920 fino ad una data imprecisata del 1922, comunque posteriore al 29 Gennaio, data di nascita di mia sorella Lydia, avvenuta appunto a Zara. Papà vi si trovava da tempo: finito l’Istituto Nautico, si era imbarcato su un mercantile che batteva i porti della Grecia e della Turchia. Ricordo quando raccontava di quei popoli, dei Greci e dei Turchi che chiamava "Levantini". Raccontava tanti episodi che certamente interessavano più mamma e nonna che noi. A questo punto le vicende politiche dell’epoca si intrecciano con quelle di mio padre e ne determinano il futuro. Dal 1914, dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, nipote ed erede designato al trono, dell’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, avvenuto a Sarajevo per mano dello studente serbo Gavrilo Princip, tutta l’Europa era in fiamme. Non ritengo di dovermi soffermare sui vari aspetti di questa prima guerra mondiale, "la Guerrona", perché i miei figli, ai quali ho dedicato queste mie memorie, ne hanno studiato a scuola le varie fasi, e certamente se le ricordano (o no?!). E l’Italia? L’Italia dichiarò la propria neutralità, e solo il 24 Maggio del 1915, tradendo gli impegni siglati nella "Triplice Alleanza" (Italia Austria e Germania) entrava in guerra a fianco degli stati della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia). Papà, allora diciannovenne, dovette lasciare l’imbarco sul mercantile e, in qualità di "militarizzato" (sottoposto a disciplina militare per ragioni belliche) fu assegnato come tecnico navale all’Arsenale di Venezia. La disfatta di Caporetto del 24 Ottobre 1917 costrinse l’Italia a colmare i vuoti lasciati dalle migliaia e migliaia di caduti. Papà dovette lasciare l’Arsenale, chiamato in servizio attivo e assegnato in qualità di sottufficiale ad una squadra della Regia Marina. Non ricordo quale, né ricordo, ma forse non l’ho mai saputo, il tipo e il nome del mezzo sul quale venne imbarcato. Il 28 Ottobre dell’anno successivo, la città più italiana di tutta la Dalmazia, Zara, insorse contro il dominio dell’Austria e il giorno della vittoria, il 4 Novembre, venne occupata da forze navali italiane: mio padre c’era! Si trovava quindi a Zara, quando io, un venerdì, il 4 Aprile 1919, alle 4 del mattino (Ariete con ascendente Acquario: che caratteraccio!) venivo al mondo. Mentre lavorava nell’arsenale, aveva conosciuto mia madre, di un anno più anziana. In previsione di essere chiamato alle armi in servizio attivo, come spesso accade in queste circostanze, la sposò con rito civile e, quando partì da Venezia forse non sapeva ancora di aver gettato le basi per diventare padre.

Mia madre, di lei ho sempre detto poco in queste mie pagine, eppure è sempre stata pur se la sua vita è stata troppo breve, una presenza costante nella nostra casa, nella nostra famiglia. Piccolina, alta solamente un metro e cinquanta centimetri, esile, occhi e capelli nerissimi, ricordava le donne del sud. Lei non l’ha mai detto, ma probabilmente apparteneva a gente proveniente dalla Puglia. Il cognome potrebbe essere un indizio, Cristante, alcuni suoi fratelli vivevano a Bisceglie. La ricordo negli anni in cui, anche se tra continue scenate, formava una bella coppia con mio padre. Portava scarpe con il tacco a spillo, altissimo e quando si attaccava, nel vero significato della parola, al braccio di mio padre che rasentava il metro e ottanta, noi scherzavamo e dicevamo che sembravano la chiesetta e il campanile. Non è stata certamente felice con mio padre, la sorte non l’ha mai risparmiata. Anche il suo matrimonio ebbe un inizio, a dir poco tragico: dopo la cerimonia, ritornati a casa in gondola, nel momento in cui stava per scendere a terra, l’imbarcazione ebbe un rapido movimento e si staccò dalla riva: la mamma cadde in acqua e non sapeva nuotare.

Partito dunque mio padre, la mamma rimase a Venezia con la suocera, (nonna Savina) e con tre delle sorelle della nonna, tutte nubili, Giovanna detta Nella (la mania di dare un nome e di usarne un altro), Antonia e Maria. Nonostante le difficoltà per comunicare, mio padre fu informato della gravidanza della moglie, e cominciò a vagheggiare quel sogno di avere un figlio maschio, di chiamarlo, non so perché, Bruno, e di farne un ingegnere navale. Purtroppo anche oggi, come allora, ci sono padri che pretendono di programmare il futuro dei figli, imponendo loro di diventare quello che essi stessi non hanno saputo o potuto essere. Che errore madornale! Si rischia di creare degli spostati, insoddisfatti, frustrati. Ognuno ha il sacrosanto diritto di regolare la propria esistenza secondo le proprie inclinazioni, le proprie aspirazioni. Dovere dei genitori è quello di seguirli, aiutarli, consigliarli, capirli; anzi, prima di tutto, capirli. Ma il destino si fece beffe di lui e vanificò i suoi sogni: ero una femmina! Quando venni al mondo, le mie tre prozie lavoravano a tombolo per una ditta americana, la Ziegpheld. Avevano avuto l’educazione che allora veniva impartita alle signorine di buona famiglia: un’infarinatura di cultura generale, un po’ di Francese, un po’ d’Inglese, il pianoforte, il ricamo. Spesso ne venivano escluse le figlie maggiori, destinate ad aiutare la madre nella conduzione della famiglia; infatti fra Savina, Nella e le altre sorelle, c’era un abisso; le prime, le casalinghe tipiche di tutti i tempi, le altre due, raffinate, eleganti, delle "vere signore". Maria fu la mia madrina e al fonte battesimale mi fece imporre un nome, trascritto poi all’anagrafe, che forse nelle sue intenzioni, doveva essere americano: ANNY, così scritto e così pronunciato. Non so dopo quanto tempo né per quali vie o con quali mezzi sia giunta a mio padre la notizia; sta di fatto che, strada facendo, la poco buona novella aveva perso qualche particolare: era nata una femmina, ma il nome? Boh! Papà si consolò iscrivendomi subito all’anagrafe di Zara, e per lui, sfumato Bruno, non potevo essere altro che Bruna, figlia di Ettore e di Cristante Luigia, e tale rimasi fino alla maturità classica, senza che nessuno si accorgesse del pasticcio: per l’iscrizione all’Università, oltre al diploma, dovevo presentare l’estratto dell’atto di nascita da richiedere a Venezia. Sembra un giallo: in 19 anni, mai nessuno aveva pronunciato quell’esotico nome, io ero Bruna, le stesse prozie, quando andavo da loro a Venezia, mi chiamavano Bruna. E Anny? Risultava dall’anagrafe, ma chi era Anny? Un "alter ego", una mia sorella gemella? Belli Bruna di ecc. ecc. a Venezia non esisteva. Quanto abbia speso mio padre in atti notarili per dimostrare che Bruna e Anny erano la stessa persona e che l’errore era da imputare alla confusione del dopo guerra, non so. So soltanto che mi sentivo come sdoppiata, mi sembrava di essere fatta di due persone diverse, faticavo a immedesimarmi in questa sconosciuta che improvvisamente si era intromessa nella mia persona, nella mia personalità. Con quel nome così strano, mi sentivo chiamare e non rispondevo, dovevo firmare atti ufficiali concentrandomi su un nome che non sentivo mio. Anche oggi, dopo 60 anni, mi torna difficile rispondere a chi mi chiama con quel nome che, fra l’altro, viene pronunciato in vari modi: Á nny con l’accento sull’a, Anný con l’accento sulla y, Enny, perché nessuno riesce a capire a quale lingua appartenga.

Avevo 9 mesi quando io, mamma e nonna potemmo raggiungere la città dalmata e riunirci a papà. Nel frattempo a Zara si era costituito un governo provvisorio e soltanto con il Trattato di Rapallo (12/11/1920) firmato fra Italia e Yugoslavia, Zara e il suo distretto censuario venivano assegnate all’Italia, ma solo nel Gennaio dell’anno successivo ne fu proclamata l’annessione. Papà faceva sempre parte della Regia Marina e, una volta congedato, fu inviato a Pag come direttore della miniera di Kolane. A Zara abitavamo nel sobborgo di Barcagno, al di là della città, in vista della rada dove stavano alla fonda le navi della Regia Marina. Di questo periodo non ricordo quasi niente, ero ancora troppo piccola. Mi è chiara la casa dove vivevamo perché qui è nata Lydia; è strano come nel buio totale dei ricordi, si stacchi questo avvenimento; evidentemente si è impresso nella mia memoria in maniera indelebile.

Era sera, forse un tardo pomeriggio, in Gennaio il sole tramonta presto; nella camera dei miei genitori, in fondo al corridoio, era acceso un lume a petrolio. La mamma era a letto, si lamentava, con lei c’era mio padre, la nonna e una donna che non avevo mai vista prima. Cercavo di entrare anch’io, ma ogni tentativo era vano; quella donna, in tono perentorio, intimava: "Portè via la putela!" Ad un certo punto la nonna mi assestò un paio di sculaccioni e mi trascinò di peso nel ripostiglio. Prese il mio vasino da notte, mi calò le mutandine e con poco garbo mi ci pose a sedere: "Caga e sta’bona, che no podemo starte drio", e se ne andò chiudendo la porta. Lasciai subito il vasino con l’intento di uscire, ma la maniglia era troppo alta, riuscivo solo a sfiorarla alzandomi in punta di piede. Ricordo che a questo punto vidi, o la paura mi indusse a vedere, un topo; cominciai a strillare disperatamente. Non so quanto tempo piansi e gridai. Improvvisamente venne la nonna, aprì la porta, mi prese in braccio: "Vien a vèder che bela soreleta che gavemo trovà soto un cavolo". La "bela soreleta", nata prematura, era un cosino piccino, tutta grinzosa e violacea. Mi colpirono i suoi piedi, lunghi e bluastri. Mi misi a piangere: "No la vojo, la xe bruta". Poi prevalse la curiosità: "Chi la ga mesa soto un cavolo?" "El papà" "E perché el papà la ga mesa soto un cavolo? Fora xe fredo! Cativo papà" E ricominciai a piangere. Mia madre rimase a letto molti giorni, non mi permettevano di entrare in camera, mi raccomandavano di non far rumore. Venne a vivere con noi una donna vestita da contadina croata che allattava la neonata: mia madre aveva rischiato la vita. Durante la gravidanza si era ammalata di nefrite e, a quel tempo, un parto, una gravidanza, erano sempre un rischio.

Quella luce che si era aperta nel buio dei ricordi, si è spenta: non ricordo la Lydia di quel periodo, la ricordo invece febbricitante per la malaria a Kolane.



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