***
CAPITOLO
4
LA TORRE PENDENTE
I
La
prima cosa di cui fu cosciente Deacon fu il sudore che scorreva sul suo
corpo, tra la pelle tesa e gli indumenti già fradici. Poi si rese
conto del silenzio, interrotto solo dal rimbombo del suo cuore e dal sibilo
affannoso del suo respiro; ed infine comprese che la stanza era nell'oscurità
più assoluta. Brian controllò l'ora: solo le due, secondo
l'ora del Tharsis, sincronizzata con Greenwich. In realtà Marte
ruotava su se stesso in un periodo lungo poco più di ventiquattro
ore e mezzo, il che stava a significare che a volte, seguendo l'ora europea,
si poteva avere l'alba a mezzanotte o a mezzogiorno, mentre i giorni in
cui l'ora legale coincideva con quella solare erano considerate festività.
Tutto questo creava qualche problema ai terrestri che venivano su Marte
solo per brevi periodi di tempo ed erano abituati ad avere il giorno sempre
con la luce, ma i marziani avevano imparato a regolare la propria vita
sul calendario e non sul Sole. Ad ogni modo Deacon aveva deciso di svegliarsi
presto per visitare il terreno, ma questo era un po' troppo.
Nella camera la temperatura era fresca, come l'aveva regolata la sera
prima. Eppure Deacon era fradicio di sudore. Quando credette di essere
abbastanza sveglio provò a raccogliere ed organizzare le sue sensazioni,
ma senza successo. Era evidente che a svegliarlo era stato un incubo,
ma non riusciva a ricordare cosa aveva sognato. Inoltre la testa aveva
cominciato a dolere in maniera molto sgradevole, ciò rendeva ancora
più difficile pensare.
Brian decise dunque di farsi una doccia. Sotto l'acqua cercò ancora
di ricordarsi cosa aveva sognato, ma il ricordo sfuggiva irridente. La
doccia levò comunque via oltre al sudore anche il male al capo,
e ciò diede a Deacon la speranza di poter dormire ancora per qualche
ora, dunque indossò nuovamente gli indumenti per dormire e si coricò.
Gli indumenti erano tornati freschi ed asciutti, nonostante tutto Brian
non riuscì a riprendere sonno.
Dopo aver passato inutilmente una valanga di minuti girovagando da una
sponda all'altra del letto, decise di alzarsi definitivamente, preferendo
infatti la veglia al sonno indotto artificialmente. Alzandosi poggiò
una mano sulla parte del letto dove avrebbe dovuto trovarsi una “signora
Deacon” se questa fosse esistita. Chissà, pensò tra
sé e sé, se mi sarei agitato tanto con una donna al mio
fianco.
Si vestì, quindi rese le finestre trasparenti e diede un'occhiata
al cielo, enormemente differente da quello terrestre. Questo perché
Marte è un pianeta freddo, più freddo della Terra in quanto
più lontano dal Sole e quindi più bisognoso, per soddisfare
le esigenze umane, di calore. La soluzione che l'Uomo aveva trovato per
riscaldare le colonie marziane stava, da quasi un secolo, orbitando sopra
la testa di Deacon, a circa venticinquemila chilometri dalla terra rossa.
Era stato chiamato Grande Anello Solare ed era un'enorme fascia, larga
trecento chilometri, che circondava interamente Marte, adagiata sullo
stesso piano del terminatore, la linea che separa l'emisfero illuminato
da quello notturno. L'Anello era composto da una serie di superfici riflettenti
che convogliavano altra luce solare e quindi altro calore verso Marte.
Dal pianeta esso appariva come una lunga, sottile striscia luminosa, che
toccava di volta in volta tutti i punti cardinali, invisibile solo un
paio d'ore ogni notte alle basse latitudini, come nel Tharsis. Nei pressi
dei poli invece era visibile costantemente per tutto l'anno.
Laggiù, nel Tharsis, l'anello, quando sorgeva, era solo una ferita
rossastra nella notte, ferita che con il passare delle ore si alzava,
e diventava sempre più luminosa, fino a diventare un secondo, sottile
e caldo sole. L'anello poi continuava la sua corsa verso ovest per tramontare,
sanguigno come all'alba, ma ricco di fascino, e tratto distintivo di Marte
almeno quanto il gigantesco monte Olimpo. Deacon guardò distratto
l'Anello, basso sull'orizzonte, ma non per questo ancora rosso, bensì
schiarito, di una luminosità lattiginosa. Il marziano fece quindi
colazione al debole chiarore del giorno che stava cominciando, poi visto
che non aveva nulla di meglio da fare, andò a visitare per la prima
volta il terreno che aveva acquistato.
II
Erano
trascorse già due settimane da quando la Europe era partita per
il suo ultimo viaggio in compagnia di May, Taylor e Bulsara, e mentre
essi erano partiti, avevano raggiunto Europa, avevano riempito d'acqua
le cisterne e si stavano preparando per tornare a casa, lì su Marte
Deacon era riuscito a combinare poco o nulla. Infatti, pochi giorni dopo
l'asta che aveva seguito il fallimento ed il tragico suicidio del minatore
Simâck, primo proprietario del terreno, erano apparsi come dal nulla
due suoi parenti. Sembrava che fosse uno zio lontano, sposato all'altra
sconosciuta. Lui era alto, dai lineamenti particolari, con i capelli di
una strana tinta di rosso e con gli occhi sbiaditi. Dava l'impressione
di essere un facoltoso uomo d'affari, come anche la moglie, una donna
di carnagione scura con lunghi capelli ricci. Costoro vennero dunque a
reclamare il lotto, prima offrendo denaro a Deacon, poi, visto che non
riuscivano ad ottenere ciò che volevano, grazie a cavilli semisconosciuti,
passarono per vie legali riuscendo persino a far mettere i sigilli del
vice-governo al terreno.
Brian aveva dovuto faticare non poco per vedere riconosciuto il proprio
diritto di proprietà sul lotto. Si era inoltre impegnato a fondo
anche motivato dal disprezzo per quelle persone, che avevano lasciato
fallire un parente, ma ne reclamavano ad ogni modo i beni.
Finalmente, quindici giorni dopo aver partecipato a quell'asta, gli era
stato rilasciato il permesso di poter accedere e poter usufruire di quel
terreno.
Quella sera, quando uscì dall'aula del tribunale, chiamò
i suoi compagni sulla Europe avvertendoli che le controversie si erano
definitivamente concluse. Il messaggio, nonostante viaggiasse alla velocità
della luce, avrebbe impiegato più di un'ora per colmare la distanza
che separava Marte da Giove. Questo lasso di tempo escludeva la possibilità
di una conversazione, quindi il dialogo tra Brian e i suoi amici assumeva
le forme di una corrispondenza epistolare dove si scambiavano non lettere,
bensì suoni ed immagini. In risposta al suo messaggio Deacon ricevette
un comunicato da May in cui il capitano annunciava di aver lasciato la
luna da poche ore e di aver parlato dell'"affare Europe" con
Heinlein, ma quest'ultimo, seppur possibilista, voleva parlarne direttamente
con Deacon.
Prima la vittoria nella vertenza al tribunale, poi la disponibilità
di Heinlein a comprare. Gli avvenimenti positivi, come i negativi, a volte
giungono tutti insieme, accavallandosi e intasando spesso le menti e gli
animi. Deacon si era sentito euforico - tutto procedeva a gonfie vele
- e così aveva deciso di fare un sopralluogo l'indomani presto
al terreno finalmente suo.
III
Il
terreno di Deacon si trovava nel distretto vice-governativo della regione
del Tharsis, composta dai vulcani a scudo più grandi del sistema
solare, tra i quali il monumentale monte Olympus, o Olimpo, dipendeva
che si parlasse in lingua o in dialetto. In particolare l'appezzamento
era situato in un altopiano posto tra i monti Pavonis e Ascraeus. In lontananza
era visibile la città di Aphrodite, con i lunghi dossi che segnavano
le strade sotterranee che ne dipartivano come zampette di ragno.
L'aria era avvolta in un silenzio cristallino, la sabbia era morbida e
alla pallida luce che precedeva il giorno vero e proprio aveva un color
rosa chiaro. Quella zona era uno degli ultimi deserti marziani, e fino
a dove l’occhio poteva spaziare, non si vedeva che il colore della
sabbia; anche il cielo era morbido e di color rosa pallido, e ciò
gonfiava la linea dell'orizzonte, la gonfiava fino a farla esplodere,
per rendere tutto in una dimensione irreale, sospeso in quel debole colore.
Un banco di nebbia passò nella pianura e coprì la città.
Così Deacon rimase per un momento imprigionato in quella realtà
senza dimensioni, immerso nella polvere rosa di Marte. Solo per un momento,
però, perché, come àncora della nostra realtà
sensibile appariva, grigia ed in parte metallica, una grande costruzione.
Era la prima volta che Brian la vedeva, e come primo impatto gli ricordò
alcune antiche stampe raffiguranti la torre di Babele. Era una costruzione
vagamente simile ad un cono, alta più di quattrocento metri, a
tratti irregolare e non ancora terminata. A Deacon pareva che mancassero
solo le orde di schiavi sofferenti di qualche narrazione a carattere biblico.
- Ecco - pensò quindi - un esempio della stupidità dell'uomo.
Milioni, miliardi di areti che ti aspettano sotto terra e tu vai a costruire
una torre verso il cielo. Una torre che oltretutto - a causa alcuni assestamenti
del terreno - è stata dichiarata inagibile. -
Brian si era informato, e aveva scoperto che nei piani di quel minatore
suicida la torre sarebbe dovuta appartenere ad un complesso turistico
situato in una tra le zone più suggestive del pianeta. L'idea sarebbe
stata ottima se il terreno fosse stato realmente edificabile e non solo
un'illusione per architetti. Per questo a Simâck, che aveva investito
tutti i propri risparmi in quell'opera incompletabile, non era rimasta
che la via del suicidio, per sfuggire agli opprimenti debitori. Brian
si avvicinò all'entrata dell'edificio e vide i sigilli del vice-governo
ancora attaccati al sontuoso portale incompiuto, li strappò via
- dopotutto era lui adesso e definitivamente il padrone - ed entrò
all'interno.
IV
Già
dall'esterno la torre dava una certa sensazione d'irregolarità,
come se pendesse, ma solo leggermente, da un lato. Deacon aveva creduto
che fosse stata solo un'illusione ottica, che fosse in realtà la
pianura circostante ad essere un leggero declivio. In realtà, si
accorse con grande sorpresa una volta entrato, era la torre a pendere,
solo leggermente, ma inequivocabilmente.
Il pavimento del grande atrio scendeva dolcemente verso il lato destro,
dove si era depositato un sottile strato di polvere rossastra, che intaccava
la levigata lucentezza dei pavimenti.
Il terreno sul quale era stato edificato il palazzo era infatti più
fragile di quanto era apparso in un primo tempo ed aveva quindi ceduto
su un lato, rendendo così inutile, oltre che pericolante, la costruzione.
- Come si fa ad abitare in una torre pendente? - chiese Brian ai fantasmi
del luogo, mentre pensava al simile singolare monumento terrestre. Poi
cominciò a passeggiare per l'atrio, esplorando quell'edificio che,
secondo i suoi piani, sarebbe stato fatto minare solo poche ore dopo.
L'accordo informale con l'impresa di demolizioni era stato preso già
due settimane prima, e solo i contrattempi di ordine giuridico avevano
sino ad allora mantenuto in piedi la torre. Subito dopo la sentenza, il
giorno prima, però Deacon aveva preso l'accordo definitivo con
il titolare della ditta. Si ricordava perfettamente come era stato accolto
nell'ufficio di Erika Leiber, una donna di carnagione scura dallo sguardo
intelligente e sempre mobile.
- Buongiorno signor Deacon, vuole accomodarsi? -
- Sì, grazie. Ha un bell'ufficio, sa? Sono autentiche quelle? -
- Si riferisce agli oggetti nelle vetrine? Sì, risalgono all'antichità
germanica, sa, sono originaria di quelle parti. -
- Dell'Europa? E da quante generazioni la sua famiglia è su Marte?
-
- I miei genitori vennero qui con la grande ondata. Mio padre conobbe
qui mia madre, che al contrario è nata in Guinea, in Africa. Lei
invece da quanto è sulla colonia? -
- Da circa un secolo e mezzo - sorrise bonario Brian - il primo Deacon
è giunto qui con la seconda spedizione, quando su Marte c'erano
meno di diecimila persone. -
- Accidenti - Leiber guardò invidiosa il suo cliente così
ricco di storia - ho dunque l'onore di parlare con un vero marziano? -
- Così si potrebbe dire - così dicendo si alzò e
si avvicinò ad una bacheca - ma piuttosto mi dica, questi oggetti
sono molto antichi? -
- Beh, sono alcuni fucili dei primi anni del XXII secolo, e poi una serie
di oggetti militari, come quella spada, risalenti addirittura al XIX secolo;
ma guardi quelle, una vera rarità, delle mostrine di un ufficiale
delle SS, a casa ho anche l'uniforme. -
- Cosa vuol dire esse esse? -
- Non lo so, non conosco lingue antiche come il tedesco, so invece che
era la sigla di un corpo speciale rimasto in vita durante la seconda guerra
mondiale, mi sembra. Ho letto da qualche parte che quando la guerra era
in corso erano i guardiani di alcune minoranze. -
- Proteggevano le minoranze allora? -
- Credo di sì. -
- Come mai tanti oggetti bellici? -
- I miei avi. Nel ramo di mio padre sono stati praticamente tutti militari,
quasi sempre alti ufficiali, e queste sono le loro armi oppure qualche
piccolo souvenir che sono riusciti a rimediare, comunque tutti oggetti
che sono stati adoperati dai miei avi. -
- Veramente notevole. -
- Eh sì, la passione per le armi è stata una costante nella
mia famiglia. -
- Ed ancora oggi, vedo, lei lavora in un ramo abbastanza legato alle armi.
-
- Lei ha ragione, anche se io non uccido persone, in ogni caso questo
mi ricorda che lei è venuto qui per affari. -
- Già, lei si ricorderà che un paio di settimane fa ci eravamo
incontrati per discutere di una demolizione. -
- Certamente, mi aveva fatto vedere anche i progetti dell'edificio da
demolire, ma poi non è più tornato. -
- Ci sono state delle controversie legali, ma sono state dipanate ed ora
si può procedere. -
- Quando vorrebbe che noi si intervenisse? -
- Prima vorrei avere delle credenziali, sa, giusto per sapere quanto è
effettivamente affidabile la sua impresa. -
- Giustissimo... Vediamo, ha mai sentito parlare di Batrax? -
- La cupola? -
- Sì. -
- Non vorrà mica dirmi che lei è l'eroe di Batrax? -
- Ho sentito dire che ci si riferisce così all'autore di quella
prodezza. -
- E' lei? -
- Sì. - Questa volta fu Erika ad annuire con falsa sufficienza.
- Beh, in questo caso sono ben lieto che sia lei ad occuparsi di questa
demolizione. -
- Perfetto, allora, quando vuole che sia demolita la sua costruzione?
-
- Anche ora, per me quella torre è solamente d'intralcio. -
- Capisco, ma oggi non credo che sia possibile, mi lasci controllare gli
impegni... Ecco, penso che, se lei è d'accordo, già domani
per le nove e mezzo di mattina l'edificio possa essere minato e per domani
sera, verso le sedici, anche demolito. -
- Ottimo, non credevo che foste così celeri. -
- Minare un edificio è un lavoro veloce, oggigiorno. Basta piazzare
una sola carica al centro del piano terra, senza minare la struttura portante.
Con la carica adatta basta un clic, e i primi tre piani di una costruzione
del raggio di mille metri vengono spazzati via all'istante. Tutto ciò
che si trova al di sopra, non avendo più sostegno, cade giù
in un momento. -
- Come fa a bastare una sola carica? -
- Sono dei detonatori direzionali, di nuova concezione. Siamo i primi
ad averli nella zona; me li sono fatti portare da un mio socio direttamente
dalla Luna. -
- Sono sempre un passo avanti laggiù. -
- Sì, per quanto riguarda le tecnologie. Ma ora, con questi detonatori,
tutta l'energia della deflagrazione viene incanalata, tramite dei campi
di forza, solo sul piano che interessa all'artificiere. Nel nostro caso
l'esplosione si sviluppa solo sul piano orizzontale, ma potrebbe essere
anche verticale od obliquo. Il risultato è un'esplosione bidimensionale,
come se fosse una lama, una scure di fuoco, che taglia all'istante tutte
le pareti del piano terra. Sì, il paragone con la scure è
appropriato, perché le tracce che lascia l'esplosione sono molto
simili, anche se più grandi, ad un colpo dato con un'accetta. -
- Stupefacente, ma se è tanto semplice, perché aspettare
fino a sera? -
- Per piazzare la carica mezz'ora è più che sufficiente,
ma si perde parecchio tempo per recintare l'area da ripulire, per mettere
le barriere frangi-schegge e per rispettare tutte le norme di sicurezza;
dopotutto sono quattrocento e più metri di detriti che vengono
giù. -
- Va bene, e per il pagamento? -
- Sono, uh, mille e duecentocinquanta areti ora e altrettanti a lavoro
finito. -
- Non accetta altre valute? L'arete è stato dichiarato illegale.
-
- Sì, ma dai governi terrestri. -
- I vice-governi marziani sono espressione dei governi terrestri. -
- Certo, ma con i disordini che hanno a casa loro, non so fino a quando
riusciranno ad imporre la loro volontà fin qui, perché presto,
mi creda, sarà dichiarata l'indipendenza
anche a livello politico, e non solo economico. -
- Crede che i vice-governi lasceranno fare? -
- Non importa se lasceranno fare o meno, anche le grandi banche di Marte
sono dalla parte degli indipendentisti se è vero, come è
vero, che l'arete lo hanno immesso loro sul mercato, e le grandi industrie
seguono le banche, dato che hanno deciso di adoperare la moneta marziana
per i loro affari; e poi i veri patrioti terrestri andranno a combattere
per la Terra sulla Terra, e non qui.-
- Già, i conflitti si stanno allargando sempre più. -
- Questa però sarà la più distruttiva di tutte, per
questo non possiamo esserci trascinati dentro anche noi, per questo serve
l'indipendenza. -
- Ha ragione nel dire che non possiamo essere coinvolti nella loro guerra,
ma non credo che sarà la più distruttiva, i governi manterranno
fede ai loro patti e useranno solo armi convenzionali. Penso che abbiano
capito che non si può ridurre anche la Terra come hanno già
fatto con Mercurio. Ma torniamo a noi, vuole allora che la paghi in areti?
-
- Preferirei di sì, una sola moneta per tutto Marte è veramente
molto comoda. -
- Va bene, le trasferisco il denaro sul suo conto. -
- Firmi qui, prego. -
- Ecco fatto. -
- Grazie, è un piacere trattare con lei, aspetti, l'accompagno.
-
- Arrivederla. -
- A domani, quando il suo terreno sarà sgombro. -
V
Deacon
stava toccando una parete di solido cemento.
- Un attimo e puff, una parete portante spessa quattro metri che sorregge
sessanta e più piani, viene spazzata via. -
Era strano visitare un palazzo condannato a morte, specialmente se questo
non aveva mai vissuto ed anzi non era mai nato; una costruzione che aveva
avuto come suoi unici inquilini i fantasmi dei marziani, spiriti maligni
volteggianti sulle bave lattiginose che entravano col freddo sole dalle
strette vetrate, tutti in una tetra architettura non terminata, sbilenca
per il volere di qualche dio dispettoso del sottosuolo, che aveva reso
cedevole un terreno a prima vista solido come granito. Solo pareti oblique
ed un pavimento pendente, incubo scaturito dalla fantasia malata di un
architetto folle; ogni porta, ogni stanza, ogni corridoio, pendente come
vero emblema del disordine.
Man mano che però il tempo passava, tutto per Deacon si faceva
sempre più normale, anche quell'arredamento caoticamente ordinato
si faceva più abitudinario, quasi noioso, e fu proprio quando,
preda della noia, Deacon decise di andarsene via, vide l'ingresso di un
corridoio con le pareti dritte; Deacon batté gli occhi sorpreso,
un'illusione ottica? Un errore dei carpentieri? I lavori erano stati sospesi
subito dopo il cedimento. Non poteva esserci un corridoio con pareti diritte!
Brian si avvicinò. Era chiaro che era stato aggiunto in seguito,
per quale motivo Deacon non sapeva dirlo, perciò spinto dalla curiosità
entrò a vedere cosa si trovava più avanti.
Il corridoio si rivelò ben presto una scalinata che scendeva e
non aveva illuminazione, né da finestre, perché era sotterraneo,
e neanche da lampade, poiché l'edificio non era allacciato alla
rete energetica; così, dopo non molto Brian si trovò avvolto
dalle tenebre e fu costretto a tornare sui propri passi, ma col fermo
proposito di tornare a vedere cosa mai si trovasse lì in fondo,
e prima che l'impresa di demolizioni avesse distrutto la torre, tra poco
più di dodici ore.
VI
Il
lussuoso appartamento di Deacon era nella zona elitaria della città,
a poca distanza dalla sede dei vice-governi, dal tribunale, da tutto il
centro amministrativo e dalla fontana, zone queste che a loro volta cingevano
la zona antica di Aphrodite, la "Città vecchia".
Deacon stava andando a casa a prendere una luce portatile e poter quindi
tornare alla torre a controllare quell'oscuro corridoio. Pensava al discorso
fatto con Leiber, ad un Marte libero ed indipendente da una Terra che
stava sprofondando in una guerra temibilissima. Non credeva però
che per rendere indipendente un pianeta ricco di risorse, e quindi appetibile,
come lo era Marte, bastasse un atto, seppur coraggioso, di una classe
sociale ricca sì, ma tendenzialmente imbelle. Se Marte voleva essere
libero doveva cacciare i terrestri - gli uomini, in altre parole, fedeli
ai governi terrestri - anche con metodi violenti. Non che Brian lo desiderasse
ardentemente, così come non teneva particolarmente all'indipendenza
delle colonie marziane, le sue erano solo semplici constatazioni. E non
aveva preso un partito, nella questione dell’indipendenza, neanche
per salvaguardare i propri interessi. Brian si considerava infatti abbastanza
abile da poter ottenere il massimo dei benefici sia da un Marte indipendente
che da uno colonizzato. Più che altro era interessante il fatto
che i marziani volessero l’indipendenza dai governi terrestri per
poter creare un super-stato che coinvolgesse l’intero pianeta rosso.
Una separazione, dai governi lontani e coloniali, cui avrebbe seguito
un’unione, tra i vari vice-governi.
Mentre era in preda di quelle che riteneva ancora oziose riflessioni,
attraversò il centro amministrativo, prendendo intenzionalmente
le vie di superficie per poter osservare la fiumana di gente che, senza
turbare minimamente il traffico, si stava recando nella sede del vice-governo
locale per compiere l'ennesima giornata di lavoro amministrativo per conto
del pianeta patrio.
Deacon vi passò davanti.
Improvvisamente, momentaneamente, la strada, avanti e lateralmente a lui,
si illuminò di tinte bianche e cremisi; egli fu accecato da un
lampo, assordato da un boato e sballottato assieme alla sua vettura in
maniera insensata.
Brian aprì gli occhi, ma non seppe dire per quanto tempo li aveva
tenuti chiusi. La sua vettura era adagiata su un fianco, e dall'altro,
trasformatosi in soffitto, si intravedevano riflessi irreali e si sentivano
suoni scomposti. A fatica si tirò fuori dal suo veicolo. Una larga
ferita segnava il sopracciglio destro e aveva reso scarlatta tutta una
metà del suo volto. Grumi di sangue si erano già formati
tra i capelli vicino all'arcata sopracciliare e dove sospettava che ci
fosse un altro doloroso squarcio nella sua pelle.
Tutto, intorno, era confusione.
Deacon era stordito, la testa girava e bruciava senza lasciare tregua
ai suoi pensieri. In un primo momento non capì cosa stesse accadendo,
poi comprese che non poteva esser stato altro che un'autobomba, piazzata
davanti agli uffici nel periodo di maggior traffico.
La sede del vice-governo era andata in fiamme e larghe ondate di fumo,
denso, oleoso, facevano schermo alla luce del sole e del Grande Anello.
Sembrava notte, ma una notte illuminata dal sinistro bagliore del fuoco
sanguigno.
Macerie e lamiere, che sembravano sculture d'arte astratta, ingombravano
il cammino ovunque. Dove probabilmente era avvenuta l'esplosione la strada
stessa era ferita da uno squarcio, largo e profondo non più di
due metri e lungo invece sei o sette. Aveva una forma che ricordava un
colpo dato da una gigantesca scure. Dall'altro lato della strada provenivano
grida e pianti. Brian vi si avvicinò con passo incerto. Della gente,
nelle stesse sue condizioni, si era stretta all'entrata della sede del
vice-governo e sembrava che aspettasse qualcosa o qualcuno. Dal palazzo
schizzava fuori il fuoco impazzito, che però sembrava occupare
solo i piani superiori, dove una lunga striscia nera e frastagliata attraversava
l'edificio. Nel frattempo sembrava che le attese di chi stava vicino l'entrata
si fossero esaudite; da una rampa di scale immersa nel fumo nocivo scesero
due persone, probabilmente dei dipendenti, dai vestiti stracciati e macchiati.
Portavano uno strano fagotto che sembrava avvolto in un tappeto. Nel mentre
i soccorsi stavano tentando di scavalcare le macerie. Le due persone uscirono
e il fagotto si rivelò essere una terza persona, una donna priva
di conoscenza. I reduci passarono vicinissimo a Brian, che fissò
nella mente ogni particolare. La donna sembrava essere di carnagione scura.
Era difficile distinguere con tutta quella fuliggine che si appiccicava
alle carni. Ella aveva il volto gonfio dalle contusioni e lunghi capelli
ricci, bruciacchiati e fumanti.
Un lungo frammento metallico aveva passato da parte a parte il suo petto
poco sotto la spalla ed era impossibile, in quelle condizioni, rimuoverlo.
Il sangue veniva tamponato con delle bende improvvisate da brandelli di
vestiti. Per trasportarla i suoi due colleghi avevano ricavato una barella
da un antico tappeto. Ciò che si distingueva dei suoi lineamenti
non sembrava nuovo a Brian. Uno dei due soccorritori era alle sue spalle,
l'altro però gli era perfettamente di fronte. La carnagione chiara
era nascosta dal sangue rappreso misto alla fuliggine. I vestiti erano
ridotti a miseri cenci, e una benda ricavata probabilmente da una manica
lasciava trasparire una lunga linea rossa che si trovava appena sopra
un orecchio. Ciocche scomposte di una tinta indefinibile, vicina al rosso,
serpeggiavano tra le bende. Mentre quell'uomo soccorreva la compagna,
Deacon si domandò dove avesse già visto quei volti.
Per un momento, implorando aiuto, lo sguardo dello sconosciuto si alzò
dal fagotto. Gli occhi di Deacon, arrossati e pieni di lacrime a causa
del fumo, li incontrarono. Fu un momento lunghissimo. Entrambi erano semiaccecati
dal fumo, resi irriconoscibili dal sangue e dalle smorfie di dolore; ma
Deacon era fisionomista, e riconobbe, in quell'uomo vivo per miracolo
e in quella donna tramortita, i fantomatici zii del minatore suicida.
Deacon azzardò allora un timido - Tu - quando vide che la sorpresa
si era impadronita anche di quell'uomo, il quale evidentemente l'aveva
a sua volta riconosciuto. A quel punto gridò qualcosa, Deacon intese
solamente le parole "terrorista" e "prendetelo", indi
si guardò intorno e scorse, o credette di scorgere, alcune persone
forse in uniforme che cominciarono a correre verso di lui.
Qualcosa in quel momento scattò nel cervello di Deacon e istantaneamente
cominciò a fuggire.
Di corsa, verso la città vecchia, a lunghe falcate, più
lunghe, la bassa gravità di Marte te lo permette. Una curva, un
angolo, una svolta, ecco come li puoi seminare. Deacon si fermò.
Cominciò a dubitare seriamente di ciò che aveva visto o
creduto di vedere. Gli sembrava strano infatti di aver potuto seminare
così semplicemente dei poliziotti, si guardò in giro, gli
occhi bruciavano, gli sembrava di avere carta vetrata in gola, la corsa
gli aveva anche portato un senso di oppressione al petto, cosa diavolo
era mai bruciato per dare origine a quel fumo pestilenziale? Provò
a pensare dove, e se era il caso continuare a fuggire, ma la testa pulsava
in maniera terribile. Brian si strinse il capo tra le mani, quindi vide
che erano intrise di sangue fresco. Se mai si erano chiuse, le sue ferite
si erano riaperte. Fu allora che il mondo intorno a lui cominciò
a roteare e che ogni appiglio si fece insicuro. Poco prima che stramazzasse
a terra, un braccio lo afferrò e lo portò all'interno di
un capannone.
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