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IL COMUNE DI VITA

 E IL RISORGIMENTO ITALIANO

di Don Antonino Gioia

   

Don Antonino Gioia (1872-1957), di Partanna, Arciprete di Vita per lunghissimi anni (dal 1911 al 1957), oltre che uomo religioso e pastore di anime, fu uomo colto, studioso e storico. Negli anni trenta, ricostruì il periodo del Risorgimento a Vita e il suo lavoro fu pubblicato nella “Rassegna Storica del Risorgimento” (Roma, Marzo 1938, Libreria dello Stato).
Successivamente si accinse alla stesura del libro “Trecento anni di storia civile ed ecclesiastica del Comune di Vita”, stampato nel Maggio 1950, a Catania, dalla Tipografia della Pia Società San Paolo. Al cap. XIV (pagg. 257-282),  riportò quasi integralmente  il saggio sul Risorgimento vitese, con lievissime differenze rispetto alla prima stesura. 
Nella edizione del ’50 si notano sostanzialmente due modifiche: 
  • 1) l’omissione di un ossequio "d'occasione" al fascismo, che noi, a memoria, abbiamo voluto riportare (il testo è in rosso); 
  • 2) l’aggiunta della nota n. 15 (trascritta in blu).
Poche e assolutamente irrilevanti le altre differenze tra le due edizioni.

 


IL COMUNE DI VITA

 E IL RISORGIMENTO ITALIANO

Vita non potè dare e di fatto non diede un rilevante contributo alla causa del Risorgimento italiano. Paese, nella grandissima maggioranza, di agricoltori, piccolo e fuori delle correnti politiche che si dibattevano nelle città e nei grossi paesi della Sicilia, trascurato o almeno non curato nella propaganda delle nuove idee politiche di libertà e dei nuovi orientamenti che facevano congiurati e agitatori, viveva ignara del fermento destinato a condurre l'Italia alla sua unità nazionale.

Soltanto un certo D. Antonino Ditta, ricco possidente del luogo, durante gli anni che precedettero lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, era in relazione con gli uomini che prepararono la riscossa, specialmente col Crispi e con la Masa. Ma il Ditta, pur essendo un congiurato, o almeno a parte della congiura, era un esiliato del 1848 a Siracusa, e per questo motivo nulla potè fare per preparare gli animi dei suoi concittadini. (1)

1) Questa notizia mi è stata fornita dal nipote del Ditta, sig. Francesco Di Giovanni che sino a pochi anni addietro conservava lettere e telegrammi del La Masa e del Crispi ora smarriti.

Insieme al Ditta un altro personaggio, al Ditta congiunto con vincoli di parentela, merita di essere ricordato se non come congiurato, certo come un pioniere e buon patriota della Rivoluzione o almeno come un liberale della prima ora: D. Gaetano Di Giovanni.

Nel 1848 era comandante del forte di Santa Caterina di Favignana con le funzioni di sottotenente e, per i sentimenti liberali dei quali faceva professione, fatto bersaglio della polizia fu obbligato dalla reazione borbonica a lasciare il suo ufficio. (2)

2) Vedi certificato rilasciato dal Comandante militare di Favignana capitano Andrea Li Volsi, 20 aprile 1861. Visto dal Commissario di guerra firmato Giuseppe Abate.

Nello stesso anno fece parte della spedizione in Lombardia e la Patria riconoscente ai di lui uffici gli conferì il grado di sottotenente effettivo. (3)

3) Vedi certificato lasciato dal Vice Comandante della Legione spedita in Lombardia nel 1848, maggior Palizzo1o - Alcamo 30 maggio 1860. Visto per la legalizzazione della firma il Governatore di Alcamo barone Sant'Anna.

Nel mese di ottobre 1854 fu dagli sgherri della polizia borbonica arrestato e soffrì cinque mesi di Camera chiusa in Palermo e tre mesi di domicilio forzoso in Monreale unitamente al barone Sant'Anna di Alcamo. (4)

4) Certificato rilasciato in Palermo 9 luglio 1860 firmato barone Sant'Anna Stefano, e per la legalizzazione della firma visto il Consigliere anziano Angelo Calvino - Trapani 5 aprile 1861.

Finalmente, per le sue benemerenze nella liberazione della Sicilia, nel 1860 gli fu concessa la medaglia di rame a norma del decreto 12 dicembre 1860 dal Luogotenente generale di Stato Maggiore nelle provincie sicillane. (5)

5) Dichiarazione del Prefetto di Palermo per delegazione del Ministero dell’Interno, 20 novembre 1863, registrata negli Elenchi della Commissione numero d'ordine 437, firmato il Presidente La Loggia.

Questi documenti si trovano custoditi in casa della nuora Signora Leonarda Romano del fu notar Girolamo.

Quando l'11 maggio 1860 i Mille sbarcarono a Marsala e si sentì la ventata rivoluzionaria, il popolo di Vita provò trepidazione e spavento. Non già per attaccamento al Governo borbonico, ma perchè temeva che la nuova rivoluzione potesse rinnovare gli orrori, le stragi e le reazioni di quella del 1848.

Nei moti infatti del 1848 la plebe, sobillata da interessati mestatori, con ferocia belluina aveva assassinato, come abbiamo detto in altro studio, ben dodici galantuomini, come vengono chiamati qui i benestanti e i qualificati; assassini cui tennero dietro le immancabili punizioni cioè esilii, confini e fucilazioni. Tuttavia un manipolo di armati, sotto la guida del sig. Vincenzo Leone fu Erasmo, si recò la sera del 14 maggio a Salemi dove già trovavasi Garibaldi coi suoi.

Facevano parte di questo manipolo i due fratelli Saverio e Salvatore Cappello e il sedicenne Vito Genova fu Giuseppe. (6)

6) Vedi Prof. La Colla, Salemi e i Mille, pag. X, il quale ci fa sapere  che la minuscola squadra fu in casa del sig. Gaspare Salvo e che insieme alla squadra di Salemi seguì Garibaldi.

Il più che nonagenario Vincenzo Emmanuele, tuttora vivente e residente in Campobello di Mazara, mi fa sapere che il soprannominato Antonino Ditta, sbarcato Garibaldi a Marsala, da Siracusa volò a Vita, e «arruolati una ventina di vitesi, dei quali per l'avanzata età non ricorda più i nomi, raggiunse Garibaldi a Salemi in Piazza S. Francesco». Lo stesso Emmanuele che faceva parte della squadra, mi riferisce di avere assistito ad un colloquio tra Garibaldi e il Ditta e che io per quel che vale trascrivo. Il Ditta consigliava il Garibaldi a proclamare la Repubblica siciliana, ma ne ebbe la recisa risposta che si occupava la Sicilia a nome e spese di Vittorio Emanuele e quindi non era possibile addivenire a tale proposta.

L'indomani poi alcuni giovani animo si ed ardenti di patriottismo si unirono ai Mille, che marciando verso Calatafimi passarono per Vita e insieme alle squadre di Salemi e degli altri Comuni della provincia presero parte alla celebre battaglia di Pianto Romano. Fra questi sono ricordati: Giuseppe Occhipinti fu Paolo, Salvatore Rizzuto, Antonino Vesco fu Vito, Nicolò Riservato, D. Vito Surdo fu Gaspare, un certo Giglio, Antonino Pedone fu Gaetano che fu il capo di questo manipolo di eroi (7) e Isidoro Spanò fu Giuseppe.

7) Nel 1865 lo troviamo consigliere del Comune di Vita. Avendo fatto istanza per la licenza di porto d'armi il Consiglio ad unanimità lo ritenne meritevole della concessione richiesta con la seguente motivazione: «Perchè benemerito della Patria e perchè in ogni tempo si è mostrato ottimo patriota 5; vedi registro delle deliberazioni del 1862 a. 3, 2 novembre 1865.

Di questi volontari si sa che il sopranominato Vincenzo Emmanuele seguì le truppe garibaldine sino a Palermo, che il Genova combattendo a Calatafimi con audacia giovanile nel fervore della mischia fu ferito gravemente di proiettile alla spalla e che fu ricoverato nell'Ospedale di ambulanza di Vita e poscia guarito trasportato a Salemi, e da Salemi il 21 agosto partì per Palermo.(8)

Il Comune di Vita con deliberazione del 9 novembre 1928 gli dedicò una via del paese con la seguente motivazione «Genova Vito fu Giuseppe concittadino, appena sedicenne si unì a Garibaldi in Salemi e combattè valorosamente rimanendo ferito a Calatafimi».(9)

Dell'Occhipinti si sa che morì a Palermo nella battaglia del 27 maggio.(10)

8) Vedi LA COLLA, op. cit., pag. XVIII, quadro statistico.

9) Vedi registro delle deliberazioni, anno 1928, n. 91, VII.

10) La famiglia dell'Occhipinti conserva una lettera di condoglianze.

Qui cade in acconcio un episodio di cui fu protagonista il sopranominato Isidoro Spanò; episodio che gli storici della battaglia di Calatafimi non hanno riferito forse perchè non lo conobbero, forse perchè trattandosi di un dettaglio della leggendaria impresa compiuto da un allora anonimo operaio siciliano che non faceva parte della spedizione, credettero di poterlo e doverlo ignorare.

Io lo riferisco ad integrazione della verità storica e per onorare la memoria di un cittadino di Vita che portò il suo modesto ma efficace contributo alla vittoria di Pianto Romano.

Lo Spanò sulle prime non si unì ai Mille che la mattina del 15 maggio traversarono Vita; ma poscia preso dalla curiosità e mosso dalla emulazione dei suoi giovani compaesani già partiti coi volontari garibaldini, quando vide passare il carro che trasportava la famosa colubrina, gli tenne dietro sperando di poter fare anche egli qualche cosa per Garibaldi. Fu questa una buona ispirazione per il segnalato servizio che più tardi prestò. I Garibaldini per affrontare le milizie borboniche, che il Duce conosceva trovarsi verso Calatafimi poco dopo usciti da Vita, per ragioni tattiche e strategiche non proseguirono la marcia lungo lo stradone provinciale, ma presero un sentiero angusto ed accidentato che si snoda sulle alture fiancheggianti la strada rotabile provinciale: sentiero che conduce alla cosiddetta «Fontana della Spina». Ma il carro che portava il pezzo di artiglieria non potè seguirli, appunto perchè il sentiero era, come s’è detto, stretto, e non carreggiabile e dovette proseguire per lo stradone.

L'utilità dello Spanò si mostrò in questa circostanza. I soldati borbonici, dopo la prima scaramuccia avvenuta alla Fontana della Spina, si erano ritirati sul breve altipiano del colle di Pianto Romano, e, schierati in ordine di battaglia, aspettavano i Garibaldini.(11) Lo Spanò che durante il cammino aveva inteso il crepitare della fucileria e il rombo dei cannoni borbonici, giunto a un certo punto della strada e precisamente nel luogo chiamato Calemici vicino il giardino del sacerdote don Giovanni Monaco, avvistatili, da stratega improvvisato, persuase i conducenti Garibaldini a fermarsi, essendo quello un posto assai propizio dal quale si poteva tirare sui Borbonici. Pratico dei luoghi collocò la colubrina in luogo coperto e al sicuro dei tiri nemici e aspettò insieme agli artiglieri garibaldini gli ordini superiori.

Frattanto le sorti delle nostre squadre andavano male; due attacchi alla baionetta erano stati, dai Borbonici, respinti, con gravi perdite dei nostri, quando Garibaldi che da lontano osservava lo svolgersi delle vicende, ordinò di accendere le artiglierie.(12)

Venuto l'ordine di far fuoco, lo Spanò che già aveva fatto collocare la colubrina nel sito dal quale i nemici si potevano distintamente vedere volle anche puntare. Era un operaio murifabbro dall'occhio esercitato alle linee e alle distanze e pertanto gli venne facile mirare con precisione il campo nemico: tanto che il colonnello Orsini, comandante delle artiglierie ispezionando la posizione della colubrina, in segno di approvazione e di lode gli battè la spalla. Il trapanese Antonio Ficalora diede fuoco alla miccia e la palla del cannone colpendo in pieno portò lo scompiglio e la confusione tra le truppe borboniche che già cantavano la vittoria della giornata campale. (13)

11) Vedi Prof. Marino, storia dei Mille, p. 50.

12) Vedi Prof. Marino, op. cit., p. 50.

13) Vedi Prof. Marino, op. cit., p. 50.

Quel colpo di cannone, aggiustato da un vitese e tirato da un trapanese, mutò le sorti della battaglia e fu l'inizio della vittoria che ricoprì di gloria immortale gli eroici Garibaldini. (14)

14) Questo episodio mi è stato narrato da alcuni vecchi vitesi tuttora viventi che furono contemporanei allo Spanò e confermato dall'omonimo Isidoro Spanò, il quale lo aveva inteso narrare tante volte da suo nonno che ne fu il protagonista. A dimostrare l'attendibilità e la verità di quanto ho narrato è sufficiente la considerazione che lo Stato Maggiore garibaldino non era fornito di carte topografiche e che in mancanza di queste soltanto un paesano era il più idoneo a designare e indicare la via e il sito di appostamento di quel pezzo di artiglieria.

Avvenuta la battaglia e quando ancora si udivano gli ultimi colpi di fucileria i migliori cittadini di Vita accorsero sul luogo del combattimento e favorirono come poterono Garibaldi e i suoi volontari. Tra questi cittadini è degno di essere ricordato il dottor Gaspare Scaduto giovane di provato patriottismo che nel 1848 aveva fatto le prime armi in Lombardia. (15)

15) Il Dr. D. Gaspare Scaduto, nel 1860 era membro della Municipalità, colla carica di 2° eletto, cioè membro della Giunta comunale. Al sopravvenire della Rivoluzione, il Sindaco erasi maliziosamente allontanato. Il Dr. Scaduto con senso di alto civismo, assumendo il timone della cosa pubblica, seppe con forza e belle maniere rassicurare gli animi dei pacifici cittadini e reprimere i moti rivoltosi dei tristi che non mancano mai di pescare nel torbido. Fu capitano comandante della milizia nazionale e seppe riunire molte volte un buon numero di militi alla sola e semplice richiesta del Capitano dei Carabinieri Reali della Provincia mettendosi a capo; vegliò con fatica per la repressione delle bande armate che infestavano il circondario di Castellammare e di Calatafimi durante la guerra e i fatti rivoltosi di Palermo con mano di indefessa sollecitudine mercè la quale i buoni cittadini stavano tranquilli e prestavano braccio forte alla Milizia nazionale e i tristi facevano conto di non essere tali perché colla forza in vigore ogni loro conato era vano. – Spiegò una grande energia nel cordone sanitario e nella pulitezza del Paese. Fu per molti anni medico comunale; componente La Sanità e Commissione comunale di Statistica. – Nacque il 29 luglio 1825 in Vita da D. Luciano e da D.na Giovanna Leone. Si unì in matrimonio con Gaetana Romano del notar D. Giuseppe. Ebbe due figli: la figlia Giacoma fu sposa del Sig. Salvatore Favara da Salemi. La sera del 5/11/1866 venne proditoriamente assassinato per interessi, da un suo fratello. Il Comune nel 1866 assegnò alla vedova una pensione di £. 153 annue per il quinquennio 1866-1871. Vedi delib. 25/11/1866.

[nota assente nell'edizione del 1938]

Intuì costui che l'opera sua sanitaria sarebbe stata utile e necessaria e senza indugi con senso di alto patriottismo ed umanità con altri generosi accorse al campo per portarvi i primi soccorsi e medicare i feriti lasciando partoriente la moglie donna Gaetana Romano.

Quando poi i feriti furono trasportati a Vita, dove fu istituito l'Ospedale militare sotto la direzione del dottor Ripari egli si unì agli altri sanitari nel prodigare cure ed assistenza.

Nell'ospedale di Vita che fu impiantato nella chiesa e nel convento di S. Francesco vennero ricoverati, secondo lo storico Marini, ottanta feriti e secondo il prof. dottor Lampiasi, citato dallo storico La Colla, sessanta. In un primo tempo essi furono affidati al dottor Pietro Ripari, capo medico dell'Ambulanza dei Mille, ma obbligato dal Garibaldi a seguirlo insieme agli altri sanitari, la cura degli ammalati venne affidata al dottor prof. Lampiasi il quale fu coadiuvato dal nostro dott. Scaduto e da altri sanitari. Come scrive il citato storico La Colla.

I feriti in Vita furono curati con grande amore e premura non soltanto per l'assistenza dei valorosi sanitari ma per la generosità dei cittadini che furono larghi di aiuti materiali e per l'opera delle donne le quali con entusiasmo prepararono sfilacce, apprestarono tela per le bende e lavarono panni insanguinati. Per la cura dei feriti il Comune di Vita spese onze 150 e più, come si legge nella deliberazione del Decurionato 17 giugno 1860, e 150 onze avevano a quei tempi un valore ingente per un piccolo Comune di poche migliaia di anime.

Un elogio, di indiscutibile certezza storica, alla generosità ed al patriottismo di Vita, e che sfata una leggenda ignominiosa che dipinge i cittadini di questo Comune come tanti predoni corsi al campo per spogliare e derubare morti e feriti per il deplorevole fatto che due di essi soltanto, del resto noti, compirono criminose e sciacallesche gesta, venne fatto dall'on. dottor Lampiasi che ne fu testimonio oculare.

Trascrivo le sue parole: «Io ebbi la fortuna di detergere le ferite dei caduti... Il domattina del combattimento più che sessanta gravissimi feriti erano giacenti sul pavimento della chiesa di S. Francesco della prossima Vita che ci fu tanto ospitale e larga di aiuti». (16)

16) Discorso letto sul campo di battaglia di Pianto Romano nella commemorazione del maggio 1884.

 

Un'altra testimonianza della generosità e del patriottismo del popolo vitese venne spontaneamente fatta dal colonnello Augusto Elia.

Trovandosi 1'Elia il 27 maggio 1903 a Palermo nel vestibolo del Politeama dopo avere assistito alla lettura della Nuova Rapsodia Garibaldina fatta da Giovanni Marradi, ad un gruppo di amici ebbe a dire: «Io sono vivo per Salvatore Romano di Vita che con tanto affetto e sollecitudine mi curò in casa sua. E sarei un ingiusto, se tacessi la generosità del signor Baldassare Leone che in quella occasione aprì la casa ai feriti trasformandola in ospedale dove regnava sovrana la carità e la nobiltà d'animo della signora Caterina Farina». (17) Altro che predoni e sciacalli!

17) Vedi: Discorso manoscritto pronunziato dall'avv. Salvatore Romano fu Girolamo nel 1904 a Vita inaugurandosi una lapide in onore di Ulisse Pedotti. Discorso che conserva la signora Leonarda Romano vedova Di Giovanni.

Oltre l'ospedale, alcuni cittadini vitesi offrirono le loro case per i feriti più gravi o per quelli di più alto grado militare e di distinta posizione sociale. A titolo di onore vanno ricordati l'arciprete dottor don Rocco Modica,(18) la signora Scaduto,(19) la famiglia Corrao,(20) il signor Simone Lorenzo,(21) il sig. Salvatore Romano del fu notar Giuseppe (22) e don Baldassare Leone (23).

18) Nella casa dell'arciprete Modica, dove morì, fu ricoverato Luigi Martignoni, ferito di proiettile alla schiena.

19) Nella casa della signora Scaduto furono ricoverati Ulisse Pedotti e Malocchi. Vedi LA COLLA, op. cit., p. 8.

20) La famiglia Corrao ricoverò Maldacea Moisè di Vincenzo da Foggia ferito al braccio sinistro, vedi I. Lampiasi, per l’inaugurazione della lapide in memoria di Ulisse Pedorti, Trapani, F.lli Messina e C. (1904, p. 9).

21) Il figlio Vincenzo mi riferisce che in casa di suo padre furono curati due ufficiali garibaldini che guariti, quando partirono, in segno di gratitudine e per ricordo, gli lasciarono uno spadino dal manico di avorio che la famiglia per tanto tempo conservò come un prezioso cimelio dell'eroica impresa. In seguito però di quello spadino fu fatto un coltello lungo per cucina col quale le nostre donne tagliano le fettuccine e i taglierini.

22) Nella casa Romano venne curato il colonnello Augusto Elia capo di Stato Maggiore ferito di proiettile alla bocca. L'Elia guarito, in segno di amore e di riconoscenza per l'assistenza ricevuta, intese il dovere di lasciare al generoso signor Romano la sua fotografia che tuttora viene conservata dal figlio sig cav. Giuseppe Romano, con un autografo riboccante di gratitudine. Il tenore dell'autografo è il seguente: «All'ottimo amico Salvatore Romano di Vita in pegno di amore e riconoscenza per l'assistenza prodigatami in sua casa durante le cure di ferita grave riportata in bocca a Calatafimi. Il 13 giugno 1860 A. Elia».

23) Non sappiamo i ricoverati in casa Leone ma dalla testimonianza di Elia sopra ricordata essi dovettero essere parecchi giacchè, come dice l'Elia, trasformò la sua casa  in ospedale.

Dei feriti garibaldini nella battaglia di Calatafimi quattro soltanto morirono in Vita: Giuseppe Romanello da Genova per ferita grave alla coscia, Luigi Martignoni di Giuseppe da Casal Pusterlengo di Lodi che furono sepolti nel Camposanto del Comune, Francesco Montanari da Roncale di Mirandola per frattura comminutiva al ginocchio, operato di amputazione, sepolto nella Chiesa dei PP. MM. OO. di Salemi e Ulisse Pedotti di Paolo da Laveno provincia di Como per ferita grave all' inguine. Riporto, perché degno di nota, l'atto di morte del Martignoni, come trovasi redatto nel registro della Parrocchia di Vita. E’ senza il nome dei genitori e lo dice nativo di Varese: «Anno Domini 1860. Pridie Kalendas Iunii Aloysius Martignoni filius... et... Doctor Utriusque Iuris dives ac Advocatus, ortus in Civitate Varensi in Lombardiae Regno cum, olim secuturus esset, Militiam meritissimi Ducis Ioseph Garibaldi e Nizza Sardiniae Regni, prae horrore (ut aiebat) Neapolitanae gubernationis, Charitate coactus erga populos Siciliarum ut cie daret liberiorem vitam cum petit ora maris veteris Libybei nunc Marsaliae nuncupati, bellum quod idibus Maji primo habuit cum suis non paucis viris italicis prope civitatem Calataphimi contra exercitum Neapolitanum, constantissime sustinuit, ad libertatem se non ad tirannidem natum affirmans. Itaque in brachiis atque in aliis variis membris sui corporis mortaliter vulneratus, ingravescens prae vulneribus, post multos dies, annum agens trigesimum circiter, hodie ex hac vita migravit domi Reverendissimi archipresbyteri Huius. Angelorum pane non refectus, neque allis ecclesiae Sacramentis praemunitus. Corpusque eius humatum fuit in Camposanto huius».

Il Montanari fu sepolto a Salemi, perché gli si potesse dare una più onorifica tomba degna del grado e dell'eroismo del defunto. Il Montanari infatti era capitano di Stato Maggiore aiutante di campo nelle truppe nazionali, e un eroico combattente: per le ferite riportate nel combattimento avea perduto una gamba. Alla richiesta di averne il cadavere, fatta dal Municipio di Salemi, il Comune di Vita non potendo, per le ristrettezze delle sue finanze, rendere adeguati onori all'eroismo dell'estinto, rispose con la seguente nobile lettera che rispecchia l'ammirazione dei Vitesi per l'illustre patriota:

«Vita 9/6/1860. Di riscontro al di Lei ufficio Le dico: di quanto Ella mi comanda sono pronto a rimetterLe il Cadavere Montanari. Ella si benignasse invitare la Guardia Nazionale di costì che io alle ore 21 d'Italia sarò pronto, con la Guardia Nazionale di questa, a partire, onde riscontrarci e dare una lode al Cadavere Montanari perché tale merita.

 Al Sig. Senatore del Municipio in Salemi

 Il Governatore Vincenzo Leone».

 Il trasporto ebbe luogo lo stesso giorno 9 giugno con tutti gli onori civili e militari e cioè con l'accompagnamento di una gran moltitudine di Vitesi, con la scorta della Guardia Nazionale, come propose il Governatore di Vita sig. Leone e con la rappresentanza ufficiale del Comune di Salemi e di Vita. A rappresentare il Comune fu mandato il sig. D. Vito Surdi fu Gaspare anche lui garibaldino. Sulla tomba venne incisa la seguente iscrizione:

«Al Mirandolano - Francesco Montanari - Dei Mille - Per ferite nella battaglia di Calatafimi - Morto di XXXIX anni in Vita il 9 giugno 1860 - Il Popolo di Salemi - Che ne raccolse fraternamente il Cadavere - Perché se ne onori la sepoltura - Q. M. P.».

Quello che il Comune non potè fare alla dimane della battaglia per onorare il Montanari nella terra dov'era spirato e per gli altri eroici morti, lo fece più tardi per Ulisse Pedotti.

Per ricordare ai posteri questo valoroso combattente dei Mille il Consiglio comunale di Vita e per esso la sua Presidenza, interprete del sentimento patriottico di questa cittadinanza, propose di onorare la memoria di Ulisse Pedotti con l'apposizione di una lapide che ricordasse ai posteri gli eroi caduti pugnando per il sacrosanto ideale dell'unità e indipendenza della nostra Italia e per ricordare ancora che il paese di Vita ebbe parte in quella gloriosa battaglia e che in esso fuono curati e sepolti i martiri dell' indipendenza. Tale deliberazione si trova nel registro al n. 21 dell' 8 maggio 1904 (vedi Registro delle deliberazioni consiliari n. 13).

La lapide fu murata nella facciata della Casa comunale accanto alla porta di ingresso: lapide che nel 1934 venne spostata per essere collocata vicino la porta della chiesa di S. Francesco per dare posto alla lapide dove sono scolpiti i nomi dei Caduti vitesi nella grande guerra 1915-18. Con questa epigrafe: «Ulisse Pedotti – Lombardo - Alla redenzione della Sicilia - Offrì la giovane vita - Combattente delle Cinque giornate - Cospiratore condannato alle Mude di Mantova - Volontario della Campagna del '59 - a Calatafimi fu mortalmente ferito e in questa terra spirava ventinovenne - Il municipio di Vita - A ricordo ed ammaestramento – Pose».

L'inaugurazione di questa lapide fu fatta con grande solennità cui parteciparono il popolo, i Reduci Garibaldini dei paesi vicini, i rappresentanti di alcuni Comuni, Autorità politiche della provincia e con uno smagliante discorso commemorativo dell'on. prof. dottor Ignazio Lampiasi, presentato dal giovane avvocato Salvatore Romano di Vita. Con dispiacere però debbo notare che tanto nei registri dello stato civile, quanto in quelli della parrocchia l'atto di morte del Pedotti non esiste. Io non so spiegarmi tale omissione specialmente considerando che manca soltanto questo, mentre degli altri tre defunti ricordati furono regolarmente redatti. E da pensare ad una deplorevole trascuraggine di chi aveva l'obbligo di redigerlo? Ma chi lo può sapere? Certa cosa è che la tradizione lo dice morto a Vita e il dottor Lampiasi lo conferma. Bisogna credergli, (24) perché fu proprio lui che lo curò nell' Ospedale di Vita e lo vide spirare. Del resto nell'Elenco dei Mille, morti in seguito a ferite riportate alla battaglia di Calatafimi, il Pedotti è notato come sepolto nella chiesa di S. Francesco, a sinistra di chi entra, aggiunge il prof. Lampiasi nel discorso citato.

24) Vedi I. Lampiasi, Per l’inaugurazione della lapide di Ulisse Pedotti, Trapani, Tipografia Fratelli Messina 1904, p. 6.

Non descrivo la leggendaria battaglia perchè nelle sue linee generali ed episodiche è a tutti nota, avendo altri ben noti e celebrati autori, di già narrata come io non saprei e potrei a 77 anni di distanza dal glorioso avvenimento, ed anche perchè ciò eccederebbe i limiti e lo scopo delle modeste ricerche che è soltanto di porre in evidenza e in luce l'opera e il contributo di Vita e dei vitesi al Risorgimento Nazionale purtroppo ignorati e misconosciuti.

A tal fine, prima di porre termine alla presente memoria ed a conclusione di essa, con la scorta del libro del Marino, del buon senso, della testimonianza di chi fu presente e dei fatti farò una precisazione riguardante la posizione occupata nel combattimento dalla squadra dei vitesi.

Certo, tale accenno non sarà un fuor d'opera, giacchè noi siciliani dovremmo ripetere e ricantare su tutti i toni le gesta epiche e gloriose delle nostre squadre, in omaggio alla verità ed anche, perchè no? come protesta contro alcuni storici che, o male informati o per malanimo o per megalomania regionale le hanno diffamate a tal segno da negare sinanco la loro partecipazione alla battaglia, nonostante le oneste e veritiere affermazioni di illustri personaggi quali il Bandi che fu ordinanza di Garibaldi, del Capitano Corselli e di altri.

Fatto questo assai deplorevole che alimentò ed acuì il fatale regionalismo e la divisione degli animi tra il Nord e il Sud d'Italia, a tutto danno dell'eroica Sicilia, dai signori del continente ritenuta come terra di conquista e per sessanta anni trattata come una povera Cenerentola non curata, sfruttata e disprezzata; mentre la storia verace avrebbe dovuto dire che fatto il debito onore agli eroici Mille, la Sicilia coi suoi Crispi, coi La Masa, coi Calvino, coi Pilo, coi suoi genii politici; con la generosità dei suoi baroni e benestanti; con gli esilii, con le carceri, con le braccia, col sangue e con la vita dei suoi figli, fece l'Italia.

Oggi fortunatamente, mercè l'avvento del Fascismo non è più cosi. L'unità spirituale della Patria che è un caposaldo della politica fascista, è un fatto compiuto  e si ha fede nella chiaroveggenza e nella equanimità del gran Duce Benito Mussolini che tanti torti perpetrati ai danni della Sicilia verranno riparati.

I segni precursori già li vediamo.(*)

(*)[Parte significativamente presente solo nell'edizione del 1938 e oculatamente eliminata in quella del 1950]

 

Le prime squadre siciliane venute a dare il loro braccio ai Mille appena sbarcati a Marsala e arrivati a Salemi furono quelle di Erice (Monte S. Giuliano), di Marsala, di S. Ninfa, di Partanna (25), di Calatafimi, di Alcamo, di Salemi e di Vita.

25) Per amore al luogo natio noto i nomi di alcuni volontari di questa squadra volendo rendere ad essi, che nella quasi totalità conobbi, anche il mio tributo di onore.

La squadra di Partanna era formata di cinquanta armati secondo il La Colla di 200 secondo il Varvaro. Fra essi furono i cinque Fratelli Messina uno dei quali Nicolò inteso «Pizzuluni» fu nella battaglia, ferito al braccio sinistro. Altri feriti partannesi furono Catalano Giuseppe di Pietro all'inguine, Don Carmelo Rizzo e un certo Cangemi forse Giuseppe. Dopo la battaglia di Calatafimi e l'entrata in Palermo molti altri partannesi si recarono a raggiungere Garibaldi e fecero tutta la campagna sino a Capua. Fra essi noto Di Stefano Rosario, Ing. Antonino Ingoglia, Rizzo Benedetto fu Rosario, Rizzo Calogero, Accardi Giacomo, Inglese Giuseppe, Rodi Nicolò e Antonino di Dottor Giuseppe, Patera Giovanni di Dottor Emanuele, Patera Alessio fu Vincenzo, Calandra Vincenzo fu Michele, Accardi Antonio di Notar Vincenzo, Rizzo Benedetto fu Giovanni, Lumia Pietro fu Saverio e Chiofalo Fortunato. Vedi La Colla, pag. VII e lo storico di Partanna Dott. Antonio Varvaro Bruno, opuscolo: Parlanna illustre per i suoi figli, edito Mazara 1931, Tip. Grillo.

S'intende che io non mi occupo che della squadra di Vita, perchè le altre hanno avuto il loro storico che le ha degnamente celebrate e mi è grato di potere con tutta sicurezza e verità asserire che essa prese parte attiva alla celebre battaglia.

Come abbiamo notato, nel corso di questa memoria la squadra di Vita formata da circa 25 volontari, per la sua esiguità non fece corpo a se ma fu aggregata a quella di Salemi con la quale si era unita in Salemi e nella marcia da Salemi a Vita e da Vita al luogo del combattimento. Ora, è fuori discussione che la squadra di Salemi abbia preso parte, e parte preminente alla celebre battaglia; come è fuori dubbio che le guerriglie siciliane furono affidate al comando del prode ericino Giuseppe Coppola che nello schieramento delle forze volontarie, secondo alcuni storici formarono l'ala destra e secondo il citato Marino l'ala sinistra dell'esercito Garibaldino (26).

26) Marino, op. cit. pag. 57.

Furono queste squadre che nella memoranda giornata compirono atti di eroismo veramente leggendari come leggendaria fu tutta la battaglia. Chi ha vaghezza di conoscere alcuni episodi riguardanti la squadra di Salemi legga le pagine 52 e 53 del libro del Prof. Marino e le pagine 87 e 88 del Prof. La Colla: episodi confermati dalla testimonianza dello storico Corselli, pag. 64 nel recente lavoro «I Mille e le squadre Siciliane ». Certo nè il Marino nè il La Colla o altri parlano esplicitamente della squadra di Vita; ma parlando della squadra di Salemi implicitamente, parlano di quella di Vita perchè entrambe formavano una sola squadra.

Non ne parlano altresì perchè il loro scopo precipuo era di fare risaltare l'eroismo dei propri concittadini, ma noi con tutta sicurezza possiamo affermare che anche i volontari di Vita pur non conoscendo episodi e fatti particolari che ne rivelino l'eroismo, fecero il loro dovere nella sempre gloriosa giornata del 15 maggio 1860.

Notiamo che i volontari vitesi raccolti e guidati dal Sig. Antonino Ditta si presentarono in Salemi a Garibaldi tutti armati come afferma il volontario Emmanuele che era nella squadra, motivo per cui dobbiamo credere che ad essi dovette essere affidato un posto tra i combattenti. Ed invero con tanta penuria di armi (27) lo stato Maggiore Garibaldino non poteva privarsi di circa 25 bocche da fuoco; senza dire che Antonino Ditta per il suo coraggio, per il suo temperamento violento, per la sua impulsività ed esuberanza, nonchè per il suo ardore patriottico non era l'uomo da farsi relegare coi suoi, fra le gole e le pendici della Montagna Grande (sufficientemente distante da Pianto Romano) tra le squadre di Adamo e di Colombo entrambi da Calatafimi (28).

27) Il Marino, op. cit. pag. 81, scrive che per mancanza di fucili, Garibaldi armò le squadre di picche e di lance. Se ciò può essere vero riguardo alle altre squadre, in riguardo a quella di Vita trovasi in un completo errore, giusto l'affermazione dello squadrista Emmanuele.

28) Marino, op. cit., pag. 46.

Bene è vero, che alcuni storici e segnatamente il Turr nel descrivere lo spiegamento delle forze Garibaldine assegna la squadra di Vita all’ala sinistra a tutela delle artiglierie di Orsini, ma ciò è un errore o un equivoco dello stesso Turr come tanti se ne scrissero anche da uomini che presero parte alla spedizione.

Concedo che effettivamente alcuni vitesi si trovarono accanto alle squadre dell'estrema ala sinistra, ma si tratta di alcuni "Picciotti,, senz'armi e curiosi della novità che si spinsero sino alla Montagna Grande (29) e furono qualificati come squadra; ma i vitesi armati, furono fra le squadre dei combattenti con il Coppola ed il Sant'Anna; e la prova apodittica si ha nel fatto che uno di essi, Genova Vito fu Giuseppe fu ferito combattendo e col suo sangue imporporò le zolle del fatidico colle: ciò non sarebbe avvenuto se la squadra di Vita fosse stata affidata insieme alla squadra di Calatafimi al Comando dei già nominati Adamo e Colombo.

29) Non solo questi  Picciotti  ma tutto il popolo di Vita spinto anch'esso dalla curiosità insieme a numerosi Salemitani occuparono le alture di Makani e di Calemici che stanno a cavaliere della vallata dei mulini e quasi di fronte a Pianto Romano.

Nè furono senza un rilevantissimo peso nella bilancia della sudata e sanguinosa battaglia osserva il Marino a pag. 46-47 avvegnachè figurassero all'occhio del Generale Landi come il tondo in cui si disegnava e coloriva l'esercito Garibaldino; come la riserva di forze vive che avrebbero potuto rinfrescare le diradate file dei combattenti.

 

 

 

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