IL COMUNE DI VITA
E IL RISORGIMENTO ITALIANO
di Don
Antonino Gioia
Don Antonino
Gioia (1872-1957), di Partanna,
Arciprete di Vita per lunghissimi anni (dal 1911 al 1957), oltre che uomo religioso e pastore di anime,
fu uomo colto, studioso e storico. Negli anni trenta, ricostruì il periodo del Risorgimento
a Vita e il suo
lavoro fu pubblicato nella “Rassegna Storica del Risorgimento” (Roma, Marzo 1938, Libreria dello
Stato).
Successivamente si
accinse alla stesura del libro “Trecento anni di storia civile ed ecclesiastica del
Comune di Vita”, stampato nel Maggio 1950, a
Catania, dalla Tipografia della Pia Società San Paolo.
Al cap. XIV (pagg. 257-282), riportò quasi integralmente il saggio
sul Risorgimento vitese, con lievissime differenze rispetto alla prima stesura.
Nella edizione del ’50 si notano
sostanzialmente due modifiche:
-
1) l’omissione di un ossequio
"d'occasione" al
fascismo, che noi, a memoria, abbiamo voluto riportare (il testo è in rosso);
-
2) l’aggiunta della nota n.
15 (trascritta in blu).
Poche e assolutamente irrilevanti le
altre differenze tra le due edizioni.
IL COMUNE DI VITA
E IL RISORGIMENTO ITALIANO
Vita
non potè dare e di fatto non diede un rilevante contributo alla causa del
Risorgimento italiano. Paese, nella grandissima maggioranza, di agricoltori,
piccolo e fuori delle correnti politiche che si dibattevano nelle città e nei
grossi paesi della Sicilia, trascurato o almeno non curato nella propaganda
delle nuove idee politiche di libertà e dei nuovi orientamenti che facevano
congiurati e agitatori, viveva ignara del fermento destinato a condurre l'Italia
alla sua unità nazionale.
Soltanto
un certo D. Antonino Ditta, ricco possidente del luogo, durante gli anni che
precedettero lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, era in relazione con gli uomini
che prepararono la riscossa, specialmente col Crispi e con la Masa. Ma il Ditta,
pur essendo un congiurato, o almeno a parte della congiura, era un esiliato del
1848 a Siracusa, e per questo motivo nulla potè fare per preparare gli animi
dei suoi concittadini. (1)
1)
Questa notizia mi è stata fornita dal nipote del Ditta, sig. Francesco Di
Giovanni
che sino a pochi anni addietro conservava lettere e telegrammi del La Masa e del
Crispi ora smarriti.
Insieme
al Ditta un altro personaggio, al Ditta congiunto con vincoli di parentela,
merita di essere ricordato se non come congiurato, certo come un pioniere e buon
patriota della Rivoluzione o almeno come un liberale della prima ora: D. Gaetano
Di Giovanni.
Nel
1848 era comandante del forte di Santa Caterina di Favignana con le funzioni di
sottotenente e, per i sentimenti liberali dei quali faceva professione, fatto
bersaglio della polizia fu obbligato dalla reazione borbonica a lasciare il suo
ufficio. (2)
2)
Vedi certificato
rilasciato dal Comandante militare di Favignana capitano Andrea Li Volsi, 20
aprile 1861. Visto dal Commissario di guerra firmato Giuseppe Abate.
Nello
stesso anno fece parte della spedizione in Lombardia e la Patria riconoscente ai
di lui uffici gli conferì il grado di sottotenente effettivo.
(3)
3)
Vedi certificato lasciato dal Vice Comandante della Legione spedita in Lombardia
nel 1848, maggior Palizzo1o - Alcamo 30 maggio 1860. Visto per la legalizzazione
della firma il Governatore di Alcamo barone Sant'Anna.
Nel
mese di ottobre 1854 fu dagli sgherri della polizia borbonica arrestato e soffrì
cinque mesi di Camera chiusa in Palermo e tre mesi di domicilio forzoso in
Monreale unitamente al barone Sant'Anna di Alcamo.
(4)
4)
Certificato
rilasciato in Palermo 9 luglio 1860 firmato barone Sant'Anna Stefano, e per la
legalizzazione della firma visto il Consigliere anziano Angelo Calvino - Trapani
5 aprile 1861.
Finalmente,
per le sue benemerenze nella liberazione della Sicilia, nel 1860 gli fu concessa
la medaglia di rame a norma del decreto 12 dicembre 1860 dal Luogotenente
generale di Stato Maggiore nelle provincie sicillane. (5)
5)
Dichiarazione del Prefetto di Palermo per delegazione del Ministero dell’Interno,
20 novembre 1863, registrata negli Elenchi della Commissione numero d'ordine
437, firmato il Presidente La Loggia.
Questi
documenti si trovano custoditi in casa della nuora Signora Leonarda Romano del
fu notar Girolamo.
Quando
l'11 maggio 1860 i Mille sbarcarono a Marsala e si sentì la ventata
rivoluzionaria, il popolo di Vita provò trepidazione e spavento. Non già per
attaccamento al Governo borbonico, ma perchè temeva che la nuova rivoluzione
potesse rinnovare gli orrori, le stragi e le reazioni di quella del 1848.
Nei
moti infatti del 1848 la plebe, sobillata da interessati mestatori, con ferocia
belluina aveva assassinato, come abbiamo detto in altro studio, ben dodici
galantuomini, come vengono chiamati qui i benestanti e i qualificati; assassini
cui tennero dietro le immancabili punizioni cioè esilii, confini e fucilazioni.
Tuttavia un manipolo di armati, sotto la guida del sig. Vincenzo Leone fu
Erasmo, si recò la sera del 14 maggio a Salemi dove già trovavasi Garibaldi
coi suoi.
Facevano
parte di questo manipolo i due fratelli Saverio e Salvatore Cappello e il
sedicenne Vito Genova fu Giuseppe. (6)
6)
Vedi Prof. La Colla, Salemi e i Mille, pag. X, il quale ci fa sapere
che la minuscola squadra fu in casa del sig. Gaspare Salvo e che insieme
alla squadra di Salemi seguì Garibaldi.
Il
più che nonagenario Vincenzo Emmanuele, tuttora vivente e residente in
Campobello di Mazara, mi fa sapere che il soprannominato Antonino Ditta,
sbarcato Garibaldi a Marsala, da Siracusa volò a Vita, e «arruolati una
ventina di vitesi, dei quali per l'avanzata età non ricorda più i nomi,
raggiunse Garibaldi a Salemi in Piazza S. Francesco». Lo stesso Emmanuele che
faceva parte della squadra, mi riferisce di avere assistito ad un colloquio tra
Garibaldi e il Ditta e che io per quel che vale trascrivo. Il Ditta consigliava
il Garibaldi a proclamare la Repubblica siciliana, ma ne ebbe la recisa risposta
che si occupava la Sicilia a nome e spese di Vittorio Emanuele e quindi non era
possibile addivenire a tale proposta.
L'indomani
poi alcuni giovani animo si ed ardenti di patriottismo si unirono ai Mille,
che marciando verso Calatafimi passarono per Vita e insieme alle squadre di
Salemi e degli altri Comuni della provincia presero parte alla celebre battaglia
di Pianto Romano. Fra questi sono ricordati: Giuseppe Occhipinti fu Paolo,
Salvatore Rizzuto, Antonino Vesco fu Vito, Nicolò Riservato, D. Vito Surdo fu
Gaspare, un certo Giglio, Antonino Pedone fu Gaetano che fu il capo di questo
manipolo di eroi (7)
e Isidoro Spanò fu Giuseppe.
7)
Nel 1865 lo troviamo consigliere del Comune di Vita. Avendo fatto istanza per la
licenza di porto d'armi il Consiglio ad unanimità lo ritenne meritevole della
concessione richiesta con la seguente motivazione: «Perchè benemerito della
Patria e perchè in ogni tempo si è mostrato ottimo patriota 5; vedi registro
delle deliberazioni del 1862 a. 3, 2 novembre 1865.
Di
questi volontari si sa che il sopranominato Vincenzo Emmanuele seguì le truppe
garibaldine sino a Palermo, che il Genova combattendo a Calatafimi con audacia
giovanile nel fervore della mischia fu ferito gravemente di proiettile alla
spalla e che fu ricoverato nell'Ospedale di ambulanza di Vita e poscia guarito
trasportato a Salemi, e da Salemi il 21 agosto partì per Palermo.(8)
Il
Comune di Vita con deliberazione del 9 novembre 1928 gli dedicò una via del
paese con la seguente motivazione «Genova Vito fu Giuseppe concittadino, appena
sedicenne si unì a Garibaldi in Salemi e combattè valorosamente rimanendo
ferito a Calatafimi».(9)
Dell'Occhipinti
si sa che morì a Palermo nella battaglia del 27 maggio.(10)
8)
Vedi LA COLLA, op.
cit., pag. XVIII, quadro statistico.
9)
Vedi registro delle deliberazioni, anno 1928, n. 91, VII.
10)
La famiglia dell'Occhipinti conserva una lettera di condoglianze.
Qui
cade in acconcio un episodio di cui fu protagonista il sopranominato Isidoro
Spanò; episodio che gli storici della battaglia di Calatafimi non hanno
riferito forse perchè non lo conobbero, forse perchè trattandosi di un
dettaglio della leggendaria impresa compiuto da un allora anonimo operaio
siciliano che non faceva parte della spedizione, credettero di poterlo e doverlo
ignorare.
Io
lo riferisco ad integrazione della verità storica e per onorare la memoria di
un cittadino di Vita che portò il suo modesto ma efficace contributo alla
vittoria di Pianto Romano.
Lo
Spanò sulle prime non si unì ai Mille che la mattina del 15 maggio
traversarono Vita; ma poscia preso dalla curiosità e mosso dalla emulazione dei
suoi giovani compaesani già partiti coi volontari garibaldini, quando vide
passare il carro che trasportava la famosa colubrina, gli tenne dietro sperando
di poter fare anche egli qualche cosa per Garibaldi. Fu questa una buona
ispirazione per il segnalato servizio che più tardi prestò. I Garibaldini per
affrontare le milizie borboniche, che il Duce conosceva trovarsi verso
Calatafimi poco dopo usciti da Vita, per ragioni tattiche e strategiche non
proseguirono la marcia lungo lo stradone provinciale, ma presero un sentiero
angusto ed accidentato che si snoda sulle alture fiancheggianti la strada
rotabile provinciale: sentiero che conduce alla cosiddetta «Fontana della Spina».
Ma il carro che portava il pezzo di artiglieria non potè seguirli, appunto
perchè il sentiero era, come s’è detto, stretto, e non carreggiabile e
dovette proseguire per lo stradone.
L'utilità
dello Spanò si mostrò in questa circostanza. I soldati borbonici, dopo la
prima scaramuccia avvenuta alla Fontana della Spina, si erano ritirati sul breve
altipiano del colle di Pianto Romano, e, schierati in ordine di battaglia,
aspettavano i Garibaldini.(11)
Lo Spanò che durante il cammino aveva inteso il crepitare della fucileria e il
rombo dei cannoni borbonici, giunto a un certo punto della strada e precisamente
nel luogo chiamato Calemici vicino il giardino del sacerdote don Giovanni
Monaco, avvistatili, da stratega improvvisato, persuase i conducenti Garibaldini
a fermarsi, essendo quello un posto assai propizio dal quale si poteva tirare
sui Borbonici. Pratico dei luoghi collocò la colubrina in luogo coperto e al
sicuro dei tiri nemici e aspettò insieme agli artiglieri garibaldini gli ordini
superiori.
Frattanto
le sorti delle nostre squadre andavano male; due attacchi alla baionetta erano
stati, dai Borbonici, respinti, con gravi perdite dei nostri, quando Garibaldi
che da lontano osservava lo svolgersi delle vicende, ordinò di accendere le
artiglierie.(12)
Venuto
l'ordine di far fuoco, lo Spanò che già aveva fatto collocare la colubrina nel
sito dal quale i nemici si potevano distintamente vedere volle anche puntare.
Era un operaio murifabbro dall'occhio esercitato alle linee e alle distanze e
pertanto gli venne facile mirare con precisione il campo nemico: tanto che il
colonnello Orsini, comandante delle artiglierie ispezionando la posizione della
colubrina, in segno di approvazione e di lode gli battè la spalla. Il trapanese
Antonio Ficalora diede fuoco alla miccia e la palla del cannone colpendo in
pieno portò lo scompiglio e la confusione tra le truppe borboniche che già
cantavano la vittoria della giornata campale. (13)
11)
Vedi Prof. Marino, storia dei Mille, p. 50.
12)
Vedi Prof. Marino, op. cit., p. 50.
13)
Vedi Prof. Marino, op. cit., p. 50.
Quel
colpo di cannone, aggiustato da un vitese e tirato da un trapanese, mutò le
sorti della battaglia e fu l'inizio della vittoria che ricoprì di gloria
immortale gli eroici Garibaldini.
(14)
14)
Questo episodio mi è
stato narrato da alcuni vecchi vitesi tuttora viventi che furono contemporanei
allo Spanò e confermato dall'omonimo Isidoro Spanò, il quale lo aveva inteso
narrare tante volte da suo nonno che ne fu il protagonista. A dimostrare
l'attendibilità e la verità di quanto ho narrato è sufficiente la
considerazione
che lo Stato Maggiore garibaldino non era fornito di carte topografiche e che in
mancanza di queste soltanto un paesano era il più idoneo a designare e indicare
la via e il sito di appostamento di quel pezzo di artiglieria.
Avvenuta
la battaglia e quando ancora si udivano gli ultimi colpi di fucileria i migliori
cittadini di Vita accorsero sul luogo del combattimento e favorirono come
poterono Garibaldi e i suoi volontari. Tra questi cittadini è degno di essere
ricordato il dottor Gaspare Scaduto giovane di provato patriottismo che nel 1848
aveva fatto le prime armi in Lombardia.
(15)
15)
Il Dr. D. Gaspare Scaduto, nel 1860 era membro della Municipalità, colla carica
di 2° eletto, cioè membro della Giunta comunale. Al sopravvenire della
Rivoluzione, il Sindaco erasi maliziosamente allontanato. Il Dr. Scaduto con
senso di alto civismo, assumendo il timone della cosa pubblica, seppe con forza
e belle maniere rassicurare gli animi dei pacifici cittadini e reprimere i moti
rivoltosi dei tristi che non mancano mai di pescare nel torbido. Fu capitano
comandante della milizia nazionale e seppe riunire molte volte un buon numero di
militi alla sola e semplice richiesta del Capitano dei Carabinieri Reali della
Provincia mettendosi a capo; vegliò con fatica per la repressione delle bande
armate che infestavano il circondario di Castellammare e di Calatafimi durante
la guerra e i fatti rivoltosi di Palermo con
mano di indefessa sollecitudine
mercè la quale i buoni cittadini stavano tranquilli e prestavano braccio forte
alla Milizia nazionale e i tristi facevano conto di non essere tali perché
colla forza in vigore ogni loro conato era vano. – Spiegò una grande energia
nel cordone sanitario e nella pulitezza del Paese. Fu per molti anni medico
comunale; componente La Sanità e Commissione comunale di Statistica. – Nacque
il 29 luglio 1825 in Vita da D. Luciano e da D.na Giovanna Leone. Si unì in
matrimonio con Gaetana Romano del notar D. Giuseppe. Ebbe due figli: la figlia
Giacoma fu sposa del Sig. Salvatore Favara da Salemi. La sera del 5/11/1866
venne proditoriamente assassinato per interessi, da un suo fratello. Il Comune
nel 1866 assegnò alla vedova una pensione di £. 153 annue per il quinquennio
1866-1871. Vedi delib. 25/11/1866.
[nota
assente nell'edizione del 1938]
Intuì
costui che l'opera sua sanitaria sarebbe stata utile e necessaria e senza
indugi con senso di alto patriottismo ed umanità con altri generosi accorse al
campo per portarvi i primi soccorsi e medicare i feriti lasciando partoriente la
moglie donna Gaetana Romano.
Quando
poi i feriti furono trasportati a Vita, dove fu istituito l'Ospedale militare
sotto la direzione del dottor Ripari egli si unì agli altri sanitari nel
prodigare cure ed assistenza.
Nell'ospedale
di Vita che fu impiantato nella chiesa e nel convento di S. Francesco vennero
ricoverati, secondo lo storico Marini, ottanta feriti e secondo il prof. dottor
Lampiasi, citato dallo storico La Colla, sessanta. In un primo tempo essi furono
affidati al dottor Pietro Ripari, capo medico dell'Ambulanza dei Mille, ma
obbligato dal Garibaldi a seguirlo insieme agli altri sanitari, la cura degli
ammalati venne affidata al dottor prof. Lampiasi il quale fu coadiuvato dal
nostro dott. Scaduto e da altri sanitari. Come scrive il citato storico La
Colla.
I
feriti in Vita furono curati con grande amore e premura non soltanto per
l'assistenza dei valorosi sanitari ma per la generosità dei cittadini che
furono larghi di aiuti materiali e per l'opera delle donne le quali con
entusiasmo prepararono sfilacce, apprestarono tela per le bende e lavarono panni
insanguinati. Per la cura dei feriti il Comune di Vita spese onze 150 e più,
come si legge nella deliberazione del Decurionato 17 giugno 1860, e 150 onze
avevano a quei tempi un valore ingente per un piccolo Comune di poche migliaia
di anime.
Un
elogio, di indiscutibile certezza storica, alla generosità ed al patriottismo
di Vita, e che sfata una leggenda ignominiosa che dipinge i cittadini di questo
Comune come tanti predoni corsi al campo per spogliare e derubare morti e feriti
per il deplorevole fatto che due di essi soltanto, del resto noti, compirono
criminose e sciacallesche gesta, venne fatto dall'on. dottor Lampiasi che ne fu
testimonio oculare.
Trascrivo
le sue parole: «Io ebbi la fortuna di detergere le ferite dei caduti... Il
domattina del combattimento più che sessanta gravissimi feriti erano giacenti
sul pavimento della chiesa di S. Francesco della prossima Vita che ci fu
tanto ospitale e larga di aiuti».
(16)
16) Discorso letto sul campo di
battaglia di
Pianto Romano nella commemorazione del maggio 1884.
Un'altra
testimonianza della generosità e del patriottismo del popolo vitese venne
spontaneamente fatta dal colonnello Augusto Elia.
Trovandosi
1'Elia il 27 maggio 1903 a Palermo nel vestibolo del Politeama dopo avere
assistito alla lettura della Nuova Rapsodia Garibaldina fatta da Giovanni
Marradi, ad un gruppo di amici ebbe a dire: «Io sono vivo per Salvatore Romano
di Vita che con tanto affetto e sollecitudine mi curò in casa sua. E sarei un
ingiusto, se tacessi la generosità del signor Baldassare Leone che in quella
occasione aprì la casa ai feriti trasformandola in ospedale dove regnava
sovrana la carità e la nobiltà d'animo della signora Caterina Farina». (17)
Altro che predoni e sciacalli!
17)
Vedi: Discorso manoscritto pronunziato dall'avv. Salvatore Romano fu Girolamo
nel 1904 a Vita inaugurandosi una lapide in onore di Ulisse Pedotti. Discorso
che conserva la signora Leonarda Romano vedova Di Giovanni.
Oltre
l'ospedale, alcuni cittadini vitesi offrirono le loro case per i feriti più
gravi o per quelli di più alto grado militare e di distinta posizione sociale.
A titolo di onore vanno ricordati l'arciprete dottor don Rocco Modica,(18)
la signora Scaduto,(19)
la famiglia Corrao,(20)
il signor Simone Lorenzo,(21)
il sig. Salvatore Romano del fu notar Giuseppe (22)
e don Baldassare Leone (23).
18)
Nella casa dell'arciprete Modica, dove morì, fu ricoverato Luigi Martignoni,
ferito di proiettile alla schiena.
19)
Nella casa della signora Scaduto furono ricoverati Ulisse Pedotti e Malocchi.
Vedi LA COLLA, op. cit., p. 8.
20)
La famiglia Corrao ricoverò Maldacea Moisè di Vincenzo da Foggia ferito al
braccio sinistro, vedi I. Lampiasi, per l’inaugurazione della lapide in
memoria di Ulisse Pedorti, Trapani, F.lli Messina e C. (1904, p. 9).
21)
Il figlio Vincenzo mi riferisce che in casa di suo padre furono curati due
ufficiali garibaldini che guariti, quando partirono, in segno di gratitudine e
per ricordo, gli lasciarono uno spadino dal manico di avorio che la famiglia per
tanto tempo conservò come un prezioso cimelio dell'eroica impresa. In seguito
però di quello spadino fu fatto un coltello lungo per cucina col quale le
nostre donne tagliano le fettuccine e i taglierini.
22)
Nella casa Romano venne curato il colonnello Augusto Elia capo di Stato Maggiore
ferito di proiettile alla bocca. L'Elia guarito, in segno di amore e di
riconoscenza per l'assistenza ricevuta, intese il dovere di lasciare al generoso
signor Romano la sua fotografia che tuttora viene conservata dal figlio sig cav.
Giuseppe Romano, con un autografo riboccante di gratitudine. Il tenore
dell'autografo è il seguente: «All'ottimo amico Salvatore Romano di Vita in
pegno di amore e riconoscenza per l'assistenza prodigatami in sua casa durante
le cure di ferita grave riportata in bocca a Calatafimi. Il 13 giugno 1860 A.
Elia».
23)
Non sappiamo i ricoverati in casa Leone ma dalla testimonianza di Elia sopra
ricordata essi dovettero essere parecchi giacchè, come dice l'Elia, trasformò
la sua casa in ospedale.
Dei
feriti garibaldini nella battaglia di Calatafimi quattro soltanto morirono in
Vita: Giuseppe Romanello da Genova per ferita grave alla coscia, Luigi
Martignoni di Giuseppe da Casal Pusterlengo di Lodi che furono sepolti nel
Camposanto del Comune, Francesco Montanari da Roncale di Mirandola per frattura
comminutiva al ginocchio, operato di amputazione, sepolto nella Chiesa dei PP.
MM. OO. di Salemi e Ulisse Pedotti di Paolo da Laveno provincia di Como per
ferita grave all' inguine. Riporto, perché degno di nota, l'atto di morte del
Martignoni, come trovasi redatto nel registro della Parrocchia di Vita. E’
senza il nome dei genitori e lo dice nativo di Varese: «Anno Domini 1860.
Pridie Kalendas Iunii Aloysius Martignoni filius... et... Doctor Utriusque Iuris
dives ac Advocatus, ortus in Civitate Varensi in Lombardiae Regno cum, olim
secuturus esset, Militiam meritissimi Ducis Ioseph Garibaldi e Nizza Sardiniae
Regni, prae horrore (ut aiebat) Neapolitanae gubernationis, Charitate coactus
erga populos Siciliarum ut cie daret liberiorem vitam cum petit ora maris
veteris Libybei nunc Marsaliae nuncupati, bellum quod idibus Maji primo habuit
cum suis non paucis viris italicis prope civitatem Calataphimi contra exercitum
Neapolitanum, constantissime sustinuit, ad libertatem se non ad tirannidem natum
affirmans. Itaque in brachiis atque in aliis variis membris sui corporis
mortaliter vulneratus, ingravescens prae vulneribus, post multos dies, annum agens
trigesimum circiter, hodie ex hac vita migravit domi Reverendissimi
archipresbyteri Huius. Angelorum pane non refectus, neque allis ecclesiae
Sacramentis praemunitus. Corpusque eius humatum fuit in Camposanto huius».
Il
Montanari fu sepolto a Salemi, perché gli si potesse dare una più onorifica
tomba degna del grado e dell'eroismo del defunto. Il Montanari infatti era
capitano di Stato Maggiore aiutante di campo nelle truppe nazionali, e un eroico
combattente: per le ferite riportate nel combattimento avea perduto una gamba.
Alla richiesta di averne il cadavere, fatta dal Municipio di Salemi, il Comune
di Vita non potendo, per le ristrettezze delle sue finanze, rendere adeguati
onori all'eroismo dell'estinto, rispose con la seguente nobile lettera che
rispecchia l'ammirazione dei Vitesi per l'illustre patriota:
«Vita
9/6/1860. Di riscontro al di Lei ufficio Le dico: di quanto Ella mi comanda sono
pronto a rimetterLe il Cadavere Montanari. Ella si benignasse invitare la
Guardia Nazionale di costì che io alle ore 21 d'Italia sarò pronto, con la
Guardia Nazionale di questa, a partire, onde riscontrarci e dare una lode al
Cadavere Montanari perché tale merita.
Al
Sig. Senatore del Municipio in Salemi
Il
Governatore Vincenzo Leone».
Il
trasporto ebbe luogo lo stesso giorno 9 giugno con tutti gli onori civili e
militari e cioè con l'accompagnamento di una gran moltitudine di Vitesi, con
la scorta della Guardia Nazionale, come propose il Governatore di Vita sig.
Leone e con la rappresentanza ufficiale del Comune di Salemi e di Vita. A
rappresentare il Comune fu mandato il sig. D. Vito Surdi fu Gaspare anche lui
garibaldino. Sulla tomba venne incisa la seguente iscrizione:
«Al
Mirandolano - Francesco Montanari - Dei Mille - Per ferite nella battaglia di
Calatafimi - Morto di XXXIX anni in Vita il 9 giugno 1860 - Il Popolo di Salemi
- Che ne raccolse fraternamente il Cadavere - Perché se ne onori la sepoltura -
Q. M. P.».
Quello
che il Comune non potè fare alla dimane della battaglia per onorare il
Montanari nella terra dov'era spirato e per gli altri eroici morti, lo fece più
tardi per Ulisse Pedotti.
Per
ricordare ai posteri questo valoroso combattente dei Mille il Consiglio comunale
di Vita e per esso la sua Presidenza, interprete del sentimento patriottico di
questa cittadinanza, propose di onorare la memoria di Ulisse Pedotti con
l'apposizione di una lapide che ricordasse ai posteri gli eroi caduti pugnando
per il sacrosanto ideale dell'unità e indipendenza della nostra Italia e per
ricordare ancora che il paese di Vita ebbe parte in quella gloriosa battaglia e
che in esso fuono curati e sepolti i martiri dell' indipendenza. Tale
deliberazione si trova nel registro al n. 21 dell' 8 maggio 1904 (vedi Registro
delle deliberazioni consiliari n. 13).
La
lapide fu murata nella facciata della Casa comunale accanto alla porta di
ingresso: lapide che nel 1934 venne spostata per essere collocata vicino la
porta della chiesa di S. Francesco per dare posto alla lapide dove sono scolpiti
i nomi dei Caduti vitesi nella grande guerra 1915-18. Con questa epigrafe: «Ulisse
Pedotti – Lombardo - Alla redenzione della Sicilia - Offrì la giovane vita -
Combattente delle Cinque giornate - Cospiratore condannato alle Mude di
Mantova - Volontario della Campagna del '59 - a Calatafimi fu mortalmente ferito
e in questa terra spirava ventinovenne - Il municipio di Vita - A ricordo ed
ammaestramento – Pose».
L'inaugurazione
di questa lapide fu fatta con grande solennità cui parteciparono il popolo, i
Reduci Garibaldini dei paesi vicini, i rappresentanti di alcuni Comuni, Autorità
politiche della provincia e con uno smagliante discorso commemorativo dell'on.
prof. dottor Ignazio Lampiasi, presentato dal giovane avvocato Salvatore Romano
di Vita. Con dispiacere però debbo notare che tanto nei registri dello stato
civile, quanto in quelli della parrocchia l'atto di morte del Pedotti non
esiste. Io non so spiegarmi tale omissione specialmente considerando che manca
soltanto questo, mentre degli altri tre defunti ricordati furono regolarmente
redatti. E da pensare ad una deplorevole trascuraggine di chi aveva l'obbligo
di redigerlo? Ma chi lo può sapere? Certa cosa è che la tradizione lo dice
morto a Vita e il dottor Lampiasi lo conferma. Bisogna credergli, (24)
perché fu proprio lui che lo curò nell' Ospedale di Vita e lo vide spirare.
Del resto nell'Elenco dei Mille, morti in seguito a ferite riportate alla
battaglia di Calatafimi, il Pedotti è notato come sepolto nella chiesa di S.
Francesco, a sinistra di chi entra, aggiunge il prof. Lampiasi nel discorso
citato.
24)
Vedi I. Lampiasi, Per l’inaugurazione della lapide di Ulisse Pedotti,
Trapani, Tipografia Fratelli Messina 1904, p. 6.
Non
descrivo la leggendaria battaglia perchè nelle sue linee generali ed
episodiche è a tutti nota, avendo altri ben noti e celebrati autori, di già
narrata come io non saprei e potrei a 77 anni di distanza dal glorioso
avvenimento, ed anche perchè ciò eccederebbe i limiti e lo scopo delle modeste
ricerche che è soltanto di porre in evidenza e in luce l'opera e il contributo
di Vita e dei vitesi al Risorgimento Nazionale purtroppo ignorati e
misconosciuti.
A
tal fine, prima di porre termine alla presente memoria ed a conclusione di essa,
con la scorta del libro del Marino, del buon senso, della testimonianza di chi
fu presente e dei fatti farò una precisazione riguardante la posizione occupata
nel combattimento dalla squadra dei vitesi.
Certo,
tale accenno non sarà un fuor d'opera, giacchè noi siciliani dovremmo
ripetere e ricantare su tutti i toni le gesta epiche e gloriose delle nostre
squadre, in omaggio alla verità ed anche, perchè no? come protesta contro
alcuni storici che, o male informati o per malanimo o per megalomania regionale
le hanno diffamate a tal segno da negare sinanco la loro partecipazione alla
battaglia, nonostante le oneste e veritiere affermazioni di illustri
personaggi quali il Bandi che fu ordinanza di Garibaldi, del Capitano Corselli e
di altri.
Fatto
questo assai deplorevole che alimentò ed acuì il fatale regionalismo e la
divisione degli animi tra il Nord e il Sud d'Italia, a tutto danno dell'eroica
Sicilia, dai signori del continente ritenuta come terra di conquista e per
sessanta anni trattata come una povera Cenerentola non curata, sfruttata e
disprezzata; mentre la storia verace avrebbe dovuto dire che fatto il debito
onore agli eroici Mille, la Sicilia coi suoi Crispi, coi La Masa, coi Calvino,
coi Pilo, coi suoi genii politici; con la generosità dei suoi baroni e
benestanti; con gli esilii, con le carceri, con le braccia, col sangue e con la
vita dei suoi figli, fece l'Italia.
Oggi
fortunatamente, mercè l'avvento del Fascismo non è più cosi. L'unità
spirituale della Patria che è un caposaldo della politica fascista, è un fatto
compiuto e si ha fede nella chiaroveggenza e nella equanimità del gran
Duce Benito Mussolini che tanti torti perpetrati ai danni della Sicilia verranno
riparati.
I
segni precursori già li vediamo.(*)
(*)[Parte
significativamente presente solo nell'edizione del 1938 e oculatamente eliminata
in quella del 1950]
Le
prime squadre siciliane venute a dare il loro braccio ai Mille appena sbarcati a
Marsala e arrivati a Salemi furono quelle di Erice (Monte S. Giuliano), di
Marsala, di S. Ninfa, di Partanna (25),
di Calatafimi, di Alcamo, di Salemi e di Vita.
25)
Per amore al luogo natio noto i nomi di alcuni volontari di questa squadra
volendo rendere ad essi, che nella quasi totalità conobbi, anche il mio tributo
di onore.
La
squadra di Partanna era formata di cinquanta armati secondo il La Colla di 200
secondo il Varvaro. Fra essi furono i cinque Fratelli Messina uno dei quali
Nicolò inteso «Pizzuluni» fu nella battaglia, ferito al braccio sinistro.
Altri feriti partannesi furono Catalano Giuseppe di Pietro all'inguine, Don
Carmelo Rizzo e un certo Cangemi forse Giuseppe. Dopo la battaglia di Calatafimi
e l'entrata in Palermo molti altri partannesi si recarono a raggiungere
Garibaldi e fecero tutta la campagna sino a Capua. Fra essi noto Di Stefano
Rosario, Ing. Antonino Ingoglia, Rizzo Benedetto fu Rosario, Rizzo Calogero,
Accardi Giacomo, Inglese Giuseppe, Rodi Nicolò e Antonino di Dottor Giuseppe,
Patera Giovanni di Dottor Emanuele, Patera Alessio fu Vincenzo, Calandra
Vincenzo fu Michele, Accardi Antonio di Notar Vincenzo, Rizzo Benedetto fu
Giovanni, Lumia Pietro fu Saverio e Chiofalo Fortunato. Vedi La Colla, pag. VII
e lo storico di Partanna Dott. Antonio Varvaro Bruno, opuscolo: Parlanna
illustre per i suoi figli, edito Mazara 1931, Tip. Grillo.
S'intende
che io non mi occupo che della squadra di Vita, perchè le altre hanno avuto il
loro storico che le ha degnamente celebrate e mi è grato di potere con tutta
sicurezza e verità asserire che essa prese parte attiva alla celebre battaglia.
Come
abbiamo notato, nel corso di questa memoria la squadra di Vita formata da circa
25 volontari, per la sua esiguità non fece corpo a se ma fu aggregata a quella
di Salemi con la quale si era unita in Salemi e nella marcia da Salemi a Vita e
da Vita al luogo del combattimento. Ora, è fuori discussione che la squadra di
Salemi abbia preso parte, e parte preminente alla celebre battaglia; come è
fuori dubbio che le guerriglie siciliane furono affidate al comando del prode
ericino Giuseppe Coppola che nello schieramento delle forze volontarie, secondo
alcuni storici formarono l'ala destra e secondo il citato Marino l'ala sinistra
dell'esercito Garibaldino
(26).
26)
Marino, op. cit. pag. 57.
Furono
queste squadre che nella memoranda giornata compirono atti di eroismo veramente
leggendari come leggendaria fu tutta la battaglia. Chi ha vaghezza di conoscere
alcuni episodi riguardanti la squadra di Salemi legga le pagine 52 e 53 del
libro del Prof. Marino e le pagine 87 e 88 del Prof. La Colla: episodi
confermati dalla testimonianza dello storico Corselli, pag. 64 nel recente
lavoro «I Mille e le squadre Siciliane ». Certo nè il Marino nè il La Colla
o altri parlano esplicitamente della squadra di Vita; ma parlando della squadra
di Salemi implicitamente, parlano di quella di Vita perchè entrambe formavano
una sola squadra.
Non
ne parlano altresì perchè il loro scopo precipuo era di fare risaltare
l'eroismo dei propri concittadini, ma noi con tutta sicurezza possiamo affermare
che anche i volontari di Vita pur non conoscendo episodi e fatti particolari che
ne rivelino l'eroismo, fecero il loro dovere nella sempre gloriosa giornata del
15 maggio 1860.
Notiamo
che i volontari vitesi raccolti e guidati dal Sig. Antonino Ditta si
presentarono in Salemi a Garibaldi tutti armati come afferma il volontario
Emmanuele che era nella squadra, motivo per cui dobbiamo credere che ad essi
dovette essere affidato un posto tra i combattenti. Ed invero con tanta penuria
di armi (27)
lo stato Maggiore Garibaldino non poteva privarsi di circa 25 bocche da fuoco;
senza dire che Antonino Ditta per il suo coraggio, per il suo temperamento
violento, per la sua impulsività ed esuberanza, nonchè per il suo ardore
patriottico non era l'uomo da farsi relegare coi suoi, fra le gole e le
pendici della Montagna Grande (sufficientemente distante da Pianto Romano) tra
le squadre di Adamo e di Colombo entrambi da Calatafimi (28).
27)
Il Marino, op. cit. pag. 81, scrive che per mancanza di fucili, Garibaldi armò
le squadre di picche e di lance. Se ciò può essere vero riguardo alle altre
squadre, in riguardo a quella di Vita trovasi in un completo errore, giusto
l'affermazione dello squadrista Emmanuele.
28)
Marino, op. cit.,
pag. 46.
Bene
è vero, che alcuni storici e segnatamente il Turr nel descrivere lo
spiegamento delle forze Garibaldine assegna la squadra di Vita all’ala
sinistra a tutela delle artiglierie di Orsini, ma ciò è un errore o un
equivoco dello stesso Turr come tanti se ne scrissero anche da uomini che
presero parte alla spedizione.
Concedo
che effettivamente alcuni vitesi si trovarono accanto alle squadre dell'estrema
ala sinistra, ma si tratta di alcuni "Picciotti,, senz'armi e curiosi della
novità che si spinsero sino alla Montagna Grande (29)
e furono qualificati come squadra; ma i vitesi armati, furono fra le squadre dei
combattenti con il Coppola ed il Sant'Anna; e la prova apodittica si ha nel
fatto che uno di essi, Genova Vito fu Giuseppe fu ferito combattendo e col suo
sangue imporporò le zolle del fatidico colle: ciò non sarebbe avvenuto se la
squadra di Vita fosse stata affidata insieme alla squadra di Calatafimi al
Comando dei già nominati Adamo e Colombo.
29)
Non solo questi Picciotti ma
tutto il popolo di Vita spinto anch'esso dalla curiosità insieme a
numerosi Salemitani occuparono le alture di Makani e di Calemici che stanno a
cavaliere della vallata dei mulini e quasi di fronte a Pianto Romano.
Nè
furono senza un rilevantissimo peso nella bilancia della sudata e sanguinosa
battaglia osserva il Marino a pag. 46-47 avvegnachè figurassero all'occhio
del Generale Landi come il tondo in cui si disegnava e coloriva l'esercito
Garibaldino; come la riserva di forze vive che avrebbero potuto rinfrescare le
diradate file dei combattenti.
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