Viaggio nella memoria

 

cap1cap2cap3cap4cap5| cap6| cap7cap8cap9cap10cap11cap12cap13|

Home

Indice



Cap-14   Verso la solitudine

 

Qui finisce il viaggio nella memoria, ma ,prima di chiudere, il mio ricordo, il mio pensiero costante va a Beppe, mio marito, il padre dei miei figli.

In quel terribile periodo di degenza nell’ospedale di Olbia, Beppe aveva incominciato a rivedere il suo comportamento nei miei confronti. Mi ripeteva continuamente che, per quanti torti mi avesse fatto, io, io sola ero la donna che amava, e che non avrei mai meritato i suoi tradimenti. Sono sempre stata convinta che fosse così, ma questa convinzione non era mai bastata a impedirmi di soffrire. Comunque, sentirmelo dire personalmente da lui mi faceva piacere. In queste occasioni mi ripeteva con voce stanca che ero stata una buona madre e una brava moglie; e qui si interrompeva e con la consueta espressione tra il serio e il faceto, esclamava: "Mica poi tanto, però!" e mi rinfacciava, a ragione, di averlo sempre posposto ai figli, al lavoro, alla casa. "Ti ricordi, quella volta…" incominciava, e continuava a ricordare episodi a riprova di quanto affermava. E un giorno che gli dissi che, in fondo, anche lui aveva sempre messo avanti a tutto la scuola, e che aveva quindi le mie stesse colpe, si fece serio e mi aspettavo una vivace reazione, invece si mise a ridere (l’unica volta in cui lo vidi ridere in quel fatiscente ospedale), mi dette un buffetto sulla guancia e con gli occhi che si socchiudevano dietro le spesse lenti: "Bellina lei, mi disse, ma lo sai che la colpa morì fanciulla, perché nessuno la volle!!" Dopo la mia malattia, parlavamo spesso del bene e del male, delle gioie e dei dolori che avevamo condiviso per tanti anni; ma al centro dei nostri discorsi però c’erano sempre i nostri figli, di cui era orgoglioso; "sono bravi ragazzi, diceva, noi abbiamo anche commesso degli errori; loro, sono sicuro, non li ripeteranno, perché sono migliori di noi". Si attribuiva a colpa il fatto di non aver saputo dimostrare tutto l’amore che portava loro, di aver sempre agito più con prepotenza che con comprensione. Era convinto di essere nato per comandare: infatti se a casa era definito "piccolo ras", a scuola, la sua scuola di Colle, era chiamato "Big Joseph". In realtà era un uomo timido che della prepotenza aveva fatto il suo scudo. Osservando le fotografie di quando era bambino, si nota un ragazzino magro, gracile, con certe gambine stecchite. Spesso (me l’ha raccontato lui più di una volta e l’ho sentito raccontare dalle sue sorelle) spesso, dicevo, era stato costretto a subire l’esuberanza fisica del fratello Ugo, che non dimostrava certamente di avere quasi due anni di meno. Riservato lui, espansivo e spaccone il fratello, si trovava quasi sempre in stato di inferiorità. Volontà e intelligenza dovevano portarlo fuori da questa situazione. Cominciò con lo sport fatto con grandi sacrifici e con risultati da primato. Volle intraprendere la lunga e dura via del liceo classico e dell’Università (ai tempi nostri era veramente dura) mentre i suoi fratelli avevano scelto l’istituto tecnico per geometri. Non so quanto primeggiasse al liceo, ma all’università ero io il suo termine di confronto. Non c’era esame che io potessi sostenere prima di lui, anche se l’avevamo preparato insieme; soffriva visibilmente se un suo voto era inferiore al mio; ma mai una sola volta, ha dimostrato piacere per aver fatto meglio di me. Il giorno della laurea, ricordo, in ordine alfabetico, io ero seconda, lui quinto. Aveva giurato che si sarebbe laureato prima di me, e ci riuscì: si presentò in divisa da ufficiale dei Bersaglieri; che cosa abbia combinato, non me l’ha mai detto, sta di fatto che a discutere la tesi fu chiamato per primo, io passai terza. A discussione conclusa, dopo la proclamazione ufficiale a "Dottore in Lettere", tutto pimpante venne a sedersi accanto a me: "Hai visto che ce l’ho fatta?" mi disse, "io sono laureato, tu no!" Era fatto così, bisognava capirlo e io spesso non ho voluto o saputo capirlo. Quando venne a trovarmi, la prima volta, all’ospedale, nella mia ultima degenza, mi disse: "O brava! Te ne volevi andare zitta, zitta, senza dirmi nulla, e senza di me!" Parlava sul serio? Dopo tre mesi se n’è andato lui e senza di me. Anche questa volta è voluto passarmi avanti, arrivare prima di me; mi ha lasciata indietro come quando uscivamo insieme, lui avanti di tre, quattro metri, io dietro. Ma questa volta, precedendomi si è portato via gran parte di me, ha lasciato un vuoto, un silenzio che mi opprimono. Mi manca la sua presenza fisica, mi mancano quei rumori che mi accompagnavano durante tutta la giornata: al mattino, quando si svegliava, i rumorosi, ripetuti starnuti, i suoi colpi di tosse, lo sfrigolio dell’ossigeno, la sua musica, la sua voce, i suoi passi strascicati; tutti rumori che, anche se lui era in terrazza con le sue piante, o nello studio con i suoi diari, mi dicevano che c’era, che era vivo, che era qui con me. Non li sento più quei rumori, perché lui non c’è più.

FINE

Siena , 29 dicembre 1997



cap1cap2cap3cap4cap5| cap6| cap7cap8cap9cap10cap11cap12cap13|