Viaggio nella memoria

 

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Cap-6  Nostalgia di libertà

 

Uscendo dalle aule, si procedeva per un corridoio arioso e luminoso che terminava con una porta a vetri sulla destra, che portava all’interno del collegio, e con una porta a sinistra, che portava in un giardino e poi all’aperto sulla Riva Nuova. Bastarono poche settimane perché mi rendessi conto della differenza fra me "interna"e le mie compagne "esterne". Quella porta, quel giardino, mi calamitavano. Intanto avevo fatto amicizia con due bambine, entrambe figlie di professori, Antonietta Galvani e Lelia Zink . Durante la ricreazione mi parlavano delle loro passeggiate sulle "mura" e ai giardini pubblici, delle loro amicizie, della Calle Larga, dell’arrivo dei piroscafi… Così, un giorno, d’istinto, senza alcuna premeditazione, invece di girare a destra verso la porta a vetri, in tutta tranquillità infilai il portone a sinistra, il cancello, e mi trovai fuori, libera come loro. "Dove ti va, Bruna ?" "A casa !" "A casa? Xe vegnù qualchedun dei tui, qua a Zara ?" "Sì, la nona !" (che bugiarda !). Mi diressi al porto, in Riva Vecchia: attraccato c’era il "Grignano". Stavano imbarcando un gregge belante; nessuno mi notò se non quando il piroscafo era uscito dal porto e puntava su "Punta Dura": era così chiamato dai marinai italiani l’estremo capo nord della penisola sulla quale sorgeva Zara. Per andare a Pag bisognava doppiarlo virando verso Est; si entrava in un accidentato braccio di mare, che immetteva nel Canale della Morlacca, dai fondali bassi e irto di scogli che rendevano molto difficile la navigazione. Se poi soffiava la bora, spesso era impossibile doppiare quel capo con il vento a cento chilometri all’ora, che batteva sulla prua, e il "Grignano" ritornava a Zara. Ma quel giorno la navigazione era tranquilla. Quando il comandante, amico di mio padre, fu informato della mia presenza a bordo, mi fece condurre sul ponte di comando: "Ti xe sola a bordo ?" "Sì!" "Ma’l to papà no me ga dito gnente" Io zitta, e lui. "No me dir che ti xe scampada dalle muneghe !" E giù una risata tale che mi tranquillizzò. A Pag si arrivava nella tarda serata. Dormii a casa sua e avvisò subito mio padre, il quale all’alba o quasi, era già arrivato in sella ad Ax. Senza dire una parola mi fece salire sul cavallo davanti a lui e ci dirigemmo a Kolane, dove mamma e nonna mi aspettavano in ansia. "Poarina, disse la nonna, cossa gastu combinà ! Adesso el te massa de bote!" Ma lui non mi ammazzò, semplicemente mi riempì di botte, bestemmiando come un turco. Telefonò alla "Reverendissima Madre" (si chiamava Suor Narcisa Radaelli) che lo aveva tempestivamente messo al corrente della mia scomparsa, rassicurandola, e il giorno dopo mi portò a Novalja, l’altro porto, a nord dell’isola, e mi rifilò di nuovo in collegio, con la promessa che, se ne avessi combinata un’altra, quei 350 dinari che pagava ogni mese per la retta, si sarebbero trasformati in 350 legnate. Promisi, oh, con quanta convinzione promisi che la cosa non si sarebbe più ripetuta ! Dopo un paio di settimane, sbarcavo clandestinamente a Novalja. Altra notte passata, questa volta non in casa del comandante del piroscafo, che non voleva responsabilità, ma del comandante della capitaneria di porto. Non mi pestò, quelle 350 legnate non ci furono, disse soltanto che non si potevano raddrizzare le gambe ai cani. Mi aspettavo una minaccia, un rimprovero, invece niente. La sua mancata reazione, il suo silenzio, la sua tranquillità, mi colpirono, mi sentii umiliata, offesa e, senza pensarci, come spesso mi succedeva, sparai: "Voyo tornar in colegio !" Lo ripetei un sacco di volte, finché mio padre ruppe il silenzio e con indifferenza: "Preparèghe la roba, disse, ma questa xe l’ultima volta sul serio !" Da allora rimasi in collegio per undici anni, volli rimanervi anche quando, esaurito lo sfruttamento della miniera, la mia famiglia si trasferì a Zara. Ero entrata nell’ordine di idee che stavo meglio in collegio dove nessuno mi chiamava mona o testa de svirac, dove nessuno mi prendeva a sberle, né a cinghiate sulle gambe. Avevo imparato a dire "Sì, Madre" e a fare il comodo mio, le punizioni mi lasciavano del tutto indifferente. Infatti quell’anno pagai le mie fughe con una punizione che suore e famiglia ritenevano esemplare e che, con mia grande meraviglia, non mi fece nessun effetto: non mi mandarono a casa per le vacanze di Natale. Trascorsi quei quindici giorni leggendo. C’era una biblioteca ben fornita, certo libri molto castigati. Lessi tutto Salgari. Quell’anno non subii più alcuna punizione. A giugno, finite le scuole, ritornai a Kolane dai miei amici. Trascorsi più di tre mesi meravigliosi. Raccontavo loro e a mia sorella, raccontavo, raccontavo... molto della scuola, del collegio, ma quante fandonie vi erano mescolate ! Provavo un gusto pazzesco nel vederli ascoltare a bocca aperta, in estasi, le mie fantasie. Quasi mi invidiavano. Ricordo che un giorno raccontai di aver volato. Volato ? Come ? Avevo preso due asciugamani, me li ero legati lungo le braccia e raccolti alle caviglie e mi ero gettata nel vuoto da una finestra del quinto piano. Oh, l’ebbrezza di quel volo ! La mamma trovò Lydia che si stava gettando da una finestra della nostra casa, da un’altezza di qualche metro: "Mona, cossa ti sta fassendo ?" "La Bruna ga svolà, vojo svolar anca mi !" "Fja de un can, la te voleva copar. Ma se la ciapo !" … Non mi "ciapò", non riuscì a "ciaparmi".

Nel giugno del 1929 ottenni, sempre col massimo dei voti, la promozione in terza. La maestra parlò con mio padre quando venne a riprendermi alla fine dell’anno scolastico: ero intelligente, studiosa, desiderosa di apprendere…. studiando durante le vacanze estive, a settembre avrei potuto sostenere l’esame per l’ammissione alla quarta elementare. Papà, memore dell’insuccesso subito e che ancora gli bruciava, era molto scettico. Ma io accettai la proposta con entusiasmo e con grande soddisfazione della signorina de Stermic . Partii per Pag con un ricco corredo di consigli e con tanti suoi libri e con la promessa che mi sarei impegnata, che avrei studiato. Mi convinsi che la maestra era un’ottima insegnante, ma tutti i suoi giudizi positivi su di me, erano esagerati, mi aveva preso in simpatia e ogni suo giudizio ne era condizionato. Certo, studiavo, stavo attenta alle spiegazioni che capivo senza alcun sforzo. Imparai a parlare e a scrivere in "italiano" in brevissimo tempo. Ma proprio allora scoppiò una guerra accanita fra me e le consonanti doppie; purtroppo a vincere, quasi sempre, erano loro. Avevo un grande desiderio di apprendere, di sapere, ma solo per orgoglio e ambizione: volevo ad ogni costo essere la prima, e qualche volta mi lasciavo trascinare dalla maligna soddisfazione di umiliare le compagne. Questo la maestra de Stermic non l’aveva capito e non l’ha mai capito nessuno; fu così che usurpai la fama di essere una ragazzina seria, una studentessa modello. A settembre sostenni l’esame, ottenni la promozione in quarta, e alla fine di quell’anno, sempre su consiglio della solita maestra, e d’accordo con l’insegnante di classe, di cui ricordo solo il nome, Nives, mi presentai all’esame di ammissione alla prima classe del ginnasio inferiore. In tre anni, ne avevo recuperati due; avevo undici anni e frequentavo il Ginnasio – Liceo "Gabriele D’Annunzio". Avevo raggiunto un traguardo che mi permetteva davvero di considerare come mai avvenuto lo scacco, l’ironia, l’umiliazione subita dalle suore di Santa Maria.

Intanto la mia raccomandataria, durante la libera uscita, mi faceva conoscere Zara, le sue bellezze artistiche, i suoi pittoreschi dintorni. A poco a poco mi andavo formando, tanto che papà diceva: "brava, la xe brava, perché la xe testarda e la xe anca intelligente. Ostrega, la ga ciapà da mi! Ma che la sia una putela seria, educada….. beh, o le suore le se sbaglia, o ela la le sa infinociar cussì ben, che no le vede oltre la ponta del so naso !". Dove stava la verità?

L’anno scolastico 1930 / 31 non fu privo di importanza: il Ginnasio - Liceo si trovava nella Piazzetta San Crisogono, sul retro della omonima chiesa, e a ridosso della Riva Vecchia; per raggiungerla bisognava attraversare tutta la città, ci accompagnava e ci veniva a prendere una suora laica, Suor Ida. Le classi erano miste con grande prevalenza del sesso maschile. In prima ginnasio eravamo 40, 36 maschi e 4 femmine: due collegiali, io e Argia Devescovi, due esterne, Pia Alessio, figlia di un funzionario del tribunale, calabrese, quindi "penisolana", (come per i sardi l’Italia è il "continente", per noi era la "penisola") e un’altra bambina che però si era ritirata dopo pochi giorni per passare ad altro istituto. Il contatto con i ragazzi non mi creò alcun problema, visto che problemi non c'erano mai stati con i pastorelli di Kolane. Il fatto di frequentare una scuola pubblica, fuori dalle mura del collegio, mi dava un senso di libertà e mi rendeva molto meno gravosa la clausura del pomeriggio, anche perché non c’era tempo per fantasie e nostalgie, c’era lo studio, molto serio, i compiti da fare, le lezioni da preparare. Le lezioni avevano inizio alle otto, si interrompevano alle 11 per riprendere alle 11/30, fino alle 12/30 o 13/ 30. In quell’intervallo di mezz’ora uscivamo dall’istituto e generalmente andavamo a consumare la merenda, con i nostri compagni, sulle "Mura" che dominavano la Riva Vecchia, alle quali si accedeva per una scaletta vicina ad uno degli ingressi della scuola. Il fatto di avere insegnanti diversi per le diverse materie, mi dava la carica, mi entusiasmava tanto che, ripensando alla maestra de Stermic , mi chiedevo come avessi potuto sopportarla per tanto tempo; eppure la stimavo, le volevo bene, mi aveva date tante soddisfazioni e, oltre a tutto, dovevo a lei, al suo affetto, se ero riuscita a recuperare quei due anni. I professori, Narciso Cettineo (lettere), Paolo Mardessic (matematica), Aldo Tacconi (francese) mi apparivano superlativi, e certamente lo erano, ma io stravedevo per loro. Non stravedevo invece per don Simeone, l’insegnante di religione. Era di Pag, conosceva la mia famiglia, la frequentava, e, forse, si era messo in testa di farmi dimenticare le giaculatorie blasfeme di mio padre, con segni di croce e ave marie che, aggiunti a quelli del collegio, a poco a poco diventavano troppi. Comunque piaceva poco anche ai miei compagni; in terza liceo noi, a lui prete, facemmo uno scherzo da prete, che finì male e sarebbe potuto finire peggio. Ma su questo episodio ritornerò in un altro momento. Con lo studio della grammatica italiana, del latino e del francese, cominciai ad usare sempre meno le usuali espressioni veneziane imparate dalla nonna e soprattutto quelle in croato che mi veniva spontaneo intercalare nella parlata zaratina. Per questo i miei compagni spesso mi prendevano bonariamente in giro; ma io non davo loro importanza, finirono per accettarmi così com’ero, anzi mi accolsero nel loro gruppo, un gruppo di amici per la pelle: un’amicizia cementata da interessi, sogni, ideali comuni, che tale sarebbe rimasta se, dopo la maturità, impegni universitari non ci avessero sparpagliati per la "penisola"; ci legavano soprattutto gli ideali: il fascismo ormai si era affermato, Mussolini era un leader carismatico unico; la sua stessa figura fisica, gli atteggiamenti, gli infuocati discorsi sull’italianità della Dalmazia, sull’irredentismo di Zara, facevano facilmente presa su noi giovani, portati istintivamente all’entusiasmo e a sogni di gloria., e acuivano, non direi l’odio, ma senza dubbio l’atavico astio nei riguardi dei croati in particolare, e degli slavi in generale. Le conseguenze della prima guerra mondiale avevano portato alla creazione di quel nuovo stato, la Jugoslavia, riconosciuta ufficialmente come stato unitario. In essa confluivano stati indipendenti, province autonome o già dipendenti da altri stati e nel 1921 veniva definita come monarchia parlamentare ereditaria. Sul trono sedeva Alessandro 1° Karagjorgjevich. Difficile, se non impossibile, affratellare etnie tanto diverse per lingua, religione, cultura, usi, costumi e da non dimenticare le mire espansionistiche di ciascuna di esse: i Serbi, i Croati, gli Sloveni. Per quanto concerne la Dalmazia e quindi Zara, convivevano dalmati veneti e dalmati slavi, appoggiati questi ultimi dalla politica dell’Austria. Durante le guerre d’indipendenza si era messo in luce un duplice movimento politico: da una parte il croatismo asburgico che mirava all’annessione all’Austria, dall’altra quello indipendentista che avrebbe dato vita all’irredentismo italiano. Ebbe la meglio il primo e a poco a poco i dalmati italiani vennero esclusi dalle amministrazioni comunali fino ad arrivare alla proibizione dell’uso della lingua italiana negli uffici dello stato. Dopo la prima guerra mondiale, per il trattato di Rapallo (1920) in Dalmazia, Zara e le isole del Quarnero furono assegnate all’Italia; pertanto nel ventennio che intercorre tra la prima e la seconda guerra mondiale, la convivenza tra le due etnie, croata e italiana non fu facile, resa ancor più precaria da intemperanze e rancori locali fomentati dai rapporti niente affatto amichevoli tra Italia e Jugoslavia. Ricordo le manifestazioni nazionali, e allora ce n’erano tante da festeggiare con bandiere, gagliardetti e per noi, con una bella vacanza. Si incominciava con l’anniversario della marcia su Roma (28/10), poi l’anniversario della Vittoria (4/11), i patti Lateranensi (11/2), la fondazione dei Fasci di combattimento (23/3), il passaggio del Piave...

Dopo la cerimonia ufficiale in Piazza delle Erbe, con qualche importante oratore mandato da Roma, la sfilata per la Calle Larga, e, quando il corteo giungeva in Piazza dei Signori e lì si scioglieva, ecco il solito grido anonimo ma chiaro: "Andemo dal Pivac !" Povero Pivac ! Era un vecchietto che gestiva un bugigattolo in Calle Santa Maria, vendeva pasticchine, caramelline, palline colorate….. vetrina sfasciata, merce sparsa dovunque e quel poveretto con le mani sulla testa a strapparsi i capelli che non aveva e a implorare con le lacrime agli occhi. Alla sera immancabilmente, giungeva la notizia che a Spalato, per rappresaglia, era stata sfasciata la sede del consolato italiano; e noi di nuovo con bandiere e gagliardetti per le Calli della città a cantare, scalmanati: "lo giuriam sull’onore dalmata che tra noi non esisterà un croato …". E pensare che Zara, porto franco, come Fiume, isolata, lontana dalla madre patria, non poteva fare a meno dei croati che tutte le mattine per terra o per mare, arrivavano da Poljak, da Murvica, da Zemunik, dall’isola di Preko (Oltre), a vendere uova, verdura, olio, vino, latte, formaggio, frutta, di cui noi avevamo assoluto bisogno.

Dopo la seconda guerra mondiale, con il trattato di pace del 1947, Zara e le isole ritornavano alla Jugoslavja. E i miei amici ? I miei compagni? A Lucca nel’46 incontrai per caso due amiche zaratine, Gabriella Corti e Meri Calebotta, profughe di passaggio: dei ragazzi del nostro gruppo pochi si erano salvati, Gned, Gallessic , Marsan, gli altri , mi raccontarono , erano caduti difendendo l’italianità di Zara contro i partigiani di Tito, altri ancora erano rimasti combattendo sui vari fronti: Sandro e Lucio Inchiostri, figli del nostro professore di storia e filosofia, erano caduti in Africa, a Tobruk. Nel settembre del’43, dopo durissimi bombardamenti che decimarono la popolazione, avvenne l’esodo in massa degli italiani. Molti decisero di rimanere con la speranza di salvare i propri averi, o forse perché privi della forza necessaria per sopportare un esilio senza speranza di ritorno. Si sparsero in tutta la penisola: gli zaratini di allora, o i loro discendenti si trovano a Torino, a Milano, a Firenze e giù, giù fino alla Sicilia. C’è chi ha fatto fortuna e chi no. I Battara, i Zerauscek, i Vlakov, i Bata hanno trasportato in Italia le loro industrie (cioccolata, maraschino, sherry, scarpe), gli operai della manifattura tabacchi di Borgo Erizzo, o Borgherizzo, come noi chiamavamo quel sobborgo, rimasero tali e oggi qualcuno di loro forse si gode la pensione, magra, dello stato; i liberi professionisti hanno continuato la loro vita, ma tutti con l’animo roso dalla nostalgia per quello che avevano lasciato, per quello che hanno perduto. Io, la mia famiglia, non abbiamo fatto parte dei "profughi giuliani" che, oltre agli zaratini e agli isolani, comprendevano gli esuli dell’Istria e di tutta la Dalmazia fino a Ragusa (Dubrovnik): la mia famiglia risiedeva da tempo a Firenze per motivi che non avevano nulla a che vedere con la politica. Quanto a me, quando venni a conoscenza di quanto era successo a Zara, dei bombardamenti, dei morti, della "diaspora", mi assalì un senso di colpa: io non c’ero, la sorte mi aveva sottoposta ad altre prove, anche dolorose, ma mi aveva risparmiata la tragedia di una intera città, di un popolo. Mi sembrava di aver commesso un tradimento. Avrei preferito soffrire le loro sofferenze e oggi poter dire "c’ero anch’io".

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