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CAPITOLO
1
ADDIO ALLE LUNE
I
Stava
camminando.
Le pesanti calzature mordevano il ghiaccio senza far rumore.
Lì non c’erano mai rumori. Non potevano essercene. Continuava
a camminare, i suoi piedi continuavano a trovare ghiaccio, solo ghiaccio.
Salvo alcuni rari ciottoli, si trovava una distesa pressoché ininterrotta
di bianco, solido ghiaccio d’acqua. Al di là di questa monotona
sostanza c’era solo la volta celeste, nera, oscura, vuota.
No.
Si stava sbagliando. Il cielo non era affatto vuoto; tutt’altro,
era di un fascino in altri luoghi sconosciuto. Certo, Il silenzio era
perenne, e l’aria che respirava non aveva profumi, ma ciò
che vedeva era un panorama nel suo genere unico.
In alto, ben lontano dall’orizzonte, quasi a reclamare il suo primato
nel Sistema Solare, c’era la sua stella madre, il Sole. In quei
luoghi, però, non era il Sole, piccolo e sbiadito, a dominare il
cielo che, nonostante tutto, si ostinava a restare indifferente e nero.
Su Europa, una delle quattro lune galileiane di Giove, era lo stesso pianeta
gigante a dominare la vista.
L’immensa falce multicolore del pianeta più grande guardava
con il suo gigantesco occhio rosso la sua stella regina. Egli, il padre
degli dèi, campeggiava poco oltre lo orizzonte quasi con discrezione,
come per non turbare l’urlo nucleare del nostro astro. Il cielo
ne era dominato, tuttavia non conteneva solo quei due gioielli. I suoi
occhi marroni, protetti dalla visiera del casco di una tuta spaziale,
dopo essersi soffermati a lungo su quelle due meraviglie, spazzarono il
cielo di Europa, forse con un po’ di nostalgia, probabilmente per
l’ultima volta. Vicino alla falce di Giove, lo sguardo del capitano
Frederick May vide altri due archi luminosi infinitamente più piccoli
del loro padre; lo scarlatto Io e il candido Ganimede. Callisto, la quarta
delle lune di Galileo, era nascosta dall’immensa mole gioviana.
Voltando lo sguardo più ad oriente, May scovò un piccolo
disco pallido dotato di piccoli anelli disposti quasi frontalmente rispetto
a lui. Gli occhi del capitano indugiarono qualche secondo ancora di fronte
al cenno di saluto di Saturno, poi andarono a frugare nello spazio profondo,
ricercando gli altri pianeti esterni: Nettuno, Urano e Plutone, ridotti
dalla distanza a poco più di miseri punti luminosi, gelidi e crudamente
immobili. Poi il suo sguardo tornò verso il Sole e i suoi figli
prediletti, i quattro pianeti di tipo terrestre, quelli più vicini
all’eterna fonte di luce e calore. Subito May trovò la Terra
che era, dopo Giove, le sue lune e lo stesso Sole, l’astro più
luminoso del firmamento. Poi scovò anche Venere, retrocesso solo
al settimo posto tra gli astri più brillanti. Mercurio e Marte
erano invisibili, nascosti dalla luminosità del gigante di fuoco.
Dopo aver guardato a lungo quel panorama, May si incamminò verso
la seconda scialuppa della sua nave spaziale e si lasciò definitivamente
alle spalle uno delle migliaia di insediamenti umani su Europa.
II
La
scialuppa numero due, identica alla numero uno, aveva la forma di un cilindro,
lungo una decina di metri e del diametro di circa tre, con le estremità
arrotondate. L’emisfero anteriore era trasparente e dall’esterno
lasciava intravedere, tra le apparecchiature di bordo, il sedile del pilota
e, un po’ più indietro, i sedili per i passeggeri. La superficie
della scialuppa era liscia, fatta eccezione per i piccoli razzetti direzionali
che avvolgevano come due bracciali borchiati le sue estremità e
fatta anche eccezione per i tre pattini che la sorreggevano. A metà
strada tra la prua e la poppa, sulla fiancata sinistra, si trovava il
portellone d’ingresso. La navetta terminava, così come era
cominciata, con un altro emisfero da cui spuntava l’ugello propulsivo.
Raggiunta la scialuppa il capitano May incastonò in un piccolo
incavo della fusoliera la “chiave”, una sorta di prisma simile
ad una pietra preziosa, dotata di un codice unico, per far aprire il portellone.
La chiave era abbastanza grande da poter esser maneggiata agilmente dalle
mani protette dagli spessi guanti di una tuta spaziale e abbastanza piccola
da non esser di impaccio. Frederick varcò il portellone ed entrò
nella camera di equilibrio, una stanza spoglia di poco più di un
metro e mezzo di lato. Il portellone si richiuse e il capitano attese
che fosse pompata l’aria all’interno della camera.
Nel momento in cui la pressione raggiunse un’atmosfera ci fu il
caratteristico trillo e la porta stagna, bordata di strisce oblique gialle
e nere, alla sua sinistra si aprì automaticamente mostrando l’accesso
alla cabina di pilotaggio. Lì May poté togliersi l’indispensabile
- all’esterno - quanto ingombrante e scomoda tuta spaziale. In quasi
quattro secoli di volo spaziale, pensò con una punta di fastidio,
non era stata ancora ideata una tuta spaziale veramente comoda e maneggevole.
Si aggiustò i lunghi capelli castani e ricci, tenuti legati dietro
la nuca, quindi si sedette, sistemò il sedile per i suoi lunghi
arti ed aspettò. Di fronte a sé poteva vedere l’insediamento
58 di Europa, con i suoi alloggi, i suoi hangar, le sue antenne radio,
il suo “impianto di sopravvivenza”, dove piante modificate
geneticamente in modo tanto drastico da non assomigliare più a
nessuna delle forme vegetali mai esistite sulla Terra rifornivano gli
astronauti, in cambio dei loro rifiuti e di poca luce, di acqua potabile,
ossigeno e una varietà quasi incredibile di cibi, alcuni dei quali
decisamente somiglianti alle carni, sia bianche che rosse.
III
Un
simile insediamento, più gli altri innumerevoli sparsi su Europa,
Callisto e Ganimede, erano costati parecchi sforzi all’umanità
e, certamente, non sarebbe bastata la curiosità scientifica per
far colonizzare, seppure in modo così precario, dei mondi così
lontani ed inospitali rispetto alla Terra e difatti non era stata la curiosità
scientifica, bensì la sete d’acqua dell’umanità.
Già due secoli e mezzo prima, infatti, l’uomo, spinto dalla
popolazione sempre crescente, aveva preso la via della colonizzazione
della Luna, da quasi diciannove decadi aveva cominciato a popolare Marte
ed infine si stava lavorando alla “terraformazione” anche
di Venere. Dato però che per rendere un pianeta abitabile è
necessaria la presenza d’acqua, dalla quale si può ricavare
l’altrettanto indispensabile ossigeno, e poiché l’acqua
non può essere portata dalla Terra, per non turbarne il già
delicato equilibrio idrologico, già da più di duecento anni
si era reso necessario trovare nuove ed ingenti fonti d’acqua al
di fuori del Pianeta.
I primi coloni lunari ricavarono in parte il prezioso liquido dai composti
delle rocce del Satellite, mentre i pionieri marziani ricavarono la fonte
della vita dal ghiaccio presente nelle calotte polari e nel sottosuolo;
tuttavia l’acqua disponibile sul pianeta rosso e sul satellite della
Terra non era sufficiente per dissetare delle popolazioni numerose. Sarebbe
bastata solo per rendere i due corpi celesti dei deserti punteggiati solo
qua e là da piccole oasi. Per questo, da quando era terminata la
disponibilità di acqua sulla Luna, l’uomo aveva puntato i
suoi telescopi alla ricerca della sorgente d’acqua più comoda
ed economica, deciso ad appropriarsene. La ricerca dell’acqua, dapprima
solo teorica, cominciò da Mercurio. Il pianeta più vicino
al Sole è però troppo caldo per mantenerne grandi quantità
allo stato solido e troppo piccolo per poterla trattenere allo stato liquido
o gassoso. C’era poi l’opzione Venere.
No. Tutta l’acqua che si poteva ricavare dal secondo pianeta era
contenuta, dissociata, nelle sue nuvole di acido solforico, e poteva bastare
sì e no a riempire un lago grande due volte il mar Caspio. Troppo
poco, senza contare che quell’acqua sarebbe servita ai futuri coloni
venusiani.
La Terra? No, l’acqua del terzo pianeta non si poteva toccare. C’era
poi il già assetato Marte e ancora più all’esterno
la cintura d’asteroidi. Lì forse poteva trovarsi del ghiaccio,
ma fin quando la tecnologia non avesse reso sicuro al cento per cento
navigare lì in mezzo era più saggio non avventurarsi in
quell’immane sassaiola.
Il pianeta successivo era Giove con le sue lune; tra queste ve ne sono
tre, Europa, Ganimede e Callisto, con la superficie totalmente ghiacciata.
Di queste tre, Europa è la più piccola e quella di minor
massa, ed è quindi più semplice sfuggire al suo campo gravitazionale.
Gli astronomi terrestri conclusero quindi che su Europa si trovava dunque
l’acqua più economica; determinato ciò, il satellite
fu diviso in centinaia di territori, ognuno dotato di una postazione umana,
e ognuno di questi fu diviso in cento lotti, tutti approssimativamente
delle stesse dimensioni. In seguito, quando anche Marte e successivamente
anche Venere avevano cominciato a chiedere acqua, anche le altre due lune
vennero divise in lotti, sempre di dimensioni simili.
Fu stabilito inoltre che ogni lotto sarebbe stato dato in concessione
decennale ad un gruppo privato avente sede sul pianeta in cui avrebbe
portato l’acqua, e fu anche deciso che tutti gli ingenti proventi
derivanti da quel commercio, tranne una decima per l’usufrutto delle
strutture delle lune, sarebbero rimasti a quei privati.
Questa era a grandi linee la costituzione delle “Libere Lune Gioviane”,
territori che dipendevano di fatto da Marte e da Venere, mentre la Luna
aveva ceduto i suoi territori quando aveva smesso di importare acqua.
May si ricordò di quando lesse per la prima volta quelle poche
righe, quasi otto anni prima. Allora era poco più che un ragazzo,
solo da poco aveva ottenuto il brevetto di pilota, ma subito si era scontrato
con una realtà dove il lavoro sembrava essere solo un miraggio.
Eppure aveva sempre creduto che sarebbe stato facile entrare in una delle
compagnie civili che effettuavano le linee interplanetarie. Era uscito
dalla scuola di volo con un punteggio più che soddisfacente, e
la gente diceva sempre che il pilota era un lavoro sicuro e ben retribuito.
Certo, tutte cose verissime, a patto di riuscire ad entrare nel giro,
cosa più semplice a dirsi che a farsi.
Così, seduto ai comandi della scialuppa numero due, May pensò
che se non avesse letto, quasi per caso, la costituzione delle libere
lune gioviane, allora avrebbe corso il serio rischio di diventare un altro,
promettente, disoccupato. L’idea di prendere una nave spaziale classe
cisterna, all’asta decennale di quanti non rinnovavano il contratto,
fu per Frederick quasi una folgorazione. Con impeto tutto giovanile riuscì
a convincere altri amici ad entrare in quello che, lui lo vedeva in maniera
chiarissima, sarebbe stato un affare colossale. In tutto coinvolse in
quello che era il “suo” progetto altre tre persone che, come
lui, stavano avendo delle difficoltà nell’inserirsi nel mondo
del lavoro. I quattro vennero a formare un’équipe ben assortita.
Due piloti spaziali, un esperto in mineralogia e petrologia ed un altro
competente in materia finanziaria; una squadra che oltre tutto era composta
da ragazzi amici di lunga data.
Certo, ripensò Fred, i primi tempi per lui ed i suoi amici erano
stati duri, anche molto. Per prendere la nave avevano ipotecato qualsiasi
cosa avessero, e per il primo anno i guadagni del commercio d’acqua
se ne erano andati tutti alle banche. I debiti sembravano non finire mai,
e anche la manutenzione normale della nave appariva quasi come un lusso
eccessivo. Il clima, anche all’interno dei rapporti d’amicizia
si era fatto teso, ogni giorno pareva come dovesse spezzarsi, come se
stesse per esplodere una tempesta, specialmente nei confronti del capitano,
reo di aver trascinato gli altri tre in un’impresa che sembrava
rivelarsi un disastro. Poi però le difficoltà avevano cominciato
a passare, lentamente, uno alla volta i debiti venivano ripianati e il
denaro cominciava ad affluire anche nelle casse dei commercianti d’acqua
o, come venivano chiamati dall’aristocrazia finanziaria con il disprezzo
rivolto ai nuovi arricchiti, dei minatori. Dopo quel primo anno l’amicizia
tra quelle quattro persone ne era uscita più forte, più
salda e, pensò con un sorriso Frederick, certamente più
ricca.
IV
Per
quanto gli potesse essere familiare, quella volta il trillo del segnale
della camera d’equilibrio prese May alla sprovvista. Decisamente
il fatto che quello sarebbe stato l’ultimo suo viaggio su Europa
in veste di commerciante d’acqua lo stava distraendo troppo: come
aveva potuto permettere che John Taylor, il geologo, percorresse sotto
i suoi occhi, nell’andatura un po’ goffa caratteristica delle
basse gravità, fatta di grandi balzi, i duecento metri che separavano
gli insediamenti umani dalla scialuppa, senza che egli se ne fosse accorto?
Comunque, la porta stagna si aprì ed entrò un uomo robusto,
non basso, ma neanche alto come il capitano. Taylor si tolse il casco
e mostrò una capigliatura bionda, corta e leggermente spettinata,
e degli occhi azzurri nascosti da un paio di occhiali tondi con una preziosa
montatura d’oro. Poi John parlò.
- Il sesto serbatoio è pieno ed è stato installato, siamo
pronti per partire, ho anche fatto caricare i miei strumenti da lavoro
a bordo. -
- Anche gli esplosivi? -
- Certamente, se questo è il nostro ultimo viaggio non voglio lasciare
qui niente di nostro. -
- Hai ragione, ora allaccia le cinture, partiamo. -
La scialuppa si alzò silenziosamente sollevando bianchi sbuffi
di polvere ghiacciata e si diresse verso la nave madre, portando così
via i minatori da quella prateria di ghiaccio.
L’argenteo vascello spaziale era una nave cisterna di medie dimensioni,
acquistata insieme col lotto e battezzata poco più di trent’anni
prima col nome di Europe, lunga circa duecentocentocinquanta metri e divisa
longitudinalmente in tre sezioni, ciascuna con diverse funzioni.
Lucide linee disegnavano in maniera sinuosa la sezione anteriore costruendo
una sfera di trenta metri di diametro, dove si trovavano gli alloggi per
l’equipaggio, le piante dell’impianto di sostentamento, i
sistemi di comunicazione e il computer di bordo. Sui fianchi della sfera
si trovavano due nicchie dove le due scialuppe, quando attraccavano, aderivano
perfettamente. All’estremità anteriore della sfera si trovava
un portellone che permetteva di uscire all’esterno senza bisogno
delle scialuppe.
Subito dietro la grande sfera metallica nasceva, rigogliosa come un albero,
la seconda sezione, il cuore stesso della nave, un immenso longherone,
a sezione esagonale, dell’apotema di cinque metri e lungo centosettantacinque,
sul quale venivano ancorati sei serbatoi contenenti più di ottanta
milioni di litri di acqua purissima mantenuta allo stato liquido, destinazione
Marte.
Al termine del traliccio era innestata l’ultima sezione della nave,
costituita dai reattori e dagli ugelli che fornivano la propulsione al
vascello. Naturalmente, per muoversi nelle altre direzioni, la Europe,
come tutte le navi spaziali, era munita di numerosi razzetti direzionali.
Dopo dieci minuti di volo la scialuppa raggiunse la Europe, orbitante
a venti chilometri di altezza, e aderì alla propria nicchia, in
modo che un osservatore esterno potesse scorgere solamente la metà
inferiore della scialuppa.
Per poter passare dalla scialuppa alla nave-madre, non si adoperava il
portellone laterale della scialuppa, che rimaneva bloccato infatti dalla
stessa mole della Europe, bensì una botola circolare posta sopra
i sedili dei passeggeri. Questa botola, che si apriva verso l’interno,
metteva in comunicazione i due ambienti pressurizzati senza l’ausilio
della camera d’equilibrio, ed infatti, quando la navicella era libera
di muoversi, la botola era bloccata ermeticamente. Quando però
la scialuppa si agganciò alla Europe la botola si aprì automaticamente
mostrando dall'altra parte una nuova botola, questa appartenente allo
scafo della cisterna, la quale si aprì in senso opposto alla prima.
May e Taylor entrarono a bordo del vascello e arrivarono nella camera
di pilotaggio, lì incontrarono l’altro pilota, Roger Bulsara,
aspetto mediterraneo, capelli e baffi neri: - I preparativi per la partenza
sono quasi a termine, ormai bisogna solo decidere la rotta. -
- D’accordo, chiamerò subito Heinlein. -
Robert Heinlein era, in quel settore, l’uomo più influente
e facoltoso - possedeva ben tre lotti e quindi anche la nave più
grande - e, in virtù di questi fatti, costui era considerato il
rappresentante del settore, una sorta d’informale comandante. In
quanto “ammiraglio” era Robert a decidere la rotta e la tabella
oraria della flotta di quel settore - le navi di ogni settore partono
sempre in gruppo - e quindi il capitano di ogni nave doveva per forza
di cose contattare l’ammiraglio prima della partenza.
Sullo schermo dell’intercom apparve il volto allegro e soddisfatto
di un uomo a cui piaceva la buona tavola, rubicondo tanto in viso quanto
tra i capelli. La barba accuratamente rasata. - Salve Bob, qui sulla Europe
siamo pronti a partire, com’è la situazione per il resto
del gruppo? -
- Qui a bordo siamo pronti, ci sono solo un paio di navi che sono ancora
in assemblaggio, ma tra un’ora avranno finito. La partenza sarà
tra novanta minuti, ora vi trasmetto i dati della rotta. -
- Hai pensato alla mia proposta? -
- Sì, in linea di massima sono d’accordo, però vorrei
discuterne su Marte con Brian, ci rivedremo là. -
- A rivederci su Marte. -
V
La
rotta che era stata trasmessa dal computer della nave di Heinlein non
era una semplice linea retta, in quanto traiettorie rette sono tanto difficili
quanto costose da ottenere. Al contrario, il tragitto che le navi avrebbero
compiuto era una curva sinuosa che non avrebbe violentato i campi gravitazionali
del Sistema Solare, bensì vi si sarebbe adagiata e li avrebbe accarezzati
traendovi il maggior beneficio col minimo sforzo.
Innanzitutto la nave sarebbe partita in direzione opposta al Sole, avvicinandosi
verso il polo sud di Giove e usando il campo gravitazionale del corpo
celeste come una gigantesca fionda. Le navi avrebbero così girato
intorno al pianeta gigante e si sarebbero distaccate dalla sua attrazione
dirigendosi verso il Sole, anche se un centinaio di migliaia di chilometri
a nord dell’eclittica, il piano immaginario su cui sono adagiate
le orbite dei pianeti.
Questa deviazione verso nord era necessaria per evitare la fascia degli
asteroidi. La flotta avrebbe poi proseguito la propria rotta intersecando
le orbite di Marte, Terra, Venere e Mercurio; poi, sfruttata anche la
mole del Sole come fionda gravitazionale, le navi avrebbero di nuovo valicato
le orbite dei pianeti terrestri, questa volta, però, toccando anche
il pianeta Marte.
La durata del viaggio, compiuto alla mirabile velocità media di
mille e cinquecento chilometri al secondo, poco più della centesima
parte della metà della velocità della luce, sarebbe stata
di circa dieci giorni e mezzo.
VI
Lentamente,
silenziosamente, grandi fiori di fuoco sbocciarono dagli ugelli delle
navi e, mentre la tempesta d’inferno non turbava la cristallina
quiete dello spazio, gli immensi cammelli argentati cominciarono a spostarsi
sonnolenti dando di nuovo vita all’antico rituale delle carovane,
queste sì veramente isolate, da ogni oasi lontane, viaggiando coi
ribollenti motori nel deserto più solitario. La flotta si allontanava,
dopo aver giocato con la sua massa, dal padre degli dei, il quale scrutava
maligno con il suo unico, grande, rosso occhio, più simile a Polifemo
che a Zeus.
VII
In
quel momento, mentre era il turno di Bulsara ai comandi della nave, Taylor
e May stavano gustando il loro pasto, quando sullo schermo dell’intercom
apparve il volto preoccupato del pilota, che disse con voce rauca, la
fronte imperlata di sudore: - Fred, vieni subito in plancia, è
urgente.
Doveva essere urgente per forza se il pilota in carica chiamava il suo
collega in riposo, perciò May, senza esitazione, si precipitò
nella plancia, seguito a ruota da Taylor.
VIII
La
porta si aprì scorrendo lateralmente mostrando agli occhi scuri
del capitano il grande proiettore olografico della plancia, dove era rappresentata
una parte del Sistema Solare. Vi era una sottile curva ocra con inanellata
una sferetta dello stesso colore che rappresentavano il pianeta Giove
con la sua orbita. Dalla sferetta partiva una linea viola acceso al termine
della quale brillava ad intermittenza un puntino pure viola: la Europe
con la sua rotta già percorsa. Vi erano inoltre una banda marrone
che rappresentava la fascia degli asteroidi, una linea rossa che era l’orbita
di Marte, e una azzurra - l’orbita terrestre -. Queste ultime due
erano senza sferette perché i rispettivi pianeti erano al di fuori
della porzione di spazio rappresentata. Sulla fascia marrone pulsava lentamente
un punto rosso sangue.
Il capitano intuì subito cosa significava quella rappresentazione,
ma, incredulo, chiese ugualmente spiegazioni al suo secondo.
Vedi Fred - giunse atona la risposta di Roger - è giunto fino a
noi dagli asteroidi, l’abbiamo captato quasi per miracolo, è
un S.O.S. -
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