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Garibaldinel ricordo dei vitesi
Discorso
commemorativo su Garibaldi nel centenario della sua morte, tenuto dal Prof. Vito
Tibaudo Vita,
12 Maggio 1982
Introduzione
Chiunque
si accinge a parlare di Garibaldi, sa benissimo di avere in partenza un grosso
limite. E questo limite è riposto nella consapevolezza di non poter dire
abbastanza, e perciò nel rischio di offrire solo un quadro limitato e parziale,
su una figura tanto ricca e poliedrica, come fu quella dell'eroe dei due mondi.
Diverse centinaia di biografie, infatti, ne hanno narrato in ogni paese la
straordinaria esistenza; innumerevoli saggi, commenti, discorsi e scritti di
vario genere ne hanno celebrato le gesta. Ma
la consapevolezza del limite che ci sta davanti, se da un lato ci confonde, per
altro verso essa è per noi la testimonianza più ampia dell'importanza e
della validità che l'immagine di Giuseppe Garibaldi in tutto il mondo ricopre
tuttora e del dovere profondo, perciò, per noi vitesi, di ricordarlo. Egli
ha infatti esaltato la nostra terra, ha arricchito la nostra tradizione, ha
caratterizzato il nostro passato e il nostro presente, ha determinato la
nostra storia, conducendoci in una dimensione culturale, oltre che storica, di
cui andiamo fieri. Sin dal glorioso Maggio del 1860, Garibaldi fa parte di noi,
come tutti gli altri avvenimenti che ci coinvolgono, e noi mai potremo parlare
di storia vitese, senza parlare dell'impresa dei Mille: l'eroe di Nizza si è
legato ai vitesi, trascinandoli perennemente dietro al suo carro di gloria e
d'immortalità. E' per questo motivo che noi siamo qui a commemorare il
centenario della sua morte. Ma dirò di più. E'
giusto che gli uomini sviluppino e maturino le capacità conoscitive, che
soddisfacciano gli interessi spirituali e culturali che insorgono dentro gli
animi, e questi interessi sono costituiti anche da tradizioni, esperienze,
memorie. Commemorare
Garibaldi a cento anni dalla sua morte significa, perciò, per noi, oltre che
rendere onore all'eroe dei due mondi, ricercare la nostra stessa identità di
uomini e di cittadini vitesi, individuare chi noi siamo storicamente e
socialmente, di chi siamo figli, da quali lotte, da quale cultura, da quale
passato proveniamo.
Il soldato
Nella
vita di Giuseppe Garibaldi, tutto fu grandioso ed eroico. Il suo nome ci
trasporta immediatamente in un clima di intensa suggestione. I fatti di cui egli
fu protagonista sono ricoperti da un alone di leggenda e di misticismo. Già
agli occhi stessi dei contemporanei egli apparve come un personaggio
eccezionale, come un uomo prodigioso, quasi sovrannaturale; la sua fama corse
per le terre e dappertutto gli furono riservate accoglienze trionfali, a New
York come a Newcastle, a Napoli come a Ginevra, a Losanna come a Palermo.
Particolarmente impressionante fu l'accoglienza avuta a Londra nel 1864, dove
una folla di ben 500 mila persone attendeva il suo arrivo per vederlo,
salutarlo, acclamarlo, provocando tra l'altro la gelosia della regina Vittoria.
Le ciocche dei suoi capelli andavano a ruba, gli oggetti da lui usati venivano
ricercati e conservati gelosamente come reliquie. E
fu tanto osannato in vita, quanto dopo la morte, in Italia così come in
Uruguay; ed egli ancora ci magnetizza con il ricordo delle sue gesta epiche e
con il fascino della sua personalità. Attratti
dal suo irresistibile carisma, i vari partiti politici se ne sono contesi
l'appartenenza. Già Mussolini cercò di farne un prototipo del suo regime; i
comunisti lo considerarono «un compagno», sottolineando la sua fede
internazionalista;
i liberali lo rivendicarono come uno di loro, evidenziandone la profonda
avversione alla tirannide e il rispetto per la libertà dei popoli; e oggi
Bettino Craxi va predicando il sostanziale socialismo che contraddistinse il
suo pensiero. Non esiste un altro personaggio in grado di cogliere sì larghi
e universali consensi. Financo negli anni di maggiore tensione internazionale,
Garibaldi appariva tanto in un francobollo sovietico, quanto in un francobollo
americano. Egli resta l'unico italiano del Risorgimento che ancora oggi
costituisce nei paesi di tutto il mondo il simbolo più genuino delle
aspirazioni fondamentali dei popoli: la giustizia e la libertà. Ma
di fronte all'imponenza abbagliante del personaggio, è legittimo porsi
criticamente qualche domanda: «Chi fu realmente Garibaldi? Come mai egli è
ancora un eroe popolare, pieno di un fascino che il tempo non riesce a
scalfire? L'apprezzamento universale di cui egli gode è il frutto incontrollato
di una esaltazione collettiva, di cui magari noi subiamo ancora gli effetti
emotivi, o é la conseguenza di un riconoscimento veramente razionale?». Non è,
certo, questa la sede o la circostanza per tentare una adeguata analisi
storica, né il tempo o la mia abilità lo permetterebbero; ma è cercando di
rispondere a questi interrogativi che io intendo commemorare Garibaldi,
evitando di incorrere nella vuota retorica, così facile nei discorsi ufficiali
e celebrativi, e cercando invece di esporre giudizi e fatti sulla base
mi sia consentito di
un minimo criterio storiografico. E ciò per due motivi: primo, perché ritengo
che nessun migliore omaggio di quello che si attiene alla verità dei fatti noi
potremo rendere a un uomo che, per quanto grande, non smise mai di essere
estremamente semplice e onesto; secondo, perché Garibaldi è una delle poche
figure dell'umanità, i cui meriti eccezionali davvero non hanno bisogno di
montature e di gratuite esaltazioni per essere riconosciuti in tutta la loro
ampiezza. La
gloria di Garibaldi è legata soprattutto alla sua fama di condottIero, di
invincibile lottatore per la libertà del proprio paese e di quello degli altri.
E in ciò egli fu veramente straordinario. Non è da tutti, infatti, recarsi
in un paese lontano, come lontana era l'America Meridionale, allora molto più
di quanto non sia oggi, per rischiare tutti i giorni la vita tra le foreste
intricate del Brasile, nelle sabbie ardenti del Plata, nella limpida baia di
Rio de Janeiro, nei canali e nei corsi dei fiumi Uruguay e Paranà, per lottare
accanto ai fratelli sconosciuti contro l'oppressione di regimi tirannici. Nessun
impegno aveva egli assunto nei confronti del governo uruguayano, nessun debito
aveva contratto verso la giovane repubblica riograndese, per procurarsi poi una
pallottola al collo che per poco non lo uccise, o per venire torturato a sangue,
essere sospeso per i polsi ad una trave e lasciato poi moribondo. Pure, in mezzo
a continui pericoli mortali, egli si prodigò negli anni che vanno dal 1835 al
1848 nella terra sudamericana, senza badare a calcoli o ad opportunità e
spinto solo dalla sua generosità e dal bisogno irrefrenabile che lo spingeva a
battersi per le cause giuste e umanitarie. Dovunque passava, lasciava dietro di
sé le più ampie prove di coraggio, di eroismo, di abilità militare,
diffondendo nel mondo sin da allora, senza saperlo, la favola della sua epopea. Non
mi voglio soffermare sulle sue esaltanti vittorie, sulle tattiche adoperate,
sulle battaglie spesso vinte con una netta inferiorità numerica; dirò soltanto
che i giovani di allora, in Polonia o in Inghilterra, in America o in Ungheria e
dovunque giunse l'eco delle sue gesta, si entusiasmarono di lui e tappezzarono
le loro camere delle sue immagini Nella terra sudamericana egli fu soldato,
colonnello, ammiraglio, comandante in capo delle forze navali della repubblica
uruguayana nella guerra contro il dittatore argentino Rosas e poi financo capo
supremo dell'esercito di Montevideo. Nel
1848 Garibaldi lascia il Sud-America, ricoperto da quella che era diventata
ormai la sua abituale divisa, la camicia rossa, per correre in Italia, dove lo
stato sabaudo stava conducendo la guerra contro l'Austria. Spinto da un profondo
amor di patria e dal desiderio di servire il suo paese, non ha neppure il tempo
per fermarsi a pensare che il regno sabaudo era lo stesso di quello che quindici
anni prima lo aveva condannato a morte. Lo seguono circa settanta volontari
che costituiranno il nucleo centrale delle successive imprese garibaldine.
Contro gli austriaci, sul lago Maggiore, egli si copre di gloria, non smentendo
la fama che l'aveva preceduto. Fallita la guerra del timoroso Carlo Alberto,
l'intrepido marinaio di Nizza sa già come rendersi utile alla causa italiana:
va a Roma a difendere la repubblica romana contro le truppe francesi e
pontificie. Nel Luglio dei '49 l'avventuriero Garibaldi, come con disprezzo
veniva definito da qualche graduato accademico, inzia quella che dagli scrittori
di cose militari viene giudicata uno straordinario capolavoro di tattica: la
ritirata da Roma verso San Marino. In trenta giorni, con una marcia estremamente
tortuosa, riesce
a condurre in salvo i suoi 4.000 uomini, sfuggendo astutamente alla caccia
frenetica che gli davano i 75 mila soldati degli eserciti francese, spagnolo,
borbonico, austriaco e granducale di Toscana. Da
questo momento in poi, il difensore di Montevideo sarà presente a tutti gli
avvenimenti del risorgimento italiano, emanando una carica e uno stimolo
straordinari, costituendo un punto di riferimento costante nel processo di
unificazione del paese, rappresentando un caposaldo morale e politico per tutti
i patrioti. Nella seconda guerra d'indipendenza i suoi Cacciatori delle Alpi
sconfiggono ancora gli austriaci a Varese e a San Fermo. Nel 1866, quando
l'ormai
costituito Regno d'Italia fu chiamato ad un nuovo impegno bellico con
l'Austria, e l'esercito regio soccombette a Custoza e a Novara per gli errori
dei generali e la flotta dell'ammiraglio Persano fu sorpresa da quella nemica a
Lissa, l'unico a salvare il prestigio italiano fu ancora il nostro eroe, che
pesantemente sconfiggeva gli austriaci a Bezzecca e dilagava nel Trentino alla
testa dei suoi volontari. I
successi facevano nascere la gelosia dei generali, il suo fervore repubblicano
era motivo di preoccupazione per Cavour, il fascino e il séguito di cui godeva
indisponevano l'intellettuale e sottile Mazzini. Ed egli nelle sue iniziative
venne spesso boicottato dagli stessi che avrebbero dovuto sostenerlo: ebbe
sempre gli armamenti peggiori e talvolta non pochi dei garibaldini furono armati
solo di bastone. Ma
nulla riusciva a fermare il leggendario Nizzardo, nemmeno la pazzia di partire
con mille ardimentosi giovani, armati malamente di baionette e provvisti di
poche munizioni, per tentare di distruggere nientemeno che un regno vasto
quanto mezza Italia, abitato da quindici milioni di persone, controllato da un
regime forte e consolidato come quello borbonico. Calatafimi, Palermo, Milazzo,
Volturno sono nomi sacri nella storia d'Italia e perennemente essi saranno
ricordati dai posteri, così come noi ricordiamo le Termopili, Zama, Canne, o
anche Piave e Vittorio Veneto. Quando nel '70 la Francia subì l'umiliazione
dell'invasione prussiana, l'eroe di Nizza, dimenticando l'acre rancore verso i
vicini d'oltralpe, telegrafa al governo repubblicano francese offrendo la sua
opera: «Quanto resta di me è al vostro servizio. Disponete». Era infatti
pesantemente afflitto da atroci reumatismi che non gli consentivano più neanche
di montare bene a cavallo. E a Digione, di fronte al disfacimento
dell'esercito francese, soltanto le truppe garibaldine vinsero e avanzarono. Lo
scrittore Victor Hugo con senso di gratitudine ebbe a dire che Garibaldi nella
guerra franco-prussiana era stato l'unico generale di parte francese a non
essere sconfitto, l'unico a impadronirsi d'una bandiera tedesca. Digione
è l'ultimo atto del capitolo guerresco dell'eroe di Nizza. Egli passerà la
maggior parte dei suoi giorni nella solitaria Caprera, accanto all'amore della
nuova moglie Francesca Armosino, seguendo per lo più da lontano gli sviluppi
sociali del regno d'Italia. Aveva
combattuto oltre 50 battaglie, senza contare le scaramucce, le marce, le fughe,
le traversate, non finendo di sorprendere oltre che i nemici, chi gli stava
vicino e lo seguiva entusiasta. Il
suo modo nuovo di combattere, estroso, fantastico, temerario, lo aveva fatto
passare talvolta per un guerrafondaio, una sorta di brigante o di
guerrigliero, privo però di reali capacità strategiche. Per noi Garibaldi
resta il più grande generale italiano dell'era moderna. I successi sui campi
di battaglia, così strepitosi quanto apparentemente inspiegabili, non
potevano essere il frutto di casuali circostanze, tanto più che essi si
ripeterono, oltre che in America, nella guerra del '48, in quella del '49,
nell'Impresa dei Mille, e poi ancora nel '66 e nel '70. Certo Garibaldi fu un
condottiero insolito nello scenario bellico europeo; però i suoi metodi si
rivelarono sempre più efficaci di quelli delle forze regolari, nemiche o
alleate che fossero. La
sua tecnica si basava sulla sorpresa e sugli attacchi improvvisi, che creavano
disorientamento tra le file nemiche; disponeva i suoi uomini a raggiera,
ingannando in tal modo l'avversario circa la reale entità delle sue forze; al
momento dello scontro diretto, ricorreva alla tattica difensivo-controffensiva:
lasciava avvicinare il nemico senza che i suoi reagissero e poi, fulmineamente,
ordinava l'attacco alla baionetta, preceduto magari da una massiccia scarica
di pallottole e seguito da un violento corpo a corpo. Si
consideri, però, che la tecnica difensivo-controffensiva, se è senz'altro di
grande effetto e validità, è anche la più difficile e rischiosa a
realizzarsi, poiché non è semplice per un comandante riuscire a fare stare
inerti e impassibili i suo uomini, mentre il nemico attacca e aggredisce. Ma
Garibaldi fu grande generale anche perché sui campi di battaglia sapeva
inventare e sfruttare ogni volta i vari aspetti e le combinazioni che si
presentavano, riuscendo a trarre da essi il massimo vantaggio. Nel 1839 in
Brasile era rimasto bloccato con due navi all'interno di una laguna e non poteva
uscirne fuori in alcun modo, poiché la marina imperiale brasiliana controllava
massicciamente gli sbocchi; l'ammiraglio Garibaldi trovò però il modo di
portare le sue navi sull'Atlantico, facendole condurre per via di terra, e per
ben cinquanta chilometri, su dei carrelli costruiti appositamente e trainati
da circa duecento buoi! «Gli
italiani non hanno che un generale - riconobbe nel '49 il generale austriaco
D'Aspre - e questi è Garibaldi». Ungheresi e Polacchi sperarono che egli
potesse recarsi da loro a soccorrerli nella lotta di liberazione del loro paese.
Nel 1871 i comunardi di Parigi, insorti contro il governo di Thiers, gli
scrissero, invitandolo a prendere il comando in capo del loro esercito. Persino
l'allora presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, in guerra con gli stati
secessionisti del Sud, si rivolse a lui offrendogli un alto comando e il grado
di generale nell'esercito federale.
Il
Garibaldi fin qui esposto è grosso modo quello che tutti conosciamo, quello che
nei libri di storia ha avuto maggiore fortuna. Ma
c'è un altro Garibaldi, solitamente trascurato, presi come si è stati dalla
preoccupazione, legittima, ma certo unilaterale, di esaltare il compimento
dell'Unità d'Italia e di valutare perciò il contributo garibaldino solo
nell'ambito di tale avvenimento. Si tratta dell'uomo Garibaldi, del cittadino,
delle sue qualità umane e civiche più intime e autentiche, del suo pensiero,
delle motivazioni più profonde che lo spinsero ad agire; e non è un aspetto
marginale, poiché esso costituisce la base del fascino e della popolarità
garibaldina. Il tacerne significherebbe limitare l'importanza umana e storica
del nostro personaggio e davvero noi non sentiamo di fargli questo grosso torto. La
leggenda garibaldina venne fuori non tanto da una serie di strepitosi successi
militari, quanto dal fatto che quei successi avevano come protagonista un uomo
assai singolare. Ed egli fu certamente atipico, ma di una atipicità fondata
su valori pienamente ammirevoli. Al coraggio e all'abilità sui campi di
battaglia fece seguire un'assoluta lealtà, una completa onestà, una semplicità
financo eccessiva, al punto da rasentare talvolta l'ingenuità. «Fate scrivere
la biografia di Garibaldi al suo peggiore nemico - ebbe a concludere D. M. Smith
- e vi apparirà pur sempre come il più sincero, il più disinteressato, il
meno ambizioso degli uomini». Ma
si pensi un po'. Non è davvero strano che dopo aver liberato un regno di
quindici milioni di persone, un generale lo offra gratuitamente a un re, senza
chiedere nulla e rifiutando tutto? Non terre, non denaro, non castelli, non
onori. Si recò nella rocciosa e arida Caprera a coltivare le fave di cui era
ghiotto, a pascolare le pecore e a occuparsi delle sue api... di tanto in tanto
s'improvvisava falegname e riparava qualche vecchio mobile o impugnava ago, filo
e forbici per rattopparsi il vestiario. Eppure dopo Volturno non gli doveva
essere difficile profittare in qualche modo del momento: era dittatore del
regno delle due Sicilie, comandava un forte esercito, era amatissimo dal
popolo... Avrebbe perfino potuto aspirare a crearsi un regno personale; del
resto gli inglesi - e glielo fecero capire - non sarebbero stati contrari a
quell'idea. Ma Garibaldi era fatto così: sobrio, modesto, schietto, idealista
e anche povero. Leggendaria
è la sua povertà, documentata ampiamente da tanti e tanti episodi che qui
evidentemente non è possibile proporre. Dirò soltanto che quando negli anni
della sua vecchiaia il governo gli offri una pensione, egli dapprima rifiutò
sdegnosamente, sostenendo che non voleva vergognarsi d'incontrare i veri
poveri; successivamente accettò perché Depretis gli espose il timore che il
paese potesse essere accusato d'ingratitudine. Sua figlia Clelia affermò che
egli non possedette mai più di due camicie rosse, perché quando ne scopriva
una terza subito la regalava. Certamente le occasioni per arricchirsi non
potevano essere mancate a un uomo che aveva guidato eserciti e flotte, a un
personaggio che era stato deputato ai parlamenti d'Uruguay, del Regno di
Sardegna, della Repubblica Romana, del Regno d'Italia, della Repubblica
francese. Ma Garibaldi piuttosto che starsene in un palazzo o in un castello,
preferiva passare il tempo a potare, innestare, zappare. Un
personaggio dalle qualità umane eccezionali, con genuini ideali, coraggioso e
abilissimo sui campi di battaglia, aveva certo tutti gli ingredienti per
diventare un mito. E ciò non fu difficile. Si sa del resto di cosa sia capace
la fantasia popolare. Così, tanto per restare in terra siciliana, dopo
l'incredibile
successo di Pianto Romano, corse presto una voce, secondo la quale, prima di
partire da Salemi, egli si era recato nella chiesa dei Riformati, dove si elevò
da terra e parlò con il Crocifisso! A Palermo la sua vittoria fu attribuita a
una combinazione preventiva con Santa Rosalia! E'
difficile oggi ridurre il mitico Garibaldi ad una dimensione puramente
storica; tanto egli risulta avvolto in un alone di leggenda e di misticismo,
come Omero, Romolo e pochi altri mortali! Ma
la sua popolarità e la sua leggenda non possono essere sorte solo sulla fortuna
militare. Non ci spiegheremmo, diversamente, per quale motivo, tanto per fare un
esempio, un personaggio come Napoleone Bonaparte, vincitore militare e
dominatore politico di oltre mezza Europa, non godette della stessa popolarità.
E la risposta, per quanto semplicistica, è questa: Napoleone, oltre che per
amor di patria, aveva combattuto per la brama di conquista e di potere;
Garibaldi si batté invece fondamentalmente solo per aiutare l'umanità e non
considerò se la sua bandiera era quella italiana «Devi
cercare di accaparrarti il gringo Garibaldi, che è l'ispiratore degli assediati
in Montevideo, senza badare a spese; devi dargli tutto il denaro che chiede,
dato che i selvaggi non gliene hanno dato affatto». La
verità è che quando Garibaldi s'impadroniva di un ideale, non lo mollava più
a nessun prezzo, neanche di fronte ai più rischiosi pericoli. Era la profonda
fede negli ideali che lo trascinava, che riusciva a dare una nota d'incanto alle
sue temerarie imprese, che lo rendeva capace di suggestionare fino
all'inverosimile i volontari.
Garibaldi uomo di paceCi
è stata regalata un'immagine di Garibaldi-soldato e combattente, legato, senza
dubbio, ai valori del patriottismo risorgimentale. Tale immagine è verace,
però incompleta; e poi oggi rischierebbe di non fare più una grinza sulla
coscienza contemporanea, tanto più che i valori del glorioso risorgimento
italiano sono chiaramente in declino. Ma gli ideali dai quali Garibaldi era
animato ne fanno un personaggio estremamente moderno, nonché, per diversi
aspetti, sorprendente e ben degno di occupare un largo spazio nella cultura
contemporanea. Contrariamente
a quanto si potrebbe credere, il marinaio di Nizza nutrì dentro di sé una
costante aspirazione alla pace e alla libera convivenza tra i popoli. «Che
differenza c’è - ebbe a dire - tra un americano e un italiano? Sono uomini
uguali, e moralmente devono essere fratelli. Io sono per la fratellanza della
razza umana». Prima
che uomo di guerra, egli fu un uomo di pace, un uomo che, coraggioso e valoroso
com'era, interveniva con tutto il suo fervore laddove e allorquando avvertiva
che mancava il presupposto fondamentale della pace: la giustizia e la libertà. Nel
suo pensiero aleggiò con chiarezza l'idea di una comunità di nazioni senza
frontiere, dove tutti gli uomini appartenessero a una sola famiglia e le guerre
fossero impossibili. Nel 1861 mandò alle grandi potenze un memorandum in cui
esponeva tali concezioni: «Perché - scriveva - questo stato agitato
dell'Europa? Tutti parlano di civiltà e di progresso. A me sembra invece che, a
parte il lusso, non differiamo molto dai tempi primitivi, quando gli uomini si
sbranavano tra loro per strapparsi una preda. Noi passiamo la nostra vita a
minacciarci continuamente e reciprocamente, mentre la grande maggioranza degli
uomini di buon senso, comprende perfettamente che potremmo pur passare la povera
nostra vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilità degli uni
contro gli altri. Supponiamo che l’Europa formasse un solo Stato. Chi mai
penserebbe di disturbarla in casa sua? E in tale supposizione, non più
eserciti, non più flotte; e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai
bisogni e alla miseria dei popoli, per essere prodigati in servizio di
sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo
colossale...». «Troppo idealista», potrebbero dire alcuni; ma a costoro io
ricordo che noi viviamo oggi una realtà, quella della C.E.E., che sino a non
molto tempo addietro era puro idealismo. Al
congresso internazionale della pace, tenutosi a Ginevra nel 1867, Garibaldi fu
uno dei protagonisti e propose un suo programma, poi accettato, di cui voglio
ricordare alcuni punti: «1) Tutte le nazioni sono sorelle; 2) La guerra tra
di loro è impossibile; 3) Tutte le querele che sorgeranno tra le nazioni
dovranno essere giudicate da un Congresso (...); 10) La Democrazia sola può
rimediare al flagello della guerra; il) Lo schiavo solo ha il diritto di far la
guerra al tiranno; è il solo caso in cui la guerra è permessa». Sono
affermazioni che non hanno bisogno di commento e che nessuno avrebbe
sospettato nella mente di un guerriero. Da esse è facile dedurre come le varie
guerre che Garibaldi condusse siano state da lui combattute all'insegna della
lotta della schiavitù contro la tirannide. «L'uomo è libero
- ribadiva con forza
- e
deve vivere guardando in alto». Al
presidente Lincoln che gli aveva chiesto di combattere accanto a lui, contro
gli stati secessionisti del Sud, egli pose come condizione che prima fosse
abolita formalmente la schiavitù in America. Nel
1881, quando la Francia occupò la Tunisia, il vincitore di Digione fu tra
coloro che maggiormente alzarono la voce per condannare un atto di violenza che
toglieva la libertà a un altro popolo. Egli,
che più di tutti aveva contribuito all'unificazione d'Italia, dichiarò con
franchezza che qualora l'Italia si fosse fatta protagonista di violenze e
d'oppressioni nei confronti di altri popoli, avrebbe combattuto contro la sua
stessa patria. L'amore per la libertà e per l'umanità era in lui certamente al
di sopra dell'amore patriottico. Per questo, pur essendo un convinto
repubblicano, non aveva esitato a impugnare le armi sotto la bandiera di
Vittorio Emanuele Il, così com'era pronto, pur essendo decisamente
anticlericale, a combattere anche in nome di Pio IX; per questo le sue azioni
e i suoi interessi non avevano conosciuto limiti nazionali. Qualcuno ebbe a
dire che Garibaldi, se fosse vissuto in un altro tempo, sarebbe stato certamente
un santo. Questo
nuovo quadro dell'eroe dei due mondi, meno conosciuto e che io ho voluto porre
in risalto, non smentisce l'immagine del prode guerriero, ma la completa. Naturalmente
non ho detto tutto di lui; ho solo cercato di evidenziare alcuni aspetti,
utili a far capire con maggiore profondità e in una dimensione più autentica
chi veramente fu Garibaldi, il perché della sua leggenda, il segreto del
fascino che egli e le sue imprese esercitarono. Ed è fin troppo ovvio che
l'ammirazione universale di cui egli gode ancora non possa essere il frutto di
una esaltazione incontrollata e irrazionale, ma senz'altro la conseguenza
logica dell'apprezzamento nei confronti di quello che nella storia dell'umanità
è stato un autentico fenomeno. Del resto le suggestioni passano coi tempi,
mentre ciò che è veritiero dura coi secoli. Da
questo nuovo quadro si delinea l'avvincente personalità di un uomo
prodigioso, che tremendamente fremeva di fronte alla sofferenza altrui e che per
questo, seguendo il suo istinto, con tutta la forza e il coraggio di cui era
dotato,
si lanciava al soccorso: o buttandosi in mare per salvare la vita a qualcuno,
come fece in diverse occasioni; o correndo volontario
al capezzale degli ammalati, come avvenne a Marsiglia durante un colera di
fronte al quale gli altri fuggivano; o, soprattutto, impugnando le armi per
regalare ai popoli il bene più grande nel quale egli credeva: la libertà.
La battaglia di Pianto Romano
Fu
con questo fulgido miraggio e con questo nobile animo che nel Maggio 1860
Giuseppe Garibaldi salpò da Quarto e venne nella terra di Sicilia a compiere
la più folle e la più gloriosa delle sue imprese, seguito da mille ardimentosi
male armati, fiducioso solo nella sua buona stella e nell'appoggio del popolo
siciliano. E
non mancarono all'intrepido nizzardo la buona stella e il generoso aiuto del
popolo. A Salemi, alle camicie rosse venute dal Nord, diverse squadre di «picciotti»
si andavano aggiungendo nei giorni 13 e 14, attirati dalla fama di un
condottiero che li avrebbe condotto alla gloria e alla vittoria. Anche
Vita non mancò di dare in quei momenti delicati e determinanti per la storia
d'Italia il suo contributo. Una trentina di animosi giovani si accodarono al
variopinto esercito garibaldino, per offrire le loro fresche energie alla causa
dell'unità d'Italia. Ma
tanti nell'isola erano ancora incerti, perplessi e financo timorosi. A
Garibaldi occorreva una vittoria, una vittoria a qualsiasi costo, per smuovere
le indecisioni e le titubanze di molti. Una sconfitta sarebbe stata
incomprensibile per gli effetti che avrebbe scaricato sull'opinione pubblica,
sui volontari, su tutta la popolazione. Una sconfitta avrebbe significato la
fine della spedizione, la fine di ogni successivo sogno di riscossa. A qualsiasi
costo occorreva inventarsi un successo militare per rendere possibile il seguito
e dare credibilità all'impresa. E
il grande miracolo della vittoria Garibaldi lo trovò proprio sulla strada di
Vita. Ma qui cedo la parola allo stesso Garibaldi, il quale così annotò
nelle sue "Memorie": «L'alba del 15 Maggio trovò i Mille disposti a
battaglia sulle alture di Vita, piccolo villaggio di quel nome e, dopo poco, il
nemico usciva in colonna da Calatafimi alla nostra direzione. I colli di Vita
sono fronteggiati dalle alture chiamate di Pianto dei Romani... Dalla parte di
Calatafimi coteste alture hanno un dolce declivio. Il nemico le ascese
facilmente e ne coronò tutti i vertici, che dalla parte di Vita sono
formidabilmente
scoscesi». A
Vita Garibaldi era stato probabilmente anche il 14 Maggio. Troviamo scritto,
infatti, ancora nelle sue "Memorie": «Il 14 (si giunse) a Vita, ove
si ebbero notizie trovarsi il nemico a Calatafimi». E in un altro passo riferì:
«Il 14 occupammo Vita». Ma poiché di questa supposizione non si è mai parlato
prima, può restare il dubbio se il 14 Maggio a Vita sia venuto egli
personalmente o abbia inviato piuttosto un distaccamento. E' comunque sicuro
che nella mattinata del 14 Garibaldi mancò diverse ore da Salemi, per recarsi
ad esplorare le colline a Nord verso Vita, in direzione del nemico; ciò del
resto è attestato inequivocabilmente da Francesco Crispi che lo accompagnò
nell'esplorazione. Ma
torniamo alla memoranda giornata del 15 Maggio. La battaglia fu assai aspra e si
svolse nelle ore pomeridiane per circa cinque ore, sino alle sei del pomeriggio.
La tattica usata da Garibaldi fu ancora quella difensivo-controffensiva. Egli
lasciò che i Borboni si avvicinassero con i loto tiratori. «L'ordine tra i
Mille leggiamo ancora nei
suoi scritti era di non sparare e aspettare il nemico vicino». Poi suonò la
carica e i garibaldini mossero all'attacco con l'intenzione di travolgere
l'avanguardia nemica e impossessarsi dei loro pezzi. Ma l'entusiasmo del
successo iniziale spinse i più ad avanzare verso le formidabili posizioni
occupate dal nemico. Su di loro si abbatté, però, inaspettata, una autentica
pioggia di moschetteria e di mitraglia che colpì tanti, ferendoli o
uccidendoli. Il momento si fece tremendamente tragico. Ma Garibaldi non poteva
consentire di perdere quel primo combattimento. Così a Nino Bixio che gli
proponeva di ritirarsi, egli, come un leone ferito, tuonò con la sua voce calda
e vigorosa: «Qui si fa l'Italia o si muore». Escludeva in tal modo, per conto
suo, ogni possibilità di ritirata, una soluzione che egli interpretava come un
suicidio, poiché non ci sarebbe stata una prova di appello, non ci sarebbe
stata la possibilità di riscattare un'eventuale sconfitta. Così, grazie alla
risolutezza estrema del Nizzardo, fu strappato al destino il miracolo della
vittoria. Ma
il miracolo della vittoria fu strappato anche grazie al coraggio e
all'accanimento di quel pugno di eroi, che come leoni continuarono ad avanzare
intrepidi tra il fuoco dell’artiglieria nemica. «Palermo, Milazzo, Volturno
videro molti più feriti e cadaveri; - commentò dopo lo stesso eroe dei due
mondi - secondo me, però, la battaglia decisiva fu Calatafimi». In
quel pomeriggio di fuoco, anche i picciotti vitesi si coprirono di gloria sul
colle di Pianto Romano. Tra costoro io voglio ricordare Gaetano Di Giovanni,
Isidoro Spanò, Antonino Ditta, Vincenzo Leone, Antonino Pedone, Saverio e
Salvatore Cappello, Vincenzo Emanuele, Nicolò Riservato, Vito Surdi e, più
di tutti, se non altro per la sua tenera età, Vito Genova, un ragazzo
sedicenne, l'espressione più commovente del patriottismo vitese, che colpito
gravemente da un pallottola, bagnò col suo sangue il sacro colle. Dopo tre mesi
di cura egli riuscì a guarire e corse allora a raggiungere di nuovo le truppe
garibaldine. Degli
altri, i più non limitarono la loro partecipazione a Pianto Romano, ma
seguirono l'eroe di Nizza a Palermo, a battersi ancora tra le barricate. Qui un
altro prode figlio di Vita, Giuseppe Occhipinti, versò il suo sangue generoso,
cadendo da eroe nella battaglia del 27 Maggio, in piazza della Rivoluzione.
Altri vitesi seguirono ancora Garibaldi sino alla totale liberazione della
Sicilia, combattendo a Milazzo; di costoro fecero certamente parte Salvatore
Rizzuto, Antonino Vesco, Antonino Grutta. Sacri
resteranno nella nostra memoria i nomi di questi giovani che volontariamente
abbandonarono le loro case per i campi di battaglia. Ma
oltre alla eroica partecipazione dei picciotti vitesi, non possiamo passare
sotto silenzio il prezioso sostegno che tutto il popolo di Vita diede alla causa
dei Mille. Già
l'arrivo dei garibaldini a Vita è accolto con particolare calore, e
chiaramente lo fa capire nel suo diario F.sco Crispi, il quale così
sinteticamente riferisce: « 15 Maggio: Partenza (da Salemi) alle ore 5,15;
arrivo a Vita alle ore 6,30. Entusiasmo dei popolani». E
l'entusiasmo, insieme alla curiosità, trascinò i vitesi più tardi a
collocarsi sui colli di Calemici e Makani per assistere allo scontro, facendo
credere in tal modo agli occhi incerti del generale Landi e del comandante
Sforza che essi fossero riserve fresche, pronte eventualmente a intervenire
nella lotta; la loro presenza, seppure casualmente, bastò a deprimere il morale
dei Borboni e ad influire sull'esito del combattimento. «Durante la battaglia -
racconta G. C. Abba nelle sue note «Da Quarto al Volturno» - sulle alte rupi
che sorgevano intorno a noi, si vedevano turbe di paesani intenti al fiero
spettacolo. Di tanto in tanto, mandavano urli, che mettevano spavento ai
comuni nemici». Ma
il popolo vitese, oltre che inconsapevole strumento nelle mani della cieca
sorte, fu anche artefice, cosciente e responsabile, di grande dedizione,
abnegazione e generosità in quelle giornate consacrate dalla storia. Finita
la battaglia, numerosi accorsero sul luogo del combattimento favorendo «come
poterono» Garibaldi e i suoi volontari. Particolarmente degno di essere
ricordato è il dott. Gaspare Scaduto, che con alto senso di patriottismo e
d'umanità, si recò subito sul campo a soccorrere e a medicare i feriti. La
maggior parte di questi, specie i più gravi, la sera stessa del 15 maggio
furono trasportati nella chiesa di San Francesco, dove era stato impiantato
l'ospedale militare. Qui vennero amorevolmente curati dai vitesi, i quali 5
s'improvvisarono infermieri, cuochi, lavandai, ma soprattutto furono amici e
fratelli. Alcuni
dei feriti furono ospitati presso delle abitazioni private, che si trasformarono
in altrettanti ospedali. E dappertutto a Vita fu una gara di carità che ha
fatto registrare le più nobili testimonianze storiche sulla cittadina di Vita e
sulla bontà dei suoi abitanti. «Vita
ci fu tanto ospitale e larga d'aiuti», affermò autorevolmente l’on. dott.
Lampiasi che aveva diretto l'ambulanza. E altrove precisa: «Le case di
Scaduto ricorderanno Pedotti e Malocchi... la casa di Modica parlerà di
Francesco Montanari e di Luigi Martignoni e la casa di Romano dirà di Elia, e
quella di Corrao ricordi Moldacea». Lo
stesso colonnello Elia, quello che per salvare la vita a GarIbaldi lo copri col
suo corpo e si prese una pallottola in bocca, ebbe a dichiarare molti anni
appresso: «Io sono vivo per Salvatore Romano di Vita, che con tanto affetto e
sollecitudine mi curò in casa sua. E sarei ingiusto, se tacessi la generosità
del sig. Baldassare Leone, che in quella occasione aprì la casa ai feriti,
trasformandola in ospedale, dove regnava sovrana la carità e la nobiltà
d'animo della signora Caterina Farina». Sono
testimonianze, queste, che rendono un largo onore ai nostri padri e che
profondamente ci scuotono e ci commuovono. Dei
garibaldini ricoverati a Vita, quattro morirono: Francesco
Montanari da Mirandola, Giuseppe Romanello da Arquata Scrivia, Luigi Martiguoni
da Lodi e Ulisse Pedotti da Laveno. La salma del Montanari fu seppellita a
Salemi e traslocata dopo cento anni, nel 1960, al suo paese natale. Nella terra
di Vita rimasero, e tutt'ora giacciono, i resti degli altri tre giovani eroi:
Giuseppe Romanello, Luigi Martignoni e Ulisse Pedotti. La
loro presenza, insieme a quella del già ricordato Giuseppe Occhipinti, prode
figlio di Vita caduto valorosamente a Palermo, sta a testimoniare l'unione
profonda e gloriosa che associa la cittadina di Vita a quella che fu la più
fulgida delle imprese garibaldine: la spedizione dei Mille. La loro presenza sta
a suggellare un legame storico e sacro, un vincolo di sangue, che perennemente
unisce questo piccolo paese che è Vita al grande paese che Giuseppe Garibaldi
costruì e che è l'Italia.
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