Viaggio nella memoria

 

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Cap-8   A scuola

 

Ritorniamo indietro. Siamo nel 1928. A gennaio mia sorella aveva compiuti 6 anni, il prossimo ottobre si sarebbe presentato il problema di mandarla a scuola, ma dove? Papà fece domanda per ottenere anche per lei un posto in collegio, ma ne ebbe un rifiuto. Decise allora di mandarla a Zara con la nonna, non c’era altro da fare: o così, o a scuola di lingua croata a Kolane. Trovarono un appartamentino nel sobborgo di Cereria, al di là del ponte. Lydia fu iscritta alla scuola elementare di quella zona, con mio grande sollievo, perché non avrei mai sopportato, io, che a nove anni frequentavo la seconda classe, di avere una sorella più piccola di tre anni, in prima nella stessa scuola. Con la nonna a Zara, potevo uscire spesso dal collegio la domenica. Fu in quel periodo che feci conoscenza col cinematografo; la nonna ci portava allo spettacolo del pomeriggio, in modo che io potessi rientrare per tempo in collegio. Erano film comici con Charlot, Buster Keaton, Ridolini, ma soprattutto con Stalio e Ollio (questi vennero dopo). Erano film muti, i dialoghi e le varie didascalie si presentavano scritti sullo schermo, e gli spettatori li leggevano tutti in coro ad alta voce. L’anno successivo Lydia frequentava la seconda classe, io avevo fatto il salto in quarta, e, quando lei frequentava la terza, io ero già alunna del classico. Le distanze aumentavano e i conti cominciavano a tornare. Intanto nella primavera del’30 la mia famiglia si era stabilita a Zara per il trasferimento di mio padre, come ho già ricordato. Fra i tanti amici ne comparvero tre, due fratelli e una sorella, Nucci, Tonci, Eriketa, dal cognome strano: non era italiano, non era dalmata e non sembrava neppure croato: de Zitkowsky . Il maggiore faceva il rilegatore di libri, l’altro, Tonci, era operaio in manifattura e operaia in manifattura, alle dipendenze di mio padre, c’era anche lei, la Riketa o Rika. Soprattutto lei diventò assidua frequentatrice della nostra casa. Si dimostrava molto amica di mia madre, ma cercava spesso la mia compagnia; mi portava a cena a casa sua, mi aiutava a rifare i vestiti che mi faceva nonna Savina, tutti uguali, lunghi e larghi. Avevo quasi dodici anni; quello specchio, lo stesso che a Kolane aveva riflesso la mia immagine sgraziata, cominciava a mandarmi una immagine che sembrava mutare di giorno in giorno: crescevo di statura, si notava la vita, si notavano i fianchi e le spalle larghe. Merito del tempo che passava, ma anche della ginnastica che si faceva in palestra e sul campo sportivo con i primi elementi di atletica; lo sport aveva molta importanza allora nelle scuole e lo si praticava con serietà e impegno. La Rika era nata nel 1909, poco meno di dieci anni mi separavano da lei, voleva che la considerassi mia amica, ma con lei non mi trovavo sempre a mio agio; diceva di essere originaria di Graz, ma non sapeva una parola di tedesco, non parlava l’italiano e si esprimeva male anche in zaratino. Lo capii molto più tardi, era di una ignoranza abissale. Questa storia durò qualche mese, poi non si fece più vedere in casa nostra. Anche i fratelli diradarono le loro visite e le pochissime volte che capitavano, la mamma si chiudeva in camera a piangere. Con le lacrime della mamma ricomparvero anche i litigi con papà, le scenate. Quell’atmosfera festaiola che si era instaurata in famiglia per tutto ciò che di piacevolmente diverso era stato trovato nella nuova sistemazione, non durò a lungo. Non capivo cosa stesse succedendo, nessuno mi diceva niente, in mia presenza non si parlava o si interrompeva una conversazione; alla domenica c’era sempre una scusa nuova per non farmi uscire dal collegio, gli amici venivano a trovarci di rado, il loro numero si era notevolmente ridotto. Nel giugno del’32, senza alcun preavviso, papà vendette la "villa Lestuzzi" al completo, casa, terra, animali e trasferì la famiglia in un appartamento in affitto alla periferia di Zara, ai margini di Borgherizzo . Quella fu un’estate funestata, oltre che da questo improvviso e radicale cambiamento, (era la prima volta che vivevo in un appartamento in affitto, al secondo piano, senza giardino, senza animali) anche dalla mia salute: fui colpita dal tifo, rimasi a letto, divorata dalla febbre, per un tempo che sembrava non finire mai, un mese, forse più. Quando, guarita, potei finalmente alzarmi e vestirmi, non c’era nulla che mi stesse: i vestiti erano vergognosamente corti, i miei piedi altrettanto vergognosamente lunghi; le mie braccia non finivano più, sembravano due rami d’albero rinsecchiti. Non ero più io. Scoppiai in un dirotto pianto. Il primo ottobre rientravo in collegio per il nuovo anno scolastico, fu necessario rifarmi l’intero guardaroba. Ma il mio fisico reagì contro ogni ragionevole aspettativa e in breve tempo mi trasformai in un’adolescente che mi piaceva e… cominciava a piacere. Avevo 13 anni, frequentavo la III° ginnasiale. In aprile avrei compiuto 14 anni. Sostenni brillantemente l’esame di ammissione alla IV° ginnasiale, mi aspettava un’estate da trascorrere tutta in nuotate a Punta Mica, in gita con i compagni di scuola al lago di Bocagnazzo, in tuffi dal pontile delle Collovare, in quel mare splendido che circondava quasi completamente quella città da sogno. Ma quando ritornai in famiglia, mio padre non c’era; da alcuni mesi si era sistemato in un locale vicino alla manifattura. Ma perché? Come al solito, né la mamma, né la nonna rispondevano, si guardavano e… silenzio. Lo andai a trovare "perché, perché, papà?" Imbarazzato mi disse che in casa non poteva più vivere, aveva bisogno di pace, di tranquillità; dopo una giornata di lavoro, in casa trovava soltanto musi lunghi e scenate. Volevo fare un lungo viaggio con lui? Certo che lo volevo! Sarei tornata da lui il giorno seguente per parlarne e metterci d’accordo. Tornai a casa contenta, detti la notizia alla mamma e alla nonna, non ebbero alcuna reazione, zitte come da tempo accadeva. Il giorno seguente tornai da mio padre, non c’era; la padrona di casa mi disse che proprio quella mattina aveva saldato l’affitto ed era partito con la m/n "Francesco Morosini". Rimasi impietrita; perché mio padre mi aveva fatto questo? Ero schiacciata da delusione, dolore, disperazione. Mi aveva imbrogliata, tradita. Tornai a casa in lacrime, e finalmente le due donne parlarono… parlarono e dissero tutto quello che per tanto tempo mi avevano taciuto: mio padre se n’era andato, ci aveva abbandonate, se n’era andato con la Rika, tutta la città sapeva da tempo di quella tresca, e un fatto del genere, allora, era uno scandalo, una vergogna. All’improvviso mi fu tutto chiaro: il tentativo di quella donna di avermi amica, e complice; l’inspiegabile scomparsa di lei e dei suoi fratelli da casa nostra, le lacrime di mia madre. Quel progettato viaggio con me, forse era da parte di mio padre, un disperato tentativo di sfuggire da una situazione diventata ormai invivibile. E, chi lo sa, può darsi che sia prevalso in lui un senso di responsabilità nei riguardi di lei, e, allora, ecco la fuga precipitosa, insieme, decisa all’ultimo momento. Dove se n’era andato il mio papà? La m/n "Morosini" faceva scalo a Lussino, no, troppo vicino a Zara; a Venezia, neppure, c’erano troppi parenti; quindi a Pola o a Trieste. Lo seppi dopo parecchio tempo, era sbarcato a Trieste. Intanto il direttore della manifattura aveva dovuto informare a Roma il ministero: le sanzioni furono immediate: licenziamento per lei, trasferimento d’ufficio per lui, a Firenze. Qui ricominciò tutto da zero; prese in affitto un piccolo appartamento a San Domenico di Fiesole, con la Rika che faceva passare per sua moglie, mentre quello che restava della mia famiglia, privata di ogni aiuto, tirava avanti faticosamente, vendendo, un po’ alla volta, tutto quanto (ben poco) restava delle nostre risorse di un tempo. Dopo circa un anno, mio padre si fece vivo: scrisse a me scusandosi del suo lungo silenzio, "imponeva" che io tornassi in collegio e che mia sorella lo raggiungesse a Firenze. Nessun accenno a madre e moglie, come se non esistessero. Urgeva una decisione per sopravvivere, bisognava accettare le sue richieste: Lydia avrebbe avuto una casa e un padre, io, dalle suore avrei continuato gli studi. E mamma e nonna? C’era poco da scegliere, la mamma ritornò a Venezia e la nonna si trasferì a Sesto San Giovanni dall’altro figlio, Angelo: la mia famiglia non esisteva più, mai più si sarebbe ricomposta. Non rividi più mia madre, che colpita dalla tubercolosi e ricoverata in sanatorio, cessava di vivere il 9 agosto del’37, assistita da nonna Savina, mentre io, mia sorella, mio padre e la Rika eravamo a villeggiare tra Vallombrosa e la Consuma. Solo al nostro rientro a Firenze il 13 agosto fummo informati con un telegramma che ci attendeva da 4 giorni: mia madre era morta, aveva 42 anni, le ultime parole rivolte alla nonna, sua suocera, furono "Abbi cura delle mie bambine". Da allora sono trascorsi più di 60 anni, e mi sto ancora chiedendo come mio padre, un uomo intelligente, colto, tra le sue numerose conquiste "usa e getta", si era lasciato intrappolare proprio da quella che non aveva assolutamente nulla che potesse farla preferire a mia madre fino a queste estreme conseguenze. Un giorno in cui per l’ennesima volta le rinfacciai la morte della mamma, mi rispose: "Ma mi’l papà lo go fato felice". Felice? Ma quale felicità ? Ha lavorato come un negro fino alla fine, nonostante la malattia senza scampo, per lasciare a lei di che vivere in tutta tranquillità.

Secondo la sua volontà, io e mia sorella partimmo per Firenze e trascorremmo le vacanze a San Domenico con papà. Era solo e ci illudemmo che prima o poi si sarebbe fatto raggiungere anche dalla mamma e dalla nonna. Alla fine di settembre io ripartivo per Zara per far ritorno in collegio, Lydia avrebbe continuato gli studi a Firenze. Ma partita io, eccola la Rika: entrò in casa da padrona, si era allontanata perché aveva paura della mia presenza, della mia reazione. Mia sorella fu tolta da scuola e mandata a lavorare: assunta, non so con quali mansioni, dall’officina "Cipriani e Baccani", fu costretta a frequentare corsi serali per ottenere il diploma di scuola commerciale. In seguito passò alle officine "Galileo" e, ottenuto, sempre con corsi serali, il diploma di ragioniera, fu promossa capo-ufficio amministrativo. Di quello che guadagnava, ben poco le rimaneva; dopo solo nove mesi dalla scomparsa della mamma, Rika diventò ufficialmente la "signora Belli", moglie legittima del sig. Ettore Belli. Diventò la padrona di casa con pretese di "madre scrupolosa e severa" nei riguardi di noi due, divenute purtroppo sue figliastre. Si rivelò subito per quella che era veramente: all’ignoranza univa prepotenza e stupidità, e non c’è cosa più pericolosa della prepotenza degli imbecilli."Chi no lavora no magna" era il suo motto e lo stipendio di Lydia finiva regolarmente nelle sue mani. Questo sistematico sfruttamento durò fino al’47 quando finalmente mia sorella potè sposare il suo Marzio, Marzio Casini, un simpatico fiorentinaccio, direttore dell’ENPA S Per me le cose andarono diversamente, fu tutto molto più facile: a Zara continuai gli studi al liceo classico e nel luglio del’38 superai brillantemente (8/10) l’esame di maturità. A Firenze passavo solo le vacanze estive, e neppure tutte, mal sopportando la presenza della Rika che mal sopportava la mia presenza: alla fine dell’anno scolastico partivo per Venezia e mi trattenevo dalle zie. Del resto cercavo di rimanere in casa il meno possibile. Erano vacanze poco piacevoli, non vedevo l’ora di ritornare a Zara, rimpiangevo il collegio dove ormai ero una veterana, la scuola, i professori, i compagni, le compagne. Con loro dimenticavo la situazione della mia famiglia dispersa, l’esistenza di una famiglia che non mi apparteneva e per la quale nutrivo solo rancore. Non mi piacevano i toscani, i fiorentini così chiassosi, quel loro parlare con un accento unico al mondo, credo. Il mio mondo ruotava intorno alla "mia" scuola, agli amici che ero costretta a lasciare proprio quando, liberi dagli impegni scolastici, avremmo potuto davvero godere le nostre vacanze. Erano amici meravigliosi, ci conoscevamo da sempre, fra noi c’era un rapporto di amicizia profonda, di rispetto reciproco, di stima e affetto. Nel nostro piccolo mondo, l’Italia era così lontana che era impossibile sentirne l’influenza; i nostri costumi i nostri usi, la nostra educazione, lo stesso concetto dell’amicizia, della vita, erano profondamente diversi. Spesso avevo sentito dire che gli anni di Università, la goliardia, non si potevano dimenticare, io invece ho serbato vivo il ricordo del Ginnasio – Liceo, soprattutto degli ultimi tre anni, quando non eravamo più bambini. Dovevano essere anni di studio intenso: alla maturità si portava il programma di tutti e tre gli anni del liceo, di tutte le materie. A settembre non si potevano riparare che due sole insufficienze, con la terza si ripeteva l’anno. Tuttavia non ci mancava il tempo, o meglio, riuscivamo a trovarlo, per divertirci. Proprio in quegli anni alcuni avvenimenti ci avevano elettrizzati. Nel 1930 era stata effettuata per la prima volta una trasvolata atlantica; era allora ministro dell’Aeronautica, se ben ricordo, il "quadrunviro e squadrista" Italo Balbo. Sotto la sua guida nel dicembre di quell’anno partirono dalla laguna di Orbetello i nostri aerei diretti nell’America Meridionale a Rio de Janeiro. Ricordo ancora l’entusiasmo della mia compagna di collegio, Margherita Cornacchia che, abitando appunto a Orbetello, ne conosceva tutti i particolari. Tre anni dopo la stessa impresa veniva ripetuta verso l’America Settentrionale, a New York; era il trionfo dell’Aeronautica italiana che ci riempiva di orgoglio. Tutto il mondo parlava di noi con ammirazione, quando nel gennaio del 1938 tre S. 79, guidati da tre piloti di eccezione, uno dei quali Bruno Mussolini, figlio del Duce, si levarono in volo dalla base di Guidonia (Roma) diretti a Dakar e a Rio de Janeiro. Sulla fusoliera erano dipinti i famosi "Sorci Verdi", a dimostrare quanto strabiliante fosse questa impresa. Ma prima altri avvenimenti avevano resa frenetica la nostra vita: il 3 ottobre 1935 in Africa i soldati italiani passavano il fiume Tacazzè che segnava il confine tra la colonia italiana dell’Eritrea e l’Etiopia, dando inizio a quella guerra che suonava come la vendetta per i massacri dei nostri soldati nella campagna del 1896. "Faccetta nera, piccola abissina…" Cantavamo sfilando per la Calle Larga, promettendo libertà, benessere, "una nuova patria, un altro re" e, naturalmente, una camicia nera, "sarai camicia nera pure tu". E ancora "Adua è liberata, è ritornata a noi…". In classe avevamo inchiodato a un parete una grande tavola di compensato e su questa la carta geografica dell’Africa Orientale. Con degli spilli e del nastro tricolore avevamo fatto tante bandierine e tutte le mattine alle 8 ci radunavamo nell’aula magna per ascoltare alla radio il "bollettino": i nostri soldati avanzavano da eroi occupando le terre del Negus Ailè Selassiè, venivano citate le località occupate e lì noi piantavamo le nostre bandierine; poi, fuori con bandiere e gagliardetti. E tutto si concludeva al solito modo, come se fosse un rito: "andemo dal Pivac"! poveraccio, cosa c’entrava con l’Abissinia ?

Quanto pochi giorni di scuola abbiamo avuto quell’anno ! La campagna iniziata il 3 ottobre, quindi all’apertura della scuola, si concluse il 5 maggio con l’occupazione di Addis Abeba, l’anno scolastico si chiudeva il 15 giugno. Avevamo fatto ben poco di latino, di greco, di filosofia… non sapevamo nulla della politica coloniale, dell’infelice campagna precedente; in compenso conoscevamo laghi, fiumi, ambe, altopiani di quel paese, lì avevamo occupati noi con le nostre bandierine tricolori ! Il pomeriggio del 9 maggio, tutta Zara in camicia nera, in divisa, si era raccolta in Piazza delle Erbe per ascoltare dalla viva voce del Duce la proclamazione dell’impero, l’Italia aveva il suo impero. E ancora una volta quella voce metallica, potente, trasmessa dagli altoparlanti, ci procurava i soliti brividi nella schiena, ci commuoveva fino alle lacrime, ci esaltava, ci sentivamo tutti eroi; era come se in quel momento anche noi entrassimo a far parte di quello stuolo di "santi, di martiri e navigatori" che avevano contribuito, nel tempo, a far grande l'Italia. Ora però, altro che eroi!. Anno scolastico’36/’37, seconda liceo: oltre ai normali programmi, dovevamo recuperare quelli dell’anno precedente non svolti, o svolti con la testa in Africa Orientale. Nel frattempo l’insegnante di scienze, prof. Marino aveva ottenuto il trasferimento ed era ritornato nella sua Sicilia. Eravamo un po’ razzisti, portati a non prenderlo sempre sul serio, a volte vittima di scherzi atroci; probabilmente se n’era andato proprio per questo. Fu sostituito da un giovane insegnante, siciliano pure lui, il prof. Lo Cascio, che non poteva assolutamente colmare tutte le nostre lacune. Resistette un anno, poi se ne andò. In 3 ° liceo verrà sostituito dal prof. Callestani, non più giovane, sordo come una campana. Rimanemmo anche senza l’insegnante di matematica e fisica, il prof. Paolo Mardessic , deceduto durante l’estate. Subentrò un giovane laureato, zaratino (mi pare si chiamasse Roic , ma non ci giurerei). Durò poco, al suo posto venne finalmente una persona seria, il prof. Belich (zio del giornalista Enzo Bettiza, autore del libro autobiografico "Esilio"). Accanto a lui, e con lui i professori Selem, Filippi, Inchiostri, Pescani, formavano un cast di insegnanti di tutto rispetto, che riuscirono a portarci alla maturità ben preparati.

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