I vasti spazi erbosi non dovrebbero esistere in questo tratto dell’Appennino, ma tutto dovrebbe essere ricoperto uniformemente dalla foresta. Perlomeno se non fosse mai intervenuto l’uomo. Infatti nel corso dei secoli la fame e la necessità di sottrarre terreni coltivabili alla foresta hanno fatto sì che gli abitanti di queste terre diboscassero aree più o meno vaste per ricavarne terreni agricoli. I quali oggi, nuovamente abbandonati a se stessi, sono invasi da una moltitudine di erbe ed arbusti. Però, se fino a qualche anno fa queste praterie erano considerate habitat marginali e prive di ogni interesse, oggi vengono hanno assunto importanza per il loro grande valore ecologico.

            Ma vediamo le cose con ordine.

            A partire dal 1773 il Granduca Pietro Leopoldo di Toscana stabilisce la possibilità di vendere ai privati di beni e demani comunali. Una grave carestia aveva infatti ridotto la popolazione delle campagne alla fame. Quindi era necessario dare la possibilità ai contadini di insediarsi in nuovi territori da coltivare, soprattutto in quelle zone della Romagna (in cui le attività agricole erano la principale fonte di sostentamento della popolazione) che allora erano sotto il dominio del Granducato. Vengono perciò creati dei latifondi, suddivisi in poderi in cui si stabiliscono i coloni con le loro famiglie. La gestione dei vari poderi è a mezzadria.

            Ciascun podere viene a sua volta suddiviso in diverse aree destinate ai coltivi, ai pascoli ed al bosco. I terreni più impervi e scoscesi, ovviamente, erano occupate dai boschi (necessari alla produzione di legna, principalmente da ardere) oppure dai pascoli. Le aree meno scoscese, invece, venivano coltivate a grano, grano marzuolo, orzo, granturco o leguminose. In certe zone venivano praticati anche terrazzamenti in cui si impiantavano vigneti, anche se la produzione dell’uva, a causa del clima e del suolo non adatti, risultava povera. Inoltre, in prossimità dei poderi, si trovavano generalmente alberi da frutto (noci, peri, meli, ciliegi, susini, sorbi, nespoli o fichi) e, sui terreni più umidi, si favoriva la crescita del salice i cui giovani rami servivano per intrecciare gerle o altri contenitori.

            Sui terreni migliori si praticava la cosiddetta “rotazione biennale” (un anno a grano ed il successivo a leguminose oppure a granturco), mentre i terreni più magri venivano tenuti un anno a maggese e due a riposo.

            Questo tipo agricoltura si è mantenuta fino agli anni ’60 – ’70 del XX secolo, ma era tutt’altro che ricca ed i coloni dovevano lavorare duramente solo per soddisfare, nella migliore delle ipotesi, le loro esigenze fondamentali. Tanto che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è cominciato l’esodo degli abitanti di queste terre verso la pianura e le città, dove le condizioni economiche erano migliori.

            L’abbandono dei terreni agricoli, però, non solo ne ha ridotto la produttività, ma li ha anche messi a rischio di un grave dissesto idrogeologico, tanto che questi territori vengono acquistati dallo Stato che avvia un processo di rimboschimento per rinnovare il manto forestale originario e arginare così la degradazione dei suoli.

            Ma gli ambienti non forestali come praterie e coltivi, interrompendo la continuità della foresta, generano numerose aree dei passaggio tra gli ecosistemi boschivi e quelli aperti, aree dette in gergo “ecotoni”, ricchissime di biodiversità. Inoltre sono importanti zone di pascolo in cui possono alimentarsi gli ungulati (che a loro volta costituiscono prede per il lupo) ed ospitano specie di uccelli rari o minacciati che è necessario proteggere: l’Averla piccola (Lanius collurio), la Tottavilla (Lullula arborea), il Saltimpalo (Saxicola torquata), il Torcicollo (Jynx torquilla), lo Zigolo muciatto (Emberiza cia) e numerose specie di rapaci diurni e notturni come la Civetta (Athene noctua), il Gheppio (Falco tinnunculus) o l’Aquila reale (che necessita di zone aperte per poter cacciare). Molte di queste specie sono rare o in declino a livello europeo, tanto che sono state dichiarate di interesse comunitario.

            Quindi, per il valore storico ed ecologico che questi ambienti non forestali possiedono, l’Ente Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna sta avviando una serie di interventi come gli incentivi alle produzioni agricole tipiche o alle attività zootecniche tradizionali proprio al fine di conservare  e proteggere questi habitat che nelle zone montane mediterranee risultano fortemente minacciati dalle modificazioni ambientali.

 

 

 

Bibliografia:

 

I Quaderni del Parco – “Uccelli delle Praterie Appenniniche”. Testi di Guido Tellini Florenzano, Marco Valtriani, Pier Paolo Ceccarelli e Stefano Gellini. © 2002 – Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna.

 

 

Ambienti della foresta.

 

1. Rocce

2. Praterie alpine

3. Fustaia di Faggio

4. Abetina

5. Bosco misto (querce, aceri, carpini ecc.)

6. Castagneto

7. Boscaglie e radure

8. Rimboschimenti di pino nero

9. Praterie

10. Torrenti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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