Viaggio nella memoria

 

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Cap.1         kolane ( Pag)



La casa sorgeva in fondo alla radura, bianca, massiccia, coperta dal tradizionale tetto di rossi embrici; si stagliava nel grigio e nel verde della collina, dalle pendici della quale sembrava quasi nascere. Tre gradini, senza scorrimano, portavano ad un pianerottolo sul quale si apriva la porta d’ingresso.

Si entrava: una stanza spaziosa era occupata, sulla sinistra, da un divisorio in legno che ne faceva uno stanzino di sgombero. Sempre sulla sinistra, una porta si apriva nello studio di mio padre: uno scrittoio, due seggiole in legno e paglia di Vienna, numerosi scaffali pieni di libri: libri di meccanica, di ingegneria, di matematica, tutti delle edizioni Hoepli, romanzi di autori italiani e stranieri, un vocabolario di italiano, uno di francese, giornali, riviste; album di fotografie, che contenevano soprattutto immagini di me di pochi mesi, prese mentre me ne stavo prona col culetto all’aria, oppure seduta con l’alluce destro in bocca, ma sempre nuda. Sullo scrittoio era posato un calamaio in vetro di Murano con coperchio d’argento, souvenir portato da Venezia, e un portapenne con tante penne di vari colori; e ancora una scatolina piena di pennini e una stilografica, nera, con il pennino d’oro. Il cassetto centrale e quello di destra erano sempre chiusi a chiave; quello di sinistra, aperto, era pieno di orologi di ogni specie e marca. Papà ne cercava continuamente dai venditori di ferrivecchi (era il suo hobby) a Pag, a Novalija e a Zara, quando vi si recava per far provvista di zucchero e di caffè. Non funzionavano; lui trascorreva molte ore del suo tempo libero a cercare di aggiustarli, e spesso ci riusciva, magari di due facendone uno. Quel cassetto pieno di sferette, lancette, piccoli ingranaggi mi incantava; quando potevo metterci le mani, ero felice.

Di fronte allo scrittoio, sulla facciata della casa, si apriva una grande finestra con i battenti di legno tinti di un marrone rossiccio (tutte le finestre della casa erano come questa), e all’esterno, sotto di essa, ben puntellata nel terreno, stava, poggiata di lato, una grande botte di ferro di un color rosso rugginoso: un piano di legno, all’interno, ne faceva la cuccia C urlij, un magnifico setter nero e rosso la cui madre, Ljpica, era morta di parto.

Un’altra finestra si apriva alla destra dello scrittoio. Dall’ingresso, di fronte allo studio, si accedeva alla sala da pranzo, il tradizionale "tinello", con buffet, controbouffet, tavolo a fratina nel centro, e seggiole, tante seggiole, perché gli ospiti erano sempre numerosi. In fondo, sulla sinistra, si passava nella camera da letto di nonna Savina; io dormivo con lei. Ricordo l’armadio, con un grande specchio sull’anta centrale. Davanti a quello specchio, col passare degli anni, indossavo gli abiti di mia madre, sognando un futuro di donna; su quello specchio seguivo i lenti mutamenti del mio fisico, gracile e sgraziato.

Di fronte alla porta d’ingresso, ecco la cucina, una cucina enorme, con due stufe a legna e a carbone, sempre piena di pentole, tegami, padelle, caffettiere; una credenza conteneva piatti, bicchieri, tazze, posate; tutto il resto era su rastrelliere appese al muro; qua tutto l’alluminio, là tutto il rame, e ancora più in là vari oggetti smaltati, sempre tutto pulito, splendente. Al centro un grande tavolo quadrato, intorno al quale la famiglia si riuniva per il pranzo e per la cena.

Su un lato troneggiava mio padre, un bell’uomo che io giudicavo splendido e che adoravo, che ho sempre adorato fino alla sua morte, pur riconoscendo i suoi difetti e la colpa di aver distrutto la nostra famiglia; alla sua destra io e la nonna, a sinistra mia sorella Lydia e la mamma: ci voleva così, separate ma vicine a lui; separate non potevamo darci fastidio, non potevamo litigare, e nello stesso tempo eravamo a portata delle sue mani. Lontane, però, ci facevamo le linguacce, gli sberleffi; e lui prima ci fulminava con uno sguardo feroce, convinto di mettere paura, poi esclamava: " Allora, Dominus vobiscum !"; così dicendo apriva le braccia di scatto, come il prete sull’altare, ed erano sberle per tutte e due. Ma quello sguardo, col tempo, mi deve essere apparso molto meno feroce: ricordo che in più di una circostanza mi costava molta fatica trattenermi dal ridere; lui mi guardava negli occhi e capiva: "Cossa ti ga da rider, mona?", esclamava irato, subito zittito dalla nonna: "Dai, dai, fela finìa, magnemo in santa paxe! ’Sti do ebeti sempre a questionar!".

Dalla cucina si passava nella camera dei miei genitori, con loro dormiva Lydia: tutto bianco, armadio, comodini, sedie, letto, anche il lettino di mia sorella. I letti, tutti i nostri letti, erano chiusi da spesse zanzariere, inutile tentativo di difesa dalle enormi zanzare che regalarono a tutti noi la malaria. Ricordo le sofferenze della terzana, la febbre alta oltre i 40°, i brividi di freddo che ci facevano saltare nel letto come se ci avesse punto una tarantola, e il chinino che non voleva andar giù, si scioglieva in bocca diventando insopportabilmente amaro, e il bruciore allo stomaco, quando, per abbassare la temperatura, veniva usata la terapia locale: due zollette di zucchero sciolte in due dita di "rakija", l’acquavite fatta da nostro padre, che ci scuoteva come un ciclone; io avevo tre anni, Lydia neppure uno !! (Correva l'anno 1922, Lydia era nata il 29 gennaio). Guarimmo, la malaria venne sconfitta, ma a quale prezzo ! La nostra salute, il nostro fisico vennero irrimediabilmente compromessi: mia madre morì a 40 anni ,distrutta dalla tubercolosi che il suo fisico debole non fu in grado di combattere, mio padre a 61 anni morì di leucemia; si disse, perché intossicato da vapori di mercurio per un incidente sul lavoro, ma certamente non fu estraneo il cattivo funzionamento della milza dovuto alla massiccia dose di chinino assunta per tanti anni. Io, e soprattutto mia sorella, ci stiamo portando dietro irreversibili conseguenze. Solo la nonna seppe tener testa alla malaria: si dimostrò refrattaria alle zanzare, come all’idioma croato. Ricordo ancora quando a Rjk Zmoliver, un operaio della miniera, chiedeva: "Rjkj, donessime una vricina de carbuna", un croato tutto suo per chiedere un sacco di carbone.

E certo il carbone per uso domestico non ci mancava: di fronte alla casa, dove aveva inizio la radura, a una distanza di forse 300 metri, si apriva una enorme bocca nera, la "ugljenokop", la miniera di carbon fossile di cui mio padre era direttore. Più che una miniera, era una cava, a cielo scoperto, profonda 30/40 metri, al fondo della quale si accedeva per mezzo di gradinate scavate nel minerale e per un sentiero parallelo al piano inclinato sul quale, su rotaie Decauville, salivano e scendevano i carrelli che portavano il carbone alla stazione della teleferica, da dove venivano poi trasportati allo scalo di Luka Simun (Porto Simoni) per l’imbarco. Sulla destra della miniera, in una zona neutra, il carbone veniva separato dalla polvere che andava a formare vere e proprie collinette. Quello era il nostro regno, mio e di mia sorella: ci arrampicavamo a gattoni fino al culmine poi, posteci a sedere, scivolavamo fino in fondo con grande divertimento. Tornavamo a casa nere come…il carbone, con grande disperazione della mamma e della nonna che, munite di sapone, ci venivano incontro armate di idranti, perché, in quelle condizioni, non volevano che neppure ci avvicinassimo ai gradini di casa. Toglierci di dosso tutta quella polvere era veramente un grosso problema e, spesso, quella doccia finiva in lacrime, perché, esasperate le due donne ci propinavano sonori ceffoni. Ma il ricordo delle botte passava con il dolore e dopo qualche giorno la scena si ripeteva. Naturalmente nelle nostre monellerie non eravamo sole, con noi venivano i pastorelli di Kolane, il villaggio che distava dalla miniera un paio di chilometri. Erano i nostri amici: tutte le mattine arrivavano in fondo alla radura per portare al pascolo i maiali nei boschi di querce che allora si stendevano per lungo tratto, interrotti qua e là da spazzi pianeggianti ricoperti di erica, ginepro, salvia, rosmarino, zone di pascolo che donavano un sapore particolare alla carne di pecora e di castrato. Dal fondo ci chiamavano: "Brunu, Lydiu, doc ete, brzo !" (venite, presto) e noi correvamo via e spesso ritornavamo solo al tramonto. La mamma ci dava il pane bianco fatto da lei, il prosciutto, il formaggio fatto da nostro padre, ai piedi portavamo le "kjrice", calzari fatti di pelle di bovino. Loro, i nostri amici, Yure e Ante Babic , Anka, Ljubica e Genko Krstic erano scalzi, nella torbica (borsa a sacco) portavano il pasto per tutto il giorno: kruk, c rveni luk, mrkve, (pane nero, cipolle, carote). Facevamo il cambio, a loro le nostre provviste, a noi le loro, e mai abbiamo neppure immaginato che in quello scambio a rimetterci eravamo noi. Non solo, non potevamo sopportare "l’umiliazione" di avere le kjrice ai piedi mentre loro erano scalzi; così ce le toglievamo e le nascondevamo tra le siepi con l’intento di riprenderle al ritorno. Ma, ahimè, alla sera rincasavamo regolarmente senza le preziose kjrjce: o non riuscivamo più a identificare la siepe, o, cosa più probabile, qualcuno era passato prima di noi. Ed erano ancora una volta sberle !

Si potrebbe dedurre che la nostra vita fosse tutto un susseguirsi di ceffoni e lacrime. No! È stato il periodo più fantastico della mia esistenza: ero libera, crescevo come un virgulto che aveva bisogno di aria, di luce, di sole. A sette anni non sapevo ancora né leggere, né scrivere, non sapevo che cosa volesse dire domani; per me era soltanto un altro giorno di cui mi accorgevo quando aprivo gli occhi alla luce di un nuovo mattino, al sole di cui non potevo e non sapevo chiedermi se ne avrei visto il tramonto. La vita era correre all’impazzata nel vento, sotto la pioggia, sferzata dalla bora con C urlij che mi precedeva, che mi seguiva, che mi difendeva. Cavalcavo Ax, lo splendido cavallo per la cui morte ho provato un dolore insostenibile, il mio primo grande dolore. Mio padre, che si era aspettato la nascita di "Bruno", non di "Bruna", mi lasciava crescere come un maschiaccio, o meglio, come una selvaggia. Del resto, era occupato nella direzione della miniera, nel controllo dei numerosi operai, tutti croati e non tutti affidabili. Nei giorni di festa andava a caccia nella brughiera, tra i grigi sassi, i "grebani", (in croato è "greben", ma la nonna tendeva a "venetizzare" ogni espressione) e tornava a casa con il carniere pieno di quaglie, starne, pernici, beccacce, lepri. Spesso allungava il percorso fino al "blato" (fango) la palude che, più che un acquitrino, era una distesa fangosa coperta di erbe putrescenti: costituiva un buon luogo di sosta per gli uccelli migratori, ma era anche il regno incontrastato delle zanzare, le micidiali anofeli. Lo accompagnava C urlij come, prima di lui, lo aveva accompagnato sua madre Ljpica; allora il carniere era appesantito anche da qualche anatra selvatica. Capitava spesso che papà avvistasse all’orizzonte uno stormo di uccelli; dalla miniera telefonava alla nonna: "Mama, preparime ’l sc’opo che vegno su", e la nonna infilava nel Mauser a doppia canna le cartucce e correva incontro al figlio: due spari e per quel giorno il pasto era assicurato .

 

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