Viaggio nella memoria

 

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CAP-7   Addio, Pago

 

Intanto, esaurito lo sfruttamento della miniera di Kolane, mio padre era stato assegnato dal Ministero, come capotecnico, alla manifattura tabacchi di Zara (Borgo Erizzo). Era la primavera del 1930: per la somma di lire 12000 acquistò alla periferia, al di là del sobborgo di Cereria, una costruzione dal pretenzioso nome di "Villa Lestuzzi", un nome che le dava un certo lustro, un tocco di aristocrazia, faceva "fino", e nessuno lo cambiò. Era una villetta a un solo piano, sopraelevato, col tetto di eternit o ardesia, comunque di colore grigio scuro che la distingueva dalle comuni tegole rosse. C’era un’ampia cucina, diversa da quella di Kolane, due camere da letto, un tinello-salotto, servizi igienici, e uno stanzino che sporgeva dal complesso architettonico, sovrastato da un terrazzino al quale, chi sa perché, si accedeva solo passando dalla soffitta. I mobili erano gli stessi di Kolane, ma in un angolo del tinello, piuttosto spazioso, c’era, ecco la novità, un tavolino col piano di cristallo e un divano ricoperto di velluto verde scuro. La casa sorgeva al centro di un vastissimo appezzamento di terreno, in parte coltivato a ortaggi con numerosi alberi da frutto, mandorli, fichi, peri, meli, ciliegi. I muri erano ricoperti da coloratissimi rampicanti e alla loro base spiccavano rose, dalie, garofani, violacciocche, insomma tutta una festa di colori. Un ampio spazio era tenuto a pascolo e recintato; perché da Kolane erano venute le caprette, le pecorelle, l’asinello e le galline più fortunate: papà aveva saputo in anticipo del suo trasferimento e si era cercato di ridurre il numero dei polli mettendone in pentola uno al giorno. In fondo a tutto questo spazio c’era un’altra costruzione, piccola, costituita da due ambienti: uno era stato trasformato in ripostiglio per attrezzi vari, l’altro diventò il castrino per i due maiali (Ciccio e Don Abbondio –perché? E chi lo sa!) che papà continuava a far venire da Obrovac. C’era anche un pozzo, molto profondo che veniva usato come frigorifero. C urlij era lasciato libero, ma si spingeva troppo lontano da casa con il pericolo di cascare nelle mani del "ciapacani"; fu giocoforza legarlo alla catena, che gli permetteva comunque un vasto raggio di movimento: un anello scorreva lungo un filo di ferro che si stendeva dal cancello d’ingresso, per molti metri, fino alla casa. Mal sopportava l’animale quella limitazione di movimenti, abituato a Kolane a essere libero come l’aria: stava diventando nevrotico, ringhioso, soprattutto con papà, che probabilmente riteneva responsabile del cambiamento. E dopo qualche tempo, diventato pericoloso, dovette farlo uccidere. Piansi, come per la morte di Ax.

Come al solito, in breve tempo papà si circondò di nuovi amici, altri ne ritrovò fra quelli lasciati nel’22. Anche a Zara la nostra casa si riempì di ospiti, riapparvero le solite tavolate all’aperto, le solite mangiate. Non venivano più i "graniciari" a ubriacarsi di rakja, sostituiti dai Calmetta, dai Matievic , dai Mestrovic , e dai Lubin, e dai Cocetti, e dai Relja… e da tanti altri. Insomma era cambiato ben poco rispetto a Kolane, l’ambiente era diverso: i minatori erano sostituiti da impiegati, i pastori da operai, da liberi professionisti, tutti comunque ben disposti alle sbornie e non solo di rakja. Portavano le mogli, i figli e ben presto mamma, nonna, e noi due bambine trovammo con chi chiacchierare, giocare, litigare. Non trascorrevamo più l’estate a Luka Simun, ma avevamo lo stesso il mare a due passi: oltre a uno stabilimento balneare, il "Bagno Maria" c’era la spiaggia bellissima di Punta Mica con la sua pineta, e le "Collovare". In famiglia ritenevano assurdo, e non a torto, che ora non abbandonassi il collegio, tanto più che era venuto a mancare il principale requisito, non ero più figlia di italiano residente all’estero. Ma tanto feci che mio padre, non so per quali vie, riuscì a ottenere la conferma del posto fino alla fine del corso di studi, a patto però che ottenessi sempre la promozione a giugno. Problemi non ci furono.

La vita trascorsa a Kolane era un ricordo indimenticabile, un periodo magico della mia vita; ma il tempo era passato, molte situazioni erano cambiate, l’educazione che avevo avuto dalle suore a poco a poco aveva fatto presa e quasi senza accorgermene, ero cambiata anch’io. Mi piacevano ancora le disobbedienze, i sotterfugi, le mascalzonate, ma erano una naturale difesa perché l’ordine, la disciplina, l’obbedienza non si trasformassero in passiva sottomissione. Volevo essere me stessa e dimostrare che la mia personalità si era rafforzata. Mi piacevano le lezioni di "bon ton", mi piacevano meno le lezioni di piano, perché avrei preferito strimpellare , alla ricerca di qualche motivo a orecchio : canzoni in voga allora e severamente proibite : " Ramona ", per esempio , e" Tziky Paky", non si potevano non solo suonare , ma neppure canticchiare: parlavano d’amore , uno dei tanti tabù : rifiutavo con accanimento il tempo passato a fare le scale.. do.. re.. mi….. erano monotone, noiose, e ben presto papà chiese alla R.ma Madre di esonerarmi. Mi piacevano le ore di ricreazione trascorse nel Parco; c’era un vasto spiazzo dove davamo sfogo alla nostra prepotente vitalità giocando "a bandiera", un gioco di squadra che richiedeva velocità, o saltando alla corda. Se fossi rimasta a casa avrei trovata la stessa atmosfera di Kolane, avrei risentiti i pianti di mia madre, rivissuti i litigi con mio padre: se allora se la faceva con le compiacenti contadine, figurarsi ora, in una città ! Sarei stata circondata dalle stesse caprette, le stesse pecorelle, lo stesso somarello senza nome, da qualche gallina in meno, da qualche fiore in più. Sembra impossibile, ma sentivo che potevo difendere la mia indipendenza più facilmente dalle suore che da mio padre. Inoltre in collegio potevo dedicare allo studio l’intero pomeriggio, avevo la compagna di classe, Argia, con la quale fare i compiti. Tutto questo a casa mi sarebbe stato, in buona parte, impedito. Avrei senza dubbio rimpianto il sodalizio creatosi con le numerose compagne provenienti da città e paesi diversi; le ricordo tutte nella loro fresca adolescenza, nella loro incipiente giovinezza, risento le loro voci, ciascuna con un accento diverso. Alcune provenivano dalla penisola: Mirabella Eclano (AV), Benevento, Città di Castello, parlavano in lingua italiana; Anna Cornacchia veniva da Orbetello, parlava un po’ toscano, un po’ romanesco; dalle isole del Quarnero, Arbe, Cherso, Veglia, Lussino, oggi appartenenti alla Croazia (Rab, Cres, Krk, Losinj), dal Trentino (Rovereto, Trento, Levico, Brunico), dalle isole di Brazza (Brac), Curzola (Korcula), dalle città di Spalato (Split), Sebenico (Sibenjk), da Ragusa (Dubrovnik) e dalle città e paesini dell’Istria. Angelina Mirossevic aveva la famiglia a Klagenfurt, e Gladys Cosulic della famiglia dei famosi armatori triestini, aveva i genitori a New York. Proprio allora, credo, a contatto con tanta eterogeneità di linguaggio e di abitudini e anche di cultura, ha incominciato a prendere vita quello che è stato il mio grande sogno, fatto svanire da volontà altrui: laurearmi in scienze politiche e intraprendere la carriera diplomatica per poter girare il mondo. Ci sarei riuscita? Forse no, a quei tempi le donne in certe professioni tradizionalmente appannaggio dei maschi, erano molto osteggiate. Ma non avendo potuto nemmeno provare, mi rimane il dubbio e un certo rimpianto.

Se condizione perché io mantenessi il posto in collegio era la promozione a giugno (sempre ottenuta con la media di 8/10), perché il "signor Belli mantenesse il posto in manifattura, era l’iscrizione obbligatoria al P.N.F. (Partito Nazionale Fascista) che comportava un sacco di attività e di impegni obbligatori. Le sue giaculatorie blasfeme andavano avanti per giorni e giorni, l’idea di dover indossare una divisa, la camicia nera, l’obbligo di partecipare a marce e adunate, lo mandava in bestia. Si dichiarava rabbiosamente antifascista, se la prendeva con Vittorio Emanuele III, "quel re nano, gobo, testa de casso, bon a gnente", con Mussolini e la "stramaledetta marcia su Roma". Malediceva tutta la dinastia dei Savoia, andando a ritroso fino a Carlo Alberto, "un altro re bon a gnente, viliaco e traditor", malediceva "quel beco, cornutisimo fio del fabro dei mii coioni". Fischiettava l’aria di un inno fascista (All’armi, all’armi, siam fascisti, terror dei comunisti….) ma nella sua mente passavano altre parole, quelle che sottovoce venivano cantate da chi nutriva ben poco entusiasmo per il P.N.F. e per il suo fondatore: "Benito, Benito, ti n’à fregà pulito, ti gà calà le paghe, ti gà cressù l’afito; quando bandiera rossa se cantava, le trenta lire al giorno se ciapava, adesso che se canta "giovinessa" se casca in tera dala debolessa"; e rivolgeva una preghiera di ringraziamento a domineddio, per la magnanimità del governo: "signor, mi te ringrassio chè per pissar no pago dassio e per far una cagada no go bisogno de carta bolada".

Ci sono stati momenti in cui, riflettendo sui discorsi, gli atteggiamenti, sui comportamenti di mio padre, mi sembrava di doverlo giudicare, a buon diritto, ateo e anarchico. In famiglia nessuno mi aveva mai parlato di comandamenti, di precetti, di un Dio. Dio era un’entità remota, indecifrabile, esisteva soltanto nelle irriverenti espressioni paterne in dialetto e in croato, Dio e Bog. Indecifrabile, ripeto, perché veniva sempre nominato insieme a padri, madri, fratelli, interi parentadi con l’aggiunta di Cristo, croce e chiodi…… Spesso invece ricorreva la parola "angelo", "angelo custode", "diavolo"; anche questi, concetti poco chiari; sembrava comunque che fossero sempre in lotta fra di loro perché il primo mi voleva bene, voleva proteggermi, mentre il secondo si dava da fare per farmi male e indurmi a farmelo fare. Stava alla mia sinistra, pronto a colpirmi, ma alla mia destra c’era "l’angelo custode" che mi salvava; non li vedevo, ma c’erano. Quando ero buona, l’angelo sorrideva e il diavolo s’irritava, quando facevo la cattiva, l’angelo, poverino, piangeva e il diavolo se la rideva a crepapelle. Ero poco convinta; perché non si facevano vedere ? perché non si facevano sentire? Se erano in contrasto, dovevano pur lottare, litigare, far rumore ! La nonna, era lei che mi parlava sempre di angeli e di diavoli, cercava di convincermi: era naturale che, se non si vedevano, non si potevano neppure sentire. E un giorno, durante un temporale, in presenza di mio padre chiesi perché allora i tuoni che pur non si vedevano, si sentivano. Non ebbi risposta; intervenne mio padre come al solito, dissacrante: "cossa xe’sta storia de angeli e diavoli che no se li vede no se li sente; e adesso’sta qua tira fora anca i toni. O mama, che monade ti ghe conti?" Così i miei dubbi rimasero, ma probabilmente non ci pensai più. Me li tolsero, i dubbi, le suore con le lezioni di catechismo per prepararmi alla Prima Comunione e alla Cresima che feci nel maggio o giugno di quell’anno 1928. Capii allora chi era Dio, chi erano gli angeli e il diavolo tentatore. Imparai che non bisogna mai nominare il nome di Dio invano, e tanto meno bestemmiarlo. E mio padre? Che gli aveva fatto Dio, di male? Le sue "giaculatorie" mi apparivano come vere e proprie offese a quell’Ente Supremo, quel Dio o Bog, per il quale preti, frati, monache avevano rispetto e adorazione e si impegnavano perché tutti facessero come loro. In collegio ebbi una preparazione religiosa, da principio, molto solida che mi infuse una fede che in tanti momenti di smarrimento mi ha dato aiuto e conforto. Purtroppo le vicende della vita mi hanno anche insegnato che la fede non è sufficiente, aiuto e conforto dobbiamo soprattutto trovarlo in noi stessi.

Ma era davvero ateo mio padre? O non era forse insofferenza la sua, incapacità ad accettare determinate regole imposte da altri, rifiuto di tutto ciò che poteva limitare la sua libertà di azione, il suo libero arbitrio? Le stesse domande mi pongo in merito alle sue apertamente affermate convinzioni politiche: ma quali? Antifascismo o anarchia? Antifascisti a buon diritto potevano dichiarasi coloro che vivevano l’uso indiscriminato della forza, della violenza e della sopraffazione fin dalla nascita di questa concezione della vita politica e che, di conseguenza, ne conobbero tutti gli aspetti negativi, persone soprattutto residenti nella "penisola". Ma mio padre che ne sapeva? Leggere? Notizie positive. Sentito dire? Da chi? E dove? Non certamente a Kolane. A Zara dunque, appena arrivato, quando gli fu imposta l'iscrizione al P.N.F.. seguita immediatamente dalla sua reazione contraria ad una autorità costituita e accentrata, contraria soprattutto a ogni forma di costrizione esterna. Perciò poteva essere un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, stabilirne confini precisi non è facile, anzi è impossibile. Io, invece, noi giovani, crescendo e maturando respiravamo a pieni polmoni l’aria impregnata di dottrina fascista; fin dalla nascita la succhiavamo dal seno materno, una concezione che, accettata senza capirla in tenera età, veniva col tempo elaborata, e propugnata. Eravamo "figli e figlie della Lupa" fino all’età scolare, alle elementari "Piccole Italiane e Balilla", poi "Giovani Italiane e Avanguardisti" e infine "Donne Italiane e Giovani Fascisti". La divisa, le marce, gli inni, i campeggi, lo stesso inquadramento paramilitare che offriva la possibilità di mettere in luce particolari doti , in modo che coloro che si facevano notare venivano scelti, previo esame, per salire tutti i gradi della gerarchia giovanile, ci entusiasmava, ci esaltava. Io (perché non ammetterlo?) sono stata capomanipolo, capocenturia. Una volta trasferita a Firenze, fondai la sezione femminile del Fascio di Serpiolle, creai il gruppo delle "Massaie Rurali". Nell’ottobre 1938 ad un raduno a Roma, dalla responsabile del Fascio Femminile della Toscana, Dott. Tronci (non ricordo il nome) fui presentata al Duce come la più giovane segretaria di Fascio di tutta Italia, avevo 19 anni! E, stranamente, mio padre era orgoglioso di me! Perché dovrei negare questo passato? Noi giovani credevamo fermamente nel Duce, nella politica fascista, nel diritto all’espansione dovunque e con qualsiasi mezzo, anche con la guerra. "Credere, obbedire, combattere", "Libro e moschetto": retorica, senza dubbio, ma per capire la realtà, per convincerci dell’inganno perpetrato sulla nostra pelle, abbiamo dovuto constatare con le lacrime agli occhi il crollo dei nostri ideali, la distruzione della patria, quella patria che scrivevamo con la "P" maiuscola, la caduta dei nostri dei. La delusione subita da noi giovani è stata enorme: ho pianto il 25 luglio, ho pianto l’8 settembre, ho pianto per lo scempio di Piazzale Loreto. E poi? Bisognava cambiare, era finito un ventennio di errori, bisognava ricominciare da capo, risorgere dalle ceneri come la mitica fenice. Ma pare che la resurrezione non sia tanto facile se, fra alti e bassi, dopo mezzo secolo non siamo ancora riusciti a trovare una stabilità. Se noi, giovani di allora, ci siamo trovati allo sbando, oggi i nostri figli, i nostri nipoti soprattutto, cosa fanno ? Disoccupazione, disordine morale, mancanza di ideali, droga, disonestà! Ma non è che si stava meglio quando (si è sempre detto) si stava peggio? Ma mi accorgo di essermi lasciata prendere la mano e di aver perso di vista il filo conduttore; in fondo, anche questi ricordi sono balzati fuori dal viaggio della memoria che ormai da tempo è stato intrapreso.

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