Viaggio nella memoria

 

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Cap-10   Un matrimonio di guerra

 

Ma i miei ricordi ritornano al matrimonio: finita la cerimonia, consacrata ufficialmente "signora Del Grande", ritornammo a casa come prima, pigiati in quell’unica macchina. Vi arrivammo mogi, ciascuno per un suo segreto motivo e… molli. Dalla macchina al portone di casa c’era lo spazio di un marciapiede, neppure tanto largo, ma fu sufficiente perché quell’acquazzone tropicale ci ammollasse ben bene. Ci aspettava il pranzo nuziale preparato dalla Rika il giorno prima: spaghetti al ragù, arrosto, patatine fritte; un pranzo da signori, che il supplemento della carta annonaria ci aveva permesso per l’occasione. E la torta? E lo spumante? Quanta tristezza! Nel pomeriggio prendemmo il treno per Signa. Beppe si mise in borghese, io mi ero già cambiata l’abito da sposa, perché bagnato, fradicio, e, via! partenza per il viaggio di nozze, la nostra luna di miele da trascorrere a Viareggio (non c’ero mai stata). Giunti a Pisa però, scendemmo e prendemmo alloggio all’albergo "La Pace" in Piazza della Stazione. E… andiamo avanti. La mattina successiva il mio sposo mi portò a conoscere i parenti pisani, zii e cugini da parte di madre. Che strazio! Allusioni, gomitate, strizzatine d’occhio, mi mettevano a disagio e mi davano non poco fastidio. Poi da Pisa mi portò a Livorno a conoscere i parenti Del Grande, razza diversa; c’era solo una zia, gentilissima e molto discreta. Nella tarda serata finalmente giungemmo a Viareggio. Sostammo in un alberguccio e andammo a cena in una trattoria; con la tessera annonaria ci fu servita una "sbroscia" di verdura e peperoni. L’oste, così giovani e spaesati, ci scambiò per una coppia clandestina e, con molta discrezione, offrì a Beppe una camera: "Ma è mia moglie!" reagì indignato. L’indignazione era fuori luogo perché sarebbe stato sufficiente esibire il certificato di matrimonio, obbligatorio per legge, di cui eravamo forniti. Dimenticanza? No! Risultava che sposini più freschi di così non potevamo essere, e tutti e due eravamo stufi di allusioni. Rientrati in albergo, trovammo un telegramma di sua madre (Beppe le aveva lasciato l’indirizzo prima di lasciare Signa), che ci invitava a ritornare a casa, perché "babbo stava molto male". La nostra luna di miele si stava trasformando in luna di fiele. Il babbo non stava bene, ma non stava certamente peggio di quando l’avevamo lasciato il giorno prima. Grande fu la sua meraviglia nel vederci. Messo al corrente del telegramma, fece una scenata alla moglie: "Dio campanello, (era l’espressione solitamente usata), ma che t’è preso ? Non li potevi lasciar in pace ’sti du ’ragazzi!" E allora ? La signora Gemma non mi voleva per nuora e se avesse potuto spezzare con le sue mani il nostro legame, visto che non era riuscita a impedirlo, l’avrebbe fatto anche a costo di rimanere monca. Non ero la donna che lei aveva sognato per suo figlio. Se mio padre e mia sorella ritenevano che Beppe non facesse per me come marito per il mio carattere indipendente, ribelle e autoritario, sua madre, nella quale io, privata troppo presto della mamma e con una matrigna che non sopportavo, avevo sperato di ritrovarla, mi detestava. Il mio carattere non c’entrava; non ero toscana, (moglie e buoi dei paesi tuoi, era il ritornello ricorrente): avevo due imperdonabili colpe, ero figlia di un padre separato dalla moglie, fuggito con la "ganza" e convissuto con lei per anni mentre mia madre era sempre viva, e, cosa molto importante, non ero ricca. Mentre la moglie del figlio maggiore e la fidanzata del figlio minore, erano danarose, con alle spalle genitori proprietari di case e terreni, io, figlia di un impiegato statale, avevo solo la mia laurea; avrei avuta una professione, ma solo questo mio padre aveva potuto darmi, dopo il crollo economico della mia famiglia, conseguente alla sua fuga con la Rika. Inoltre aveva messo gli occhi su una sorella della fidanzata del figlio, una bella ragazza, della stessa età di Beppe, e non si capacitava al pensiero che lui, Beppe, avesse preferito me! Solo mio suocero, che mi aveva accettata come una figlia, mi difendeva: "case e terreni possono andare in malora, diceva, la professione resta".

A Signa dunque trascorremmo il resto della licenza (un mese) cui Beppe aveva diritto. Fu un periodo di umiliazioni angoscianti: cercavo di rendermi utile aiutando mia suocera nelle faccende domestiche; se spazzavo, ci ripassava lei brontolando, se lavavo i piatti, lei li risciacquava. Non le andava bene niente di quello che facevo. Al pomeriggio spesso andavamo nella camera che ci era stata assegnata (era quella di Beppe con un letto a una piazza e mezza) e stavamo lì a parlare, a fare, o meglio, ad azzardare progetti per il nostro futuro, a cercare di organizzare la nostra nuova vita. Spalancava all’improvviso la porta urlando che in casa sua le porte stavano aperte. Un pomeriggio ci trovò sul letto, sdraiati, vestiti, che parlavamo: uscì sbattacchiando la porta e gridando: "ne ho visti sposare tanti, ma nessuno che "stasse" tanto a letto come loro!" Quei 28 giorni finalmente passarono e partimmo per Siena. Per qualche settimana ci sistemammo, con un po’ di disagio, nella camera da lui occupata prima del matrimonio, un divano-letto singolo, un tavolino, una seggiola, un armadietto. L’attendente, Bonaccini, romagnolo, mi portava il pranzo e la cena dalla mensa ufficiali. Non ero una sposa felice. Mio marito era sempre in caserma, spesso anche di notte, ed io me ne stavo tutta sola a pensare… a pensare dove mi avrebbe condotta quello che ormai, data la situazione, ero sempre più portata a considerare un salto nel buio. Poi ci trasferimmo in una camera ammobiliata con uso di cucina. Non ero più sola, inoltre avevo qualche cosa da fare durante la giornata. Fu allora che imparai a cucinare: l’attendente si era accorto che non sapevo da che parte rifarmi e, con molto tatto, si offrì di preparare lui i nostri pasti, mentre io aiutavo, seguivo e imparavo. La sera, quando Beppe era libero dal servizio, c’era poco da scegliere, con l’oscuramento e il coprifuoco: qualche ora trascorsa con altri ufficiali e le loro mogli, qualche rapida girata in città, qualche film. Di quel periodo ricordo una pellicola strappalacrime con Alida Valli, "Addio, Kira". Con questo ritmo piuttosto monotono, si arrivò al 30 novembre: il reggimento si trasferiva a Pordenone; la solita sistemazione, camera con uso di cucina. Qui trovai due amiche, la moglie del capitano Quaranta, tarantina, madre di quattro rampolli con il quinto in arrivo, ed Elisabetta Picchi, moglie di Nanni, da Buonconvento, un caro amico e collega di Beppe. Avevano un figlio, Piero, e Sergio in arrivo. Non stavo bene in quel periodo, al malessere psicologico si era aggiunto quello fisico, spiegato verso la fine di dicembre: aspettavo un bambino, il mio primo bambino, un figlio che sarebbe stata una figlia, la mia Luisa. Passammo quel Natale del 1942 tutti insieme, gli ufficiali con le loro famiglie in un ristorante della città: si sapeva che noi mogli saremmo dovute ritornare alle nostre case e che i nostri uomini sarebbero partiti per "destinazione ignota", che significava, per uno dei tanti fronti sui quali combattevano i nostri soldati. Il giorno dell’Epifania, 6 gennaio ’43, Beppe mi riportò a casa; non avevamo una casa nostra e, tra riportarmi a Firenze dai miei, o a Signa dai suoi, optò per questa seconda decisione. Cosa avrei fatto senza di lui, senza il suo appoggio, in una famiglia dove mi sentivo quasi un’intrusa? Mio suocero capì il mio stato d’animo e, senza dirmi nulla, si recò personalmente dal Provveditore agli studi di Firenze per chiedergli per me una cattedra, visto che gli uomini, chiamati alle armi, lasciavano posti vacanti. Mi fu assegnata la cattedra di latino e greco al Liceo "Michelangelo" di Firenze, in Via della Colonna. Avevo tanta paura di non essere capace, di non avere la preparazione sufficiente, ma accettai; accettai perché la buona volontà di mio suocero non divenisse inutile, accettai perché "volevo" avere dei soldi miei, guadagnati con il mio lavoro. Entrata a far parte della famiglia, mia suocera aveva subito messo in chiaro una cosa, dovevo contribuire al mio mantenimento: era più che giusto, visto che mio marito mi spediva parte del suo stipendio. Ma la "signora Gemma" non voleva denaro del figlio, non lo voleva assolutamente, il che aveva una sola possibile, logica, interpretazione: o lavora, o levati dai piedi. Accettai con la promessa a me stessa che ce l’avrei fatta. Era il mio primo insegnamento veramente impegnativo. Avevo 23 anni, in III liceo, alcuni pluriripetenti avevano quasi la mia età, in I° liceo c’era Luisa, detta Lilli, mia cognata; a maggior ragione dovevo riuscire; anche questa volta orgoglio e amor proprio ebbero il sopravvento; mi misi a studiare con pignoleria e pazienza certosina, facevo tesoro anche dell’esperienza fatta all’istituto "Lenardon". Alla mattina con la Lilli prendevo il treno e andavo a Firenze, per fare ritorno a Signa alla fine delle lezioni. Ma la gravidanza mi dava non pochi disturbi e quel viaggio quotidiano diventava sempre più gravoso. Anche questa volta mi venne incontro babbo Umberto: prese in affitto a Firenze un alloggio in Via del Ponte alle Mosse dove ci trasferimmo tutti, con grande soddisfazione della Gemma che così evitava alla "su bimba" alla Lilli, il disagio del viaggio e i pericoli cui poteva andar incontro in treno! Purtroppo le condizioni di salute di babbo Umberto peggioravano di giorno in giorno, non digeriva, rimetteva il cibo quasi allo stato naturale. Ero l’unica persona in grado di capire che la situazione si faceva preoccupante: la Lilli era troppo giovane, sua madre troppo occupata a controllare me e a preoccuparsi per la figlia; non sopportava che io ne fossi l’insegnante e che avessi il compito, il dovere di giudicarla e classificarla. Beppe, posta militare 78, si trovava in Provenza, la Francia era stata già occupata da forze militari italo-tedesche; gli scrissi che, a mio modesto parere, il cibo non usciva dallo stomaco, come se al piloro ci fosse un’ostruzione. Ne furono informate le altre figlie, Vittoria e Lebda, che convinsero il padre a farsi visitare da un gastroenterologo: la diagnosi fu agghiacciante, cancro. A lui fu detto che si trattava di ulcera gastrica, ma era troppo intelligente per non capire che quella era una pietosa bugia. Fu deciso l’intervento chirurgico, reso più problematico e preoccupante dal fatto che il paziente soffriva da sempre di diabete, e allora non c’erano i mezzi di controllo che ci sono oggi. Come sempre succede, l’operazione era riuscita "perfettamente", ma dopo una settimana, quando già si parlava di dimissione, all’improvviso cessò di vivere. Era il 24 maggio 1943, aveva 58 anni!

Quel 24 maggio era anche l’ultimo giorno di scuola. La guerra andava male, i nostri soldati, male equipaggiati, armati ancora peggio, perivano in Russia, in Africa, dovunque si combattesse a fianco dei tedeschi. L’entrata in guerra degli U.S.A. in seguito all’attacco proditorio del Giappone a Pearl Harbor (6/12/41) era stato determinante; ormai si temeva, e non a torto, l’invasione del nostro stesso territorio e ci si preparava al peggio. Beppe era venuto in licenza per il ricovero del padre; quel giorno era venuto a prendermi alla fine delle lezioni, andammo all’ospedale di Careggi a salutarlo: "Porta Bruna a Signa, gli disse, non vedi com’è stanca con quella pancia! Falla riposare, ne ha bisogno!" Lo lasciammo sicuri di riaverlo presto a casa. Il tempo di raggiungere la stazione, prendere il treno, arrivare a Signa: un’ora? Due ore? In quello spazio di tempo tanto breve, la sua esistenza si era conclusa, se n’era andato per sempre. Ne soffrii molto. Beppe ritornò al suo reggimento, noi lasciammo l’appartamento di Firenze, e ritornammo a Signa; ma nel mese di luglio fummo costrette a sloggiare: la casa apparteneva al Genio Civile di cui mio suocero era funzionario; morto lui, la famiglia perdeva il diritto di abitarla. Così depositata tutta la mobilia in un magazzino a Lucca, ci rifugiammo in casa di Vittoria, la zia Vittoria, in Via Alfredo Catalani, in attesa di trovare un appartamento da affittare. La casa di Vittoria era piccola: soggiorno, cucina, una camera. In questa dormivano la Lilli con sua madre e Vittoria con Pepi, il pestifero figlioletto di 3 anni. Il marito, lo zio Guido, era a Siena, sottufficiale in S.P.E. Per la Lilli e per sua madre la convivenza non creava problemi, era come se fossero a casa loro, io invece mi trovavo a disagio, : ero all’ottavo mese di gravidanza, dormivo nel piccolo soggiorno su un divano, senza un minimo di privacy, senza niente di mio, in casa di una cognata, il cui affetto, interesse, gentilezza non mi impedivano di sentirmi un’estranea; e in cuor mio mi rammaricavo di non aver insistito per rimanere a Firenze da mio padre; ma Beppe aveva deciso così e così fu.

In quel mese di luglio gli avvenimenti si susseguirono a ritmo serrato: il giorno 10 gli Alleati, come da tempo si paventava, sbarcarono in Sicilia e risalivano vittoriosi la penisola, nonostante l’eroica resistenza dei nostri soldati affiancati dalle truppe tedesche. Il giorno 30, con quasi tre settimane di anticipo, alle 8 del mattino, nasceva la mia Luisa, ero MAMMA! Era uno scricciolino di meno di due chili, venuta al mondo senza procurarmi alcuna di quelle lunghe sofferenze, che, nei racconti di mia suocera mi spaventavano. Fu un travaglio brevissimo e un parto rapidissimo. Ora più che mai sentivo la mancanza di mio marito che la sorte aveva privato della gioia di vedere la sua prima creatura appena uscita dal mio ventre, di sentirne il primo vagito. Volli che fosse subito telegraficamente avvisato, ma il telegramma, destinato in zona d’occupazione in Provenza, dovette essere dirottato a Torino, dove il reggimento si era trasferito per ragioni di ordine pubblico. Infatti dopo lo sbarco alleato, dopo le rovinose spedizioni in Grecia e in Russia, era chiaro che Mussolini in qualità di comandante supremo delle forze armate di terra, di mare, di cielo, non era più in grado di controllare una situazione sempre più critica, disperata. Per questi motivi (siamo sempre nel 1943) il Gran Consiglio del Fascismo colse l’opportunità di approvare contro il Duce un ordine del giorno presentato dal Presidente della Camera (mi pare fosse questa la sua carica in quel momento) Dino Grandi. Il giorno successivo il re revocava a Mussolini il mandato di governo e lo faceva arrestare; trasferito a Ponza, poi alla Maddalena, fu infine portato sul Gran Sasso a Campo Imperatore. Era la fine del Fascismo, la fine di un uomo politico che aveva commessi errori fatali, ma che aveva anche molti meriti, troppo presto dimenticati dagli Italiani, molto abili nel virar di prua quando cambia la direzione del vento. Era anche la fine dei nostri sogni, delle nostre illusioni. Per la nostra generazione, soprattutto per noi giovani, era apparso come "il campione dell’audacia, della gioventù, del nuovo, e insieme il garante d’un viver ordinato, saldo nelle sue impalcature tradizionali; vindice della patria e dei diritti degli Italiani… volitivo realizzatore di grandiose opere di pace, sollecito del benessere dei lavoratori, e insieme sostegno degli industriali e agrari" (Dizionario Enciclopedico Italiano Treccani – Tomo VIII, pag. 198). Breve fu peraltro la sua prigionia: il 12 settembre fu fatto evadere con un audace colpo di mano, da paracadutisti tedeschi guidati da un eroe, Otto Skorzeny, e portato in Germania, da Hitler. E da Hitler fu rispedito quasi subito in Italia a reggere quella Repubblica Sociale Italiana durata fino all’aprile del ’45, che divise gli Italiani in una dolorosa e sanguinosa guerra civile.

Tutto questo e il fatto che da tempo non avevo notizie di mio marito mi riempiva di sgomento e di paura. La piccolina non cresceva, non aveva la forza di succhiare il mio latte; dovevo "mungermi" con il tiralatte e darglielo a cucchiaini; in genere dormicchiava il giorno e piangeva tutta la notte. Ero stanca, sfinita, sfiduciata, in lotta continua con mia suocera perché non la fasciavo come un salame, perché non volevo che la cullasse andando su e giù, avanti e indietro con la seggiola, perché facevo di tutto per allattarla a intervalli regolari. Ad aumentare la mia ansia, ci si mettevano anche i bombardamenti, intensificati dopo lo sbarco alleato in Sicilia. Al segnale d’allarme aereo, fosse giorno o notte, tutti coloro che non avevano la possibilità di scendere in un rifugio antiaereo, scappavano; Vittoria con Pepi, la Lilli con sua madre, prendevano la bicicletta e se la davano a gambe verso lo spazio alberato alle porte del Cimitero, presso il fiume Serchio, zone lontane dalla stazione ferroviaria, sempre cercata dalle bombe alleate, ma mai centrata. Io non avevo una bicicletta, e anche se l’avessi avuta? Prima del parto non mi sarei azzardata a usarla per paura di nuocere al nascituro, dopo, con quell’esserino, come avrei potuto farlo? Così me ne restavo da sola in casa con la mia bambina a pregare Dio perché le bombe cadessero una buona volta sulla stazione e risparmiassero le abitazioni civili. Venne e passò agosto, e venne settembre. La mattina del 4, verso le 4, 30/5, mentre, passata una notte insonne, cercavo di addormentare la bambina, sentii nell’atrio il rumore di un passo particolare, come di stivali militari: finalmente era Beppe ! Aveva ottenuta una breve licenza per venire a conoscere la sua piccolina che aveva già più di un mese di vita. Sarebbe ripartito dopo quattro giorni, l’8 settembre. Furono giorni, meglio ore, di gioia per averlo vicino, di lacrime perché se ne sarebbe riandato.

La sera dell’8 settembre, alle 20, eravamo in cucina intenti a cenare. La radio era accesa, aspettavamo le ultime notizie, poi Beppe avrebbe raggiunto la stazione; il treno per Pisa, Genova, Torino partiva alle 21. Ed ecco che il nuovo capo del governo, Maresciallo Badoglio, annunciava ufficialmente al popolo italiano l’armistizio con le forze alleate, firmato segretamente a Cassibile cinque giorni prima, Hurra! La guerra è finita, Beppe non dovrà lasciarmi un’altra volta. No! "La guerra continua!" Io piango, piangiamo tutti, ma nessuno di noi sa esattamente perché pianga. Soltanto Beppe ha le idee chiare: "Ma non capite, dice, è la fine dell’Italia; abbiamo tradito i nostri alleati tedeschi e sono qui, nella nostra terra. Devo partire, devo raggiungere il mio reggimento. Sono un ufficiale, ho prestato giuramento di fedeltà al Re e alla Patria. Se restassi sarei un traditore!" Nessuno parla, ha ragione, nessuno ha più voglia di mangiare. La guerra è finita solo in teoria, in realtà ora più che mai entriamo in guerra: la nostra patria è diventata campo di battaglia: quell’armistizio, che strano!, ci ha trasformati in alleati dei nostri nemici, e in nemici dei nostri alleati! E’ il caos. Le truppe italiane si sfasciano, al grido "tutti a casa" abbandonano le postazioni. Molti ce la fanno a ritornare a casa, ma altri fulmineamente disarmati dai tedeschi, vengono deportati in Germania. Lo stesso giorno dell’armistizio (mi pare) il generale americano Clarck sbarca a Salerno con la V armata. Beppe parte, non sa che il suo reggimento non è più a Torino: durante la sua assenza si era spostato a sud per arginare l’avanzata delle forze anglo-americane, era stato bloccato sull’Appennino dall’improvviso armistizio. Mio marito non potrà andare oltre Genova e con mezzi di fortuna e grande rischio, il giorno seguente, 9 settembre, ritornerà a Lucca. Era determinato a regolarizzare la sua posizione militare; fu un continuo peregrinare dal distretto militare di Lucca a quello di Siena, e da questo a quello di Firenze. Ma il caos era enorme e nessuno (quando c’era qualcuno) aveva disposizioni precise. Non restava che darsi alla macchia per evitare di finire in mano ai tedeschi. Si rifugiò all’Arsina, proprietà in gran parte dei Petrocchi, Olinto ed Elena (seniores) suoceri di Angelo e di Lebda. Il fratello Ugo stava subendo la stessa sorte; ma mentre Beppe era ufficiale di complemento, Ugo, uscito fresco fresco dall’Accademia Militare di Modena ufficiale in S.P.E. e assegnato non so a quale reggimento di Alpini, si trovava allo sbando in seguito all’armistizio. Di Angelo, il fratello maggiore, non si sapeva niente, se non che Creta, dove si trovava volontario con i "Battaglioni della morte", era stata occupata dalle forze alleate. Se era sempre vivo, non poteva che essere prigioniero, ma dove?

La creazione della Repubblica Sociale (di Salò, sede del governo) o Repubblichina, come veniva chiamata, dominava nel centro-nord dell’Italia, dove truppe italiane resistevano al fianco dei tedeschi; aveva riportato una parvenza di ordine che consisteva soprattutto nell’andare alla ricerca di tutti coloro che dopo l’8 settembre figuravano latitanti. Beppe e Ugo furono più volte cercati a casa nostra a San Concordio, dove avevamo trovato finalmente un alloggio in affitto. Insistevamo nel sostenere che non avevamo da tempo notizie sulla loro sorte. Ma per quanto avremmo potuto ancora resistere? La situazione si faceva pericolosa e sfollammo anche noi all’Arsina in casa di una contadina. Intanto a Lucca i tedeschi affiancati da pochi fascisti irriducibili che non avevano accettato l’armistizio e lo consideravano un tradimento, facevano continue retate: i malcapitati avevano poco da scegliere: o accettavano di arruolarsi nelle forze italo–tedesche, aderendo alla Repubblica Sociale, o venivano deportati nei campi di lavoro in Germania. In realtà chi comandava ancora erano gli scagnozzi di Hitler; Mussolini, finito nel fisico e nel morale, era soltanto uno strumento nelle loro mani.

Con Beppe, e più tardi anche con Ugo, erano molti i giovani imboscati all’Arsina. La loro incolumità era affidata alle donne: contadine vere o false si sparpagliavano tutti i giorni per le prode coltivate che dal villaggio scendevano fino alla strada maestra, la strada che portava a nord, verso il Brennero; lavorando e fingendo di lavorare, la sorvegliavano. Al minimo sospetto di pericolo, il grido "Caroolaaa", rimandato come un richiamo di proda in proda, giungeva in paese e i giovani sparivano nel vicino bosco, dove alla sera, muniti di coperte e guanciali, andavano a passare la notte. Ma se pioveva, erano costretti a rimanere in casa. Per Beppe, a turno, facevamo la guardia io e sua madre; in genere lei vigilava fino alla mezzanotte, io fino all’alba; spesso stavo di vedetta tutta la notte, di lei mi fidavo poco, tendeva ad assopirsi.

Quanti episodi ci sarebbero da raccontare! I ricordi si accavallano in disordine e rivivere quei momenti rinnova il dolore, la paura. Ricordo la notte terribile trascorsa svegli, io e Beppe, a parlare, a parlare… Ugo aveva preso una decisione, non poteva continuare così, nell’inattività, mentre la gente combatteva per sopravvivere, mentre militari e civili continuavano a morire: avrebbe cercato di raggiungere le formazioni partigiane al nord. Beppe avrebbe voluto seguire il fratello, ma l’esistenza mia e di sua figlia, lo metteva in crisi. Al primitivo entusiasmo era subentrata l’incertezza, la preoccupazione per noi due. Si aspettava da me un consiglio, un aiuto; ma io potevo dirgli solo questo: "Agisci secondo coscienza, non lasciarti condizionare. Prendi una decisione e che sia quella". Secondo lui io non volevo responsabilità, e forse aveva ragione; e cosa avrei dovuto fare? Spingerlo ad andarsene? e se non fosse più ritornato? chi mi avrebbe sottratto al tormento dei rimorsi? farlo restare? E se un giorno, pentito di aver seguito il mio consiglio, me lo avesse rinfacciato, me ne avesse fatto una colpa? No, no, e no! doveva decidere lui, lui solo. Ugo partì, lui rimase. Quante volte mi sono sentita in colpa, quante volte mi sono detta che se io non ci fossi stata, se non ci fosse stata nostra figlia, avrebbe seguita la sua strada, la sua sorte ! Quale sarebbe stata la sua sorte?

Altri episodi oggi ci fanno sorridere, ma allora bastava il volo di una mosca più rumoroso del solito per gettarci nel panico. Una mattina all’alba i tedeschi arrivarono, chissà per quale via, senza che nessuno se ne accorgesse, Beppe dormiva tranquillo, era rimasto in casa anche se la notte era serena. Improvviso il rumore di passi, stivali militari, e il grugnire spaventato di un maiale. Mio Dio, i tedeschi erano lì., a due passi. Quale sarebbe stata la loro reazione se si fossero accorti di essere stati scoperti? Meglio far finta di niente e aspettare, aspettare con il tremito addosso e il cuore che sembrava impazzito. I tedeschi quella volta non erano venuti a cercare gli uomini, si portarono via un maiale dei Petrocchi. Nella fretta di scappare, visto che l’animale continuava a dar fiato alle trombe, dimenticarono appoggiato ad un albero, un fucile mitragliatore. Esisteva un decreto che permetteva alle vittime di razzie, di recarsi al comando tedesco per ottenerne il risarcimento, presentando naturalmente prove inoppugnabili. In buona fede il "sor Olinto", prese il mitra e seguì la prassi suggerita dal decreto. Non l’avesse mai fatto! Altro che risarcimento. Rischiò di essere accusato, lui, del furto del mitra. Un’altra volta, sempre con la stessa strategia e sempre al sor Olinto, portarono via la mula; ma il derubato fece tesoro dell’esperienza passata e incassò il colpo.

Io ero diventata la sarta del villaggio; mi arrangiavo a tagliare e cucire qualsiasi indumento: grembiuli per i bambini, fatti con lenzuoli vecchi che le contadine tingevano di rosso o di blu con il "Super Iride" nel paiolo della polenta, camicie da uomo con colletti da divisa napoleonica, giacche piuttosto "particolari". In cambio ottenevo pane, olio, farina., a volte un pollo, generi che ci permettevano, tutti i giorni, di mettere qualche cosa sotto i denti. Non era facile la vita: mancava tutto, il denaro non serviva a niente, nessuno lo voleva. Durante quel periodo, per avere una scodella di zuppa calda, ho tagliato legna nel bosco, ho vendemmiato, ho mietuto il grano e ho continuato a grattarmi per giorni e giorni. Continuavo a dare il mio latte alla bambina integrando i pasti con farina di grano e latte di mucca diluito. Aveva un anno, camminava, incominciava a parlare. Mi saltava sulle ginocchia e "mamma, nenne" diceva. E’ stato il periodo più triste e doloroso che io abbia vissuto. Si viveva alla giornata, i sogni fatti la notte cadevano all’alba di un nuovo giorno, senza sapere che cosa ci avrebbe riservato, timorosi di non arrivare alla sera; il pericolo era sempre lì, pronto a ghermire noi o i nostri cari. L’Arsina si trovava tra Lucca e la "linea gotica" dove si erano attestati i tedeschi all’avanzare delle truppe alleate. Giunti gli anglo–americani a Pisa e poi a Lucca, sentivamo sopra le nostre teste il miagolio degli obici che cadevano, gli uni sulle forze vincitrici, gli altri sui tedeschi, sulle postazioni, appunto, della linea gotica, con la quale le truppe germaniche cercavano di sbarrare la via del Brennero. Incertezza, paura, disagi non ci abbandonavano mai. Per fare il bucato, in pieno inverno dovevo recarmi al torrente, il "Tramito" e, inginocchiata sui sassi, lavare nelle sue gelide acque. Mi ero fatta secca come uno stoccafisso, con i nervi a pezzi. Beppe poteva fare ben poco, era già abbastanza problematico eludere i tedeschi. Alla sera, con grave rischio e pericolo, si chiudevano le finestre (vigevano oscuramento e coprifuoco) e si ascoltava la proibitissima "Radio Londra" che ci dava notizie sulla guerra più attendibili dei nostri bollettini dati dalle stazioni dell’EIAR (ente italiano audizioni radiofoniche). Seguivano i messaggi speciali in codice per la Resistenza, e ce ne chiedevamo il significato; chissà cosa voleva dire "le pere non sono mature" o "le scarpe sono strette", o "la neve è caduta". Così il tempo passava, avanzavano i "liberatori", si ritiravano sconfitti i "nemici". I "liberatori" liberarono Lucca; poiché si era sparsa la voce che all’Arsina c’era un gruppo di tedeschi in fuga, ci bombardarono per un giorno e una notte, mentre il sor Olinto aveva fatto della sua cantina un rifugio di fortuna. Beppe era a Lucca e, in seguito al bombardamento non gli era stato possibile rientrare. Cessato il fuoco, i pochi abitanti lasciarono il paese; anche mia suocera con la Lilli, presero la bicicletta e se ne andarono. Chiusa nella cantina dei Petrocchi rimasi io sola con Luisella, mentre i soldati alleati occupavano anche l’Arsina, convinti di trovare i cadaveri di quel gruppo di tedeschi, mai esistito. Cosa provai? Un terrore pazzesco, terrore che la bambina si mettesse a piangere, terrore che mi scoprissero sola, indifesa. Sentivo i loro passi. Poi la voce di mio marito che, disperato, mi cercava. Finalmente avremmo potuto ritornare a casa. Quale casa? A San Concordio con chi mi aveva abbandonata tutta sola in quel paese deserto? No, avrei lasciata l’Arsina solo per passare in una casa mia, una tana, un buco, ma noi tre soli; non avrei più sopportata una coabitazione del genere. Rimanemmo sfollati ancora per un mese, o poco più; fu trovato un alloggio fatiscente in un altrettanto fatiscente palazzo in Via Busdraghi. Più povero, più vuoto e disadorno non poteva essere, la miseria trasudava da ogni crepa dei muri, ma era casa "MIA", dove potevo finalmente vivere con mio marito e mia figlia, senza insopportabili interferenze. Nella città la vita riprendeva, a poco a poco si ritornava a una quasi normalità. Beppe ottenne una cattedra alla scuola media di "Corte Portici", io, forte del mio precedente incarico al liceo classico di Firenze, ebbi la cattedra di latino e greco al locale liceo classico "Machiavelli". La guerra aveva creato molti studenti desiderosi di recuperare gli anni perduti, abbondavano quindi le lezioni private. Cominciammo a "rimpannucciarci" e a toglierci tanta fame trascurata. Potemmo ottenere notizie dei miei da Firenze e mio padre venne a Lucca a conoscere la sua prima nipote, aveva due anni e qualche mese. Le portò una bambola molto bella, peccato che avesse la testa di porcellana: ebbe vita brevissima, non arrivò alla sera.

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