La Cena dell'addio
LA PREGHIERA DI GESU' AL PADRE
“Il
primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli
dissero: «Dove vuoi che andiamo a
preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: «Andate in città e
vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo e là dove entrerà
dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io vi
possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano
superiore una grande sala con i tappeti, gia pronta; là preparate per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto
loro e prepararono per la Pasqua”(Mc 14,12-16; Cfr. Mt.26,17-19; Lc 22,7-13).
Tutti e tre i Vangeli Sinottici cominciano la narrazione relativa all’ultima cena con un accenno al primo giorno degli azzimi, quando cioè si immola la Pasqua. I discepoli chiedono a Gesù dove andare per mangiare la Pasqua. Il Maestro li invita a recarsi in città, a Gerusalemme, dove troveranno un uomo che andrà loro incontro mentre porta una brocca d’acqua. Di solito sono le donne a portare l’acqua, e non gli uomini. Ma qui è un uomo che potrebbe essere identificato in un discepolo od un amico di Gesù; oppure un servo della casa di Marco, il futuro evangelista, se non proprio il padre di Marco, visto che la casa della madre di Marco sarà quella che accoglierà i discepoli per l’ultima cena, fino ad essere, poi, il primo rifugio della nascente comunità cristiana.
I discepoli partono, quindi, da Betania, presumibile luogo scelto da Gesù come temporanea residenza per questo periodo. Salgono lungo le pendici orientali del monte degli Ulivi, per poi scendere verso il torrente Cedron e quindi risalire i pochi metri di declivio che portano alla Città santa.
I discepoli, che secondo Luca sarebbero Pietro e Giovanni, incontrano l’uomo con la brocca ed insieme a lui si recano nella casa dove dovranno preparare la Cena. Nella narrazione di Marco la sala è addobbata con tappeti. In quella di Luca, invece, si parla solo di sala addobbata. Certamente gli amici di Gesù vogliono accoglierlo con tutti gli onori.
Ma
prima di passare alla cena vera e propria, che rappresenta uno dei momenti
decisivi della vita del Maestro, ed introduce quelle che saranno, poi, le ore
della passione, noi ci poniamo una domanda che fa discutere non poco gli
studiosi? Quando è avvenuta
l’ultima Cena? Prima o durante la Festa di Pasqua?
Secondo la tradizione dei Vangeli Sinottici Gesù, con un gesto profetico, fa preparare la Sala per mangiare la Pasqua con i suoi amici, nella notte tra il 14 ed il 15 di Nisan. Quindi l'arresto e la passione avvengono, secondo la tradizione sinottica, in questa notte e nel giorno successivo. Secondo il quarto Vangelo, quello di Giovanni - suffragato anche dal vangelo apocrifo di Pietro che da esso dipende - i fatti dell'ultima cena e quelli successivi della passione e morte si svolgono ventiquattro ore prima, e cioè nella notte che va dal 13 al 14 e lo stesso giorno 14 di Nisan. Una questione ancora aperta. Spetta agli studiosi porre la parola fine a questa questione. Uno dei più prestigiosi, Joachim Jeremias, analizzando compiutamente le due tesi, afferma che le parole di Gesù dette nell'ultima Cena "divengono pienamente comprensibili soltanto entro la cornice del rito pasquale. Bisogna tuttavia affermare decisamente che l'ultima cena di Gesù si svolse in un'atmosfera pasquale anche nel caso che essa fosse avvenuta la sera precedente la pasqua"(Joachim Jeremias, Le parole dell'ultima cena, Paideia Editrice Brescia, 1973, 104).
Ma quale significato ha voluto dare Gesù al banchetto Pasquale? Prima di rispondere a questa domanda, ascoltiamo il brano evangelico relativo alla Cena.
Due sono le tradizioni più arcaiche relative alla Cena di Gesù con i suoi amici. La prima è presente nel Vangelo di Marco e, per riflesso, in quello di Matteo. La seconda, invece, la troviamo in Paolo e Luca.
Partiamo col Vangelo di Marco:
“Venuta
la sera, egli giunse con i Dodici. Ora, mentre erano a mensa e mangiavano, Gesù
disse: «In verità vi dico, uno di
voi, colui che mangia con me, mi tradirà». Allora cominciarono a rattristarsi
e a dirgli uno dopo l’altro: «Sono
forse io?». Ed egli disse loro:
«Uno dei Dodici, colui che intinge con me nel piatto. Il Figlio
dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell’uomo dal quale
il Figlio dell’uomo è tradito! Bene per quell’uomo se non fosse mai nato!».
Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò
e lo diede loro, dicendo: «Prendete,
questo è il mio corpo». Poi prese
il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato
per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino
al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio». E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli
Ulivi”(Mc 14,17-26. Cfr. Mt 26,20-30; Lc 22,14-39).
Sorvoliamo sulla scena in cui il traditore viene smascherato da Gesù, e passiamo all’avvenimento vero e proprio che emerge nella Cena di addio. Per un insigne studioso come Jeremias, “che ha ritenuto per molto tempo la tradizione di Marco come la più antica, soprattutto a motivo del maggior numero di semitismi in essa contenuti”(Settimio Cipriani, Eucaristia, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline 1988, pag. 524), “l’ultimo pasto di Gesù fu un banchetto pasquale, in cui lo stesso Gesù interpretò due azioni simboliche mediante due detti in parabola: interpretò le focacce di pane spezzato in rapporto alla sua morte e il vino in rapporto al suo sangue” (Gerd Theissen, Annette Merz, Il Gesù storico, Ed. Queriniana, Ed.1999, 507-508).
Nel testo di Marco manca l’aggettivo “nuova” (alleanza), come abbiamo, invece, nel testo parallelo di Luca e in San Paolo (1Cor 11,25). A parte questa omissione, certamente Marco intende dire che, istituendo l’Eucaristia, Gesù ha inaugurato la nuova alleanza. Un’alleanza diversa dalle precedenti. Quindi non più fondata sul sangue di capri e di vitelli, ma sul proprio sangue, versato per “molti”. Il termine greco “perì pollôn” rimanda al quarto carme del Servo di Jahvé (Is 53,12), una figura biblica misteriosa le cui sofferenze assomigliano molto alla Passione e morte di Gesù. La formula richiama il patto dell’antica alleanza sancita da Dio con Israele alle pendici del Sinai (Cfr Es 24,8). Un patto celebrato con l’offerta di vittime.
Ma ora Gesù ha, forse, la coscienza di avere le ore contate. E allora, consapevole della morte che incombe, officia questo rito sancito sul suo sangue che verrà versato per il bene di tutti. Anche l’offerta del pane “spezzato” e distribuito ai discepoli presenti allude al sacrificio cruento della croce, come evidenzia molto bene Luca nel suo Vangelo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi”(Lc 22,19).
Gesù anticipa, quindi, la sua offerta sacrificale. Quella che poi si realizzerà con la sua morte, allorché il suo corpo sarà crocifisso, il cuore squarciato, ed il suo sangue versato. Ora, davanti ai suoi amici, rende questo sacrificio un’offerta al Padre.
Ma torniamo su alcune parole dette da Gesù. In tutte e tre i Vangeli Sinottici, nella formula di consacrazione eucaristica, Gesù parla del sangue “versato ver voi”. Abbiamo già detto che il termine rimanda al quarto carme del Servo di Jahvé (Is 53,12), una figura biblica misteriosa le cui sofferenze assomiglieranno molto a quelle che Gesù stesso patirà tra poco. E poiché questa espressione biblica di Gesù non è stata messa in discussione dagli studiosi, assume una particolare evidenza il fatto che Egli preannunci la sua morte durante la Cena. Questo significa che, contrariamente ad alcuni che pensavano e tuttora credono che Gesù non abbia accettato l’idea della morte e che egli si aspettava una manifestazione gloriosa e trionfante di Dio nelle ore della passione, Gesù è pienamente consapevole di morire e sceglie volontariamente questa via. Anche se molti studiosi credono che egli si sia trovato, suo malgrado, a percorrere la via Dolorosa della passione e morte, l’espressione “sangue versato” dimostra, invece, la sua intenzione di portare a termine nel modo più cruento la sua missione. C’è un altro episodio, di cui avremo modo di riflettere, che dimostra questa scelta. E’ quello che vede Gesù nell’orto degli ulivi. In quei momenti in cui avrà modo di scappare, si rifiuterà di farlo, accogliendo Giuda nello stesso giardino del Getsemani dove aveva riposato anche i giorni precedenti. Inoltre, dall’altra parte del monte degli Ulivi c’è Betania, e subito dopo comincia il deserto di Giuda. Per chiunque sarebbe stato difficilissimo trovare Gesù se si fosse rifugiato lì. Sarebbe stato come trovare l’ago in un pagliaio. Tutto questo dimostra la scelta oblativa del Nazareno, unita alla concezione della sua missione: davanti ai suoi occhi c’è la figura espiativa del Servo di Jahvé, nel quale Gesù si identifica.
A questo punto leggiamo quella che, per la maggior parte degli studiosi, è la versione più antica dell’ultima cena. Quella di Paolo, presente nella prima lettera ai Corinti, e scritta probabilmente nell'anno 54 dell'era cristiana:
“Io,
infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il
Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver
reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo
è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo
stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate
questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Poiché il testo di Paolo è stato utilizzato da Luca, proponiamo ora proprio il racconto della Cena racchiuso nel terzo Vangelo, quello attribuito a Luca. Lo facciamo in conclusione perché le parole pronunciate da Gesù hanno, in Luca, un posto più importante che in Marco e Matteo, e perché in questo Vangelo si ha la successione più chiara ed evidente del rito ebraico e cristiano:
“E
preso un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo
e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del
frutto della vite, finché non venga il regno di Dio». Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro
dicendo: «Questo è il mio corpo
che è dato per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo:
«Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato
per voi»(Lc 22,17-20).
“Le parole di Gesù – come dice Rinaldo Fabris – si riferiscono al rituale ebraico, la spiegazione della cena con il suo riferimento al suo compimento escatologico. Disposti in forma simmetrica seguono i gesti e le parole che introducono la nuova Pasqua; essa si realizza nella morte di Gesù, il corpo dato e il sangue versato, come fondamento della nuova alleanza (Lc 22,19-20)”. La coppa del vino, menzionata da Luca e da Paolo “dopo la cena” può corrispondere alla terza coppa del rituale ebraico (1Cor 11,25; 10,16; «il calice della benedizione») Anche l’accenno al canto dell’inno, che precede l’uscita verso il monte degli Ulivi, è una reminiscenza del canto del Hallel pasquale (Mc 14,26)” (Cfr. R. Fabris, Pasqua, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline 1988, pag. 1120)
Certamente, già nelle ore precedenti l’ultima Cena, in cui si accorge di quanto forte sia, nei suoi confronti l’inimicizia del potere religioso ebraico, ma specialmente quando ha visto Giuda Iscariota lasciare il gruppo e andare via, Gesù ha sentito molto vicina l’ora della sua morte, interpretandola, anche alla luce del banchetto pasquale, come una nuova alleanza tra Dio e l’umanità. Il pane spezzato e distribuito ai suoi amici ha dato, innanzitutto, l’idea della sua vita che sarà spezzata tra poche ore. Così come il vino versato e distribuito gli ha dato l’idea del suo sangue versato.
L’espressione di Gesù “fate questo in memoria di me”, se da una parte potrebbe significare – come afferma Jeremias – “«Fate questo perché Dio si ricordi di me» cioè tenga conto del mio donarmi per gli uomini” (Settimio Cipriani, Eucaristia, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline 1988, pag. 526), dall’altra potrebbe essere interpretata – come fa Cipriani – nel senso “che non solo si ripeta il gesto da lui compiuto, ma che ci «si ricordi» di lui con la pienezza di significato salvifico che egli ha voluto dare alla istituzione dell’eucaristia, che perciò non rimane un evento isolato nella storia, ma viene reso continuamente presente con gli effetti e le esigenze di amore in esso contenute” (Settimio Cipriani, Eucaristia, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline 1988, pag. 526).
Attraverso il rito del banchetto, seppure giunto a noi per tradizioni diverse, possiamo capire come nell’ultima Cena Gesù compia dei gesti veri ma profondamente simbolici, di cui gli apostoli comprenderanno il senso solo dopo l’evento Pasquale. Così, come afferma Settimio Cipriani, “quando Gesù dice: «Questo è il mio corpo» oppure: «questo è il mio sangue», egli intende stabilire un rapporto vero e obiettivo fra quegli elementi materiali e il mistero della sua morte, che troverà il suo coronamento nella risurrezione. Si può chiamare tutto questo «transustanziazione» come propone il Concilio di Trento, senza presentarlo però come dogma, o in qualche altra maniera come suggeriscono alcuni teologi moderni? Credo che questo – continua Cipriani – non abbia importanza: ciò che rimane vero è che quelle parole creano una situazione nuova in quegli elementi comuni della manducazione umana, per cui essi veramente realizzano una misteriosa presenza di Cristo in quanto attualmente vivente, ma che si è dato alla morte per noi” (Settimio Cipriani, Eucaristia, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline 1988, pag. 525).
Un discorso, questo, che comprenderemo ancora meglio confrontandoci con quanto il quarto Vangelo, attribuito a Giovanni evangelista, dice a proposito dell’Eucaristia e della Cena Pasquale. Essendo redatto verso la fine del primo secolo, il Vangelo di Giovanni racchiude già una elaborazione, o meglio una riflessione, sul significato stesso del banchetto Pasquale. Anche Giovanni ha una sua tradizione sulla Cena Pasquale, e si distanzia non poco da quelle dei Vangeli Sinottici e dello stesso Paolo.
Gli studiosi si chiedono come mai Giovanni non parli sull’istituzione dell’Eucaristia avvenuta durante la Cena dell’addio. La risposta più logica sarebbe questa: scrivendo il suo Vangelo verso la fine del primo secolo, Giovanni sarebbe già a conoscenza degli altri tre evangeli, e quindi invece di ripetersi nella narrazione dell’episodio, avrebbe voluto integrare tale racconto con l’episodio della lavanda dei piedi.
Altre ipotesi fanno riferimento ad una certa reticenza dell'evangelista; oppure al fatto che egli si preoccupi più di evidenziare il senso profondo della cena eucaristica che di descrivere il fatto storico. Noi, invece, siamo convinti che la prima tesi formulata per spiegare perché Giovanni non ha parlato dell’Eucaristia nell’ultima Cena, sia quella giusta, e cioè che Giovanni ha omesso, l’istituzione dell’Eucaristia allo scopo di completare, o meglio esplicitare il profondo contenuto delle parole dette da Gesù. Essendo, il suo Vangelo, un’introspezione, un’esplorazione, una riflessione sull’evento Cristo, più che alle parole Eucaristiche pronunciate da Gesù, avrebbe prestato attenzione al profondo legame tra l’Eucaristia e la sua comunione con i discepoli, caratterizzata dall’episodio della lavanda dei piedi. Tale momento solenne sarebbe vitale, nell’intenzione dell’evangelista, per illuminare il sacramento, conferendo ad esso un profondo significato di salvezza e di comunione.
Ma
il tema Eucaristico è abbondantemente presente nel Vangelo di Giovanni.
Infatti, già nel miracolo di Cana (Gv 2,1-12), quello che inaugura la stagione
pubblica di Gesù, è presente un richiamo ad esso. “A
Maria che chiede “il vino novello” dell’Eucaristia, Gesù risponde che la
sua “Ora” non è ancora venuta. Ma
quando Egli sarà sul Calvario, il suo cuore sarà squarciato dalla lancia del
soldato e ne scaturirà acqua e sangue. Due “Segni” nei quali i Padri della
Chiesa vedranno i simboli sacramentali del Battesimo e dell’Eucaristia. E sarà
proprio in questa prospettiva di salvezza e di autorivelazione di Gesù che
Egli, pochi istanti prima della sua morte,
chiamerà Maria “Madre” di tutti i credenti, donando, subito dopo, e
solo allora, il “Vino” novello del Suo Corpo e del Suo Sangue, per il
nutrimento spirituale di tutto il Popolo di Dio. E’ questo Vino, è questo
Corpo ad operare una vera, autentica, trasformazione ontologica, profonda,
nell’uomo di tutti i tempi, fino a far fermentare la sua Legge, fino alla
completa realizzazione del Suo Regno.
Ma
c’è un altro momento, nel quarto Vangelo, in cui è presente,
abbondantemente, la catechesi di Gesù sull’Eucaristia. E’ il discorso
eucaristico (Gv 6,51-58), riportato da Giovanni dopo il miracolo della
moltiplicazione dei pani.
“Io
sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in
eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Prima
di dire queste parole, con uno dei suoi più celebri miracoli, Gesù aveva
sfamato una grande folla distesa sul declivio di un colle poco distante dalla
riva occidentale del Lago Tiberiade. E allora giunge alle stelle l’entusiasmo
provocato da questo grande Segno. E’ in questo contesto, in cui il popolo si lega a colui che ha
dispensato il pane terreno, che egli invita i suoi uditori a rivolgere
l’attenzione ad un altro tipo di pane: quello celeste, disceso dal cielo.
Certamente si tratta di un discorso non facile da capire, ma ricco di contenuti. Vediamo, allora, di considerarne qualcuno.
L’autore del testo, che potrebbe essere proprio Giovanni apostolo, non utilizza, nelle parole di Gesù, l’espressione “corpo”, ma “carne” (in greco: sárx), che è lo stesso termine col quale descrive l’incarnazione del Verbo: “Ed il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14). E’ un termine molto presente nel Vangelo di Giovanni ed oltre ad indicare l’uomo nella sua interezza e fragilità, sottintende, nell’intenzione dell’evangelista, la realtà che l’incarnazione del Verbo, della Parola di Dio, è avvenuta corporalmente. C’è, in fondo, in Giovanni, l’intenzione di allontanare i suoi ascoltatori da eventuali idee, presenti nell’eresia dei Doceti, secondo cui quella del Verbo non sarebbe stata una vera incarnazione, ma un’apparizione. Quindi il termine “carne”, utilizzato da Giovanni, non solo può indicare la totale e corporea incarnazione del Figlio di Dio, ma anche la condivisione delle debolezze e della fragilità dell’uomo.
Più che nei Vangeli Sinottici, qui Gesù si presenta come ”donatore di vita” a quelli che mangiano e bevono di lui. C’è, quindi, una profonda correlazione tra Gesù e coloro che si alimentano alla sua carne ed al suo sangue. Una vita che scorre tra lui ed i suoi discepoli e che è plasticamente raffigurata nell’immagine della vite e dei tralci, altra parabola, questa, che allude all’Eucaristia.
Il racconto della Lavanda dei piedi nell’ultima cena(Gv 13,1-20) sostituisce, come abbiamo detto in precedenza, la narrazione dell’istituzione dell’Eucaristia. Eppure anch’esso ha una forte impronta Eucaristica, rivelando un aspetto complementare di quanto Gesù ha detto e fatto nelle ore in cui ha pranzato, per l’ultima volta, con i suoi amici.
“Prima
della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da
questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino
alla fine. Mentre cenavano, quando gia il diavolo aveva messo in cuore a Giuda
Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva
dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da
tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e
ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. Venne dunque da Simon
Pietro e questi gli disse: «Signore,
tu lavi i piedi a me?». Rispose
Gesù: «Quello che io faccio, tu
ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». Gli
disse Simon Pietro: «Non mi
laverai mai i piedi!». Gli rispose
Gesù: «Se non ti laverò, non
avrai parte con me». Gli disse
Simon Pietro: «Signore, non solo i
piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù:
«Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è
tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva;
per questo disse: «Non tutti siete
mondi». Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di
nuovo e disse loro: «Sapete ciò
che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono.
Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi
dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché
come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo
non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha
mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica”(Gv
13,1-17).
“Gesù lascia ai suoi discepoli un testamento spirituale. Il comandamento dell’amore e la promessa dello spirito. Gesù continuerà ad essere presente nella comunione d’amore dei discepoli. Tale comunione è illustrata con la lavanda dei piedi e non comporta soltanto un impegno etico, ma garantisce la partecipazione alla salvezza(Gv 13,8).
Il primo atto che compie Gesù mentre sta cenando con i suoi amici(Gv 13,2), è quello di alzarsi da tavola, deporre le vesti, prendere un asciugatoio e cingersi attorno alla vita (Cfr.v.4). E’ il gesto che spetta a chi è schiavo. Quindi un gesto di grande umiltà, e non solo. Quando Pietro si ribella dicendo: «Non mi laverai mai i piedi!»(v.8). Gesù gli risponde con un’espressione semitica: «Se non ti laverò, non avrai parte con me»(v. 8). Questo semitismo potrebbe significare: “non avrai parte della mia vita”. Allude, forse, Gesù a quell’intimo rapporto che si stabilirà tra lui ed i suoi discepoli? A quel vincolo costruito sull’osservanza del nuovo comandamento dato da Gesù e presente spiccatamente nel quarto Vangelo? Quel comandamento che fa riferimento alla nuova alleanza, che completa quella antica? “E come Mosè, alle pendici del Sinai, diede al Popolo di Dio la Legge antica, così anche noi, accogliamo dal Maestro Divino la nuova Legge, scritta non sulla pietra dell’Oreb ma “nei cuori di carne”(2 Cor 3,3) ”(Donato Calabrese, il rosario delle beatitudini, Paoline editoriale libri, p. 5).
Quel
gesto di Gesù che Pietro accetta senza comprenderlo perfettamente, Gesù invita
a ripeterlo ad ognuno dei suoi discepoli guardando a lui come modello: “Sapete
ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo
sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi
dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché
come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo
non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha
mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica”(Gv
13,12-17).
Il
gesto di Gesù che lava i piedi ai suoi amici è un servizio che orienta,
tuttavia, verso una purificazione. Quando Gesù dice: «Chi ha fatto il bagno,
non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi,
ma non tutti» (v. 10), le sue parole contengono un riferimento al Battesimo.
Quindi gesto di umiltà e di servizio, ma anche di purificazione. Un gesto che,
nel pensiero di Giovanni, anticipa il vero autentico Battesimo che sarà quello
della croce, allorché la sua morte manifesterà l’esaltazione suprema del suo
amore. Frutto di questa
“esaltazione”, di questo “innalzamento” fisico e glorioso, sarà quella
fuoriuscita, dal cuore squarciato del Cristo, di acqua e sangue, immagini del
Battesimo e dell’Eucaristia, i frutti prodotti dalla sua immolazione, per la
nostra salvezza.
L’espressione
di Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me»(v. 8), indica appunto
questa comunione tra lui ed i suoi amici. Non si tratta solo di comunione
spirituale, ma di vita.
LA
VERSIONE DI LUCA
Dei quattro evangelisti, solo Luca e Giovanni, il secondo più del primo, presentano le conversazioni di Gesù con i discepoli durante l’ultima Cena.
Dopo che Giuda Iscariota ha lasciato la sala del Cenacolo, un clima di intima e profonda comunione si stabilisce tra i commensali della Cena d’addio. Il racconto di Luca trae spunto da una discussione tra gli apostoli su chi di loro sia il più grande.
Anche Marco e Matteo (Cfr. Mc 10,42-45; Mt 20,25-27) testimoniano questa disputa, sebbene la situano in un diverso contesto storico-geografico, e cioè non nella Cena d’addio, ma durante il cammino verso Gerusalemme, probabilmente dopo Gerico (Cfr. Mc 10,46; Mt 20,29). Ma noi seguiamo, per lo meno in quest’ambito, la tradizione di Luca:
“Sorse
anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande.
Secondo Marco, sono Giacomo e Giovanni di Zebedeo a formulare a Gesù la richiesta di essere alla sua destra ed alla sua sinistra, avanzando, così, la richiesta di essere considerati come suoi primi collaboratori. Secondo Matteo, invece, è la loro madre a formulare questa richiesta al Maestro.
Nel testo che vi abbiamo proposto, invece, la discussione avviene nel gruppo dei Dodici che sono riuniti a tavola, attorno Gesù. Non vi può essere dubbio sull’autenticità di questo episodio di vita comune, tra Gesù ed i suoi amici. Anche se cambia la cornice storico geografica, la vicenda riveste una sua considerevole autenticità, avvalorata, peraltro, dall'immagine non proprio edificante che offrono i Dodici di sé stessi, presi, come sono, da una contesa che punta su chi viene prima e chi dopo, nella scala ipotetica della distribuzione del potere. Si tratta, quindi, di tradizioni diverse ma che rivestono una loro validità storica.
Ponendo la nostra attenzione sul brano riportato dagli evangelisti Marco e Matteo, vediamo che con la salita di Gesù verso Gerusalemme, i suoi amici sono presi da forte eccitazione, perché pensano che con l’imminenza della Pasqua, la più solenne e la più importante delle Feste ebraiche, Gesù si manifesti finalmente come Messia di Israele. Ecco, allora, come i nodi giungono al pettine, nel senso che i “Dodici” comincerebbero a pensare più concretamente al ruolo di prestigio, di preminenza, che quasi rivendicano accanto a Gesù. Quindi è abbastanza credibile che la disputa su chi sia più importante, nella cerchia dei “Dodici”, avvenga sulla strada che da Gerico si inerpica per Gerusalemme.
D’altro lato, anche la Cena d’addio può aver fornito ai Dodici l’occasione per discutere su un eventuale scala di valori, visto che alcuni hanno il privilegio di sedere accanto al Maestro ed altri no. Quindi anche qui potrebbe essere avvenuto, come abbiamo ascoltato nella versione di Luca, il dialogo sulla preminenza di uno sull’altro.
Può anche darsi, però, che questi detti di Gesù, posti intenzionalmente da Luca nell’ambito della Cena d’addio, possano essere serviti a dirimere “questioni di precedenza e di servizio delle tavole che dovevano porsi nelle primitive assemblee liturgiche (cf. At 6,1; 1Cor 11,17-19; Gc 2,2-4)”(La Bibbia di Gerusalemme, nota 22, 24-27, Ed. Dehoniane, luglio 1985, pag. 2248).
Non si può mettere in dubbio, quindi, l’autenticità di questo episodio, anche perché, e lo ripetiamo, i discepoli di Gesù, quelli che saranno le colonne delle Comunità cristiane primitive, non ci fanno, qui, una bella figura, apparendo con tutti i loro limiti ed i loro difetti. C’è, allora, un nocciolo storico che evidenzia da una parte l’ambizione degli amici di Gesù o di alcuni di essi a chissà quale Regno Messianico, insieme con Gesù.
D’altra
parte proprio Lui, il Maestro messo temporaneamente da parte dei suoi “Amici” che
vogliono contendersi questo Potere, si
fa avanti con calma. E lo fa come un padre, un amico, un fratello maggiore, un
Maestro. “Chiamatili a sé, disse loro”. Li raccoglie intorno a sé, li
chiama e dà loro un insegnamento che, dopo duemila anni di storia cristiana,
resta ancora lì, nel vuoto, inascoltato da
molti: “Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non
è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che
serve.Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io
preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché
possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a
giudicare le dodici tribù di Israele”(vv.27-30).
Dopo aver formulato quest’insegnamento col quale invita i suoi amici a farsi, dietro suo esempio, “servi” per gli altri, Gesù promette loro l’accesso al regno che egli prepara. E lo fa usando un’espressione che appartiene al pensiero ebraico. Egli offrirà ai suoi amici un banchetto. Essi siederanno alla sua mensa nel suo regno e giudicheranno le dodici tribù di Israele. Immagini più belle Gesù non poteva, forse, utilizzare, per comunicare alle loro menti concrete e profondamente incarnate nel quotidiano, la sublime idea di essere abitanti privilegiati del futuro Regno di Dio.
Ed a questo proposito, riprendendo il testo che stiamo seguendo, sempre la scena raccontata dall’evangelista Luca, vediamo che improvvisamente Gesù si rivolge a Pietro, chiamandolo col suo nome originario di Simone Bar Jona:
“«Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli». E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi». Poi disse: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine». Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli rispose «Basta!». Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono”(Lc 22, 31-39).
Gesù
si rivolge direttamente a Pietro prospettandogli le ore cruciali della
tentazione. Proprio a lui che sarà la guida dei fratelli dopo la Pasqua, Gesù
preannuncia la grande prova cui sarà sottoposto, nelle ore della passione, da
parte del tentatore. Ma l’atteggiamento del Maestro è rassicurante: “io ho
pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto,
conferma i tuoi fratelli”(v. 32).
La
frase è una di quelle che dimostrano il conferimento a Pietro della funzione di
guida. Qui, più che in Matteo 16,17-19, è chiaramente affermato tale primato.
La
pericope evangelica si chiude, poi, con un brano molto discusso dagli studiosi.
E quello in cui Gesù, come abbiamo sentito, invita a procurarsi una spada.
In
realtà, noi stiamo con chi pensa che Gesù abbia voluto dare, a queste parole,
un senso profetico. Davanti ai suoi
occhi, sono presenti le morti violente di profeti giusti, così come,
certamente, il pensiero di un anonimo profeta che preannunciando la morte
redentiva del Servo di Jahvé scrive: “ha consegnato se stesso alla morte ed
è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e
intercedeva per i peccatori”(Is 53,12).
Manco
a farlo apposta, nel testo sopracitato di Luca, è presente la medesima espressione di Isaia: “E
fu annoverato tra i malfattori. “Infatti tutto quello che mi riguarda – dice
Gesù - volge al suo termine”(Lc 22,37).
Quindi
Gesù sembra voler dare, alla sua espressione che invita i suoi a munirsi di
spada, un’interpretazione ben diversa da quella letterale. Egli vuole
realizzare la profezia, attuare gli antichi oracoli che riguardano lui, e questo
lo farà perfino in punto di morte. Perciò, per essere annoverato tra i
malfattori, Gesù invita i suoi amici a procurarsi una spada. E’ questo il
paradosso della sua vita che sta per essere eliminata.
LA
VERSIONE DI GIOVANNI
I discorsi dell’Addio, così come sono formulati dall’evangelista Giovanni, diversamente dal Vangelo di Luca, dove hanno uno spazio abbastanza contenuto, nel quarto Vangelo, appunto quello di Giovanni, sono particolarmente sviluppati fino a mostrarsi in una lunga riflessione del Maestro in prossimità della sua morte.
In questi discorsi si ripetono alcuni temi presenti anche in altri Vangeli, anche se Giovanni ha avuto tutto il tempo di rielaborare e reinterpretare questi temi, considerato che il suo Vangelo è stato scritto per ultimo.
Il testo è pregno d’un pathos, di un sentimento struggente che risente proprio del clima che precede la passione di Gesù. Non a caso esso appartiene al genere letterario dei Discorsi d’Addio, tanto in voga nella Storia Biblica. Si tratta di discorsi pronunciati, prima di morire, dai grandi personaggi della Storia di Israele.
Le parole di Gesù saranno ricordate con grande devozione dai suoi amici, tanto più perché pronunciate nelle ore immediatamente precedenti il suo arresto e la conseguente condanna a morte.
Due sono i temi fondamentali presenti nei discorsi di Addio riportati nel quarto Vangelo: il tema della fede e quello dell’amore.
Nei discorsi dell’ultima Cena Gesù comunica ai suoi amici il mistero più profondo della sua persona:
“«Non
sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.
Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado
a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto,
ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del
luogo dove io vado, voi conoscete la via».
Gli
disse Tommaso: «Signore, non
sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?».
Gli disse Gesù: «Io sono
la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se
conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete
veduto».
Gli
disse Filippo: «Signore, mostraci
il Padre e ci basta». Gli rispose
Gesù: «Da tanto tempo sono con
voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come
puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in
me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me
compie le sue opere.
Dopo
che Gesù ha annunciato il tradimento di uno dei suoi amici, i discepoli
sembrano cadere in uno stato di disorientamento
e di amarezza. Comprendono che il loro amico, il loro Maestro, sta per andare
via, incontro alla morte. E
soprattutto si rendono conto, ora, che tutti i loro progetti di gloria stanno
per andare in fumo. Essi a tutto pensavano fuorché ad un epilogo drammatico
della loro vicenda con Cristo. E allora Gesù, con molta dolcezza, vuole
rassicurarli.
Nessun
altro ha osato dire quello che ha detto Gesù. Le sue parole solenni ed
inequivocabili lo testimoniano. Parole
di un’audacia inaudita che non sono presenti negli altri Vangeli, ormai già
completati e diffusi quando Giovanni, o chi per lui, mette per iscritto il
quarto Vangelo. L’autore ha, quindi, riflettuto a lungo su Gesù e sulla sua
Missione.
E’
chiaro che per riconoscere la Presenza stessa di Dio in quello che sembra un
semplice uomo, pur straordinario e dotato di grandi poteri,
non bastano gli occhi, occorre il cuore, la fede.
Quella fede che sarà messa a dura prova proprio nei giorni della
Passione. E’ la croce la gloria
del Padre. E per Cristo stesso è meglio entrare nella gloria del Padre
attraverso la croce, come vincitore glorioso. E l’ora della croce è quella in
cui il Figlio viene innalzato e trae tutto a sé.
La gloria della Chiesa è quella della sua umiliazione, la ricchezza a
cui siamo chiamati è quella della povertà di Cristo.
L’amore
di Cristo verso il Padre e con il Padre verso il mondo è la breccia attraverso
cui l’Amore fedele creativo del
Padre penetra nel mondo,
viene perfettamente accolto nel mondo e continua ad essere sorgente di
amore nel mondo”(Donato Calabrese, Commento
al Vangelo V^ Domenica di Pasqua, Anno A).
Il
secondo discorso d’Addio è racchiuso nel capitolo 15 del Vangelo secondo
Giovanni e tocca tre temi fondamentali: la vite e i tralci(Gv 15,1-8), il
comandamento dell’amore (Gv 15,9-17) e l’odio del mondo (Gv 15,18-27). Ma
andiamo per ordine, partendo proprio dalla parabola della Vite e dei tralci:
“Io
sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non
porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti
più frutto. Voi siete gia mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete
in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non
rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i
tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non
potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si
secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in
me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato.
In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate
miei discepoli”(Gv 15,1-8).
Gesù
si presenta come l’albero della vite, quello che dà l’uva e attraverso la
spremitura del frutto produce il vino. Il
Padre Celeste è Colui che ha piantato questa Vite nel terreno del mondo. Gesù
si manifesta, quindi, come l’inviato del Padre Celeste; anzi
come la “Vite” piantata dal Padre nel terreno della Storia umana. Poi
aggiunge che il tralcio, cioè il ramo che “in Lui” non porta frutto il
Padre lo recide, lo taglia, mentre il ramo che porta frutto viene potato, perché
porti più frutto.
Il
secondo brano riguarda il comandamento dell’amore:
“Come
il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se
osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i
comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché
la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha
un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei
amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il
servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché
tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete
scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate
frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre
nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri”(Gv
15,9-17).
“Questo
è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”.
Viene definito come il nuovo comandamento. Ad un occhio superfluo
sembra che non abbia niente di nuovo. Anche l’Antico popolo dell’Alleanza,
quello degli Ebrei, aveva questo dovere verso Dio: amare il prossimo. Ma qui
c’è qualcosa di nuovo: Gesù chiede di amare con lo stesso Amore con cui Egli
ha amato.
C’è
una continuità tra questo brano e quello precedente. Gesù chiede, ai suoi
amici, due cose che sono inscindibili tra di loro. La prima è quella di
rimanere in Lui e nel suo amore. La
seconda, che postula la prima è l’invito a portare frutto.
Ancora una volta l’esempio viene
dall’albero, dalla Vite. Gesù chiede di rimanere, come rami, come tralci,
innestati in Lui, ancorati a Lui, uniti a Lui perché la sua linfa vitale, la
sua stessa Vita, possa scorrere dentro i suoi discepoli. E cosa fa un ramo
quando è bene innestato nell’albero? Dona tanti frutti, buoni e saporiti.
E’ quello che Gesù invita a fare. Amarlo ed amare. Vivere con Lui questo
intimo rapporto di amicizia e di amore profondo.
Ed in tal caso è possibile rivolgersi al Padre Celeste
(Cfr. Donato Calabrese, Commento al
Vangelo VI^ Domenica di Pasqua, Anno
B).
Il terzo brano tocca un tema che è in antitesi con quello precedente e si riferisce all’odio del mondo:
“Se
il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il
mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho
scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi
ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me,
perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche
la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non
conoscono colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato
loro, non avrebbero alcun peccato; ma ora non hanno scusa per il loro peccato.
Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere
che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno
visto e hanno odiato me e il Padre mio. Questo perché si adempisse la parola
scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione. Quando verrà il
Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal
Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza,
perché siete stati con me fin dal principio”(Gv 15,18-27).
Qui
Gesù riprende un insegnamento più volte presente nella sua vita pubblica.
Riecheggiano le sue parole: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi”(Mt
10,6).
Il discorso dell’addio termina con una lunghissima preghiera nella quale Gesù offre sé stesso al Padre per la salvezza dei suoi discepoli, seduti con lui a mensa, e per i cristiani di tutti i tempi .
“La Cristologia elevata di Giovanni dipende dall’evento storico, letto in profondità con gli occhi della fede: il Verbo incarnato è la rivelazione e la visualizzazione del Padre invisibile e trascendente. E’ una rivelazione storica che, accolta nella fede, fa entrare l’uomo nella vita stessa di Dio”(Giuseppe Segalla, Giovanni (Vangelo), in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, 1988, 671).
Al
termine di questa lunga riflessione sulla Cena Pasquale e sui discorsi di Addio,
qualcuno potrebbe dire: “Tutti questi testi appartengono al Gesù storico?”
o sono rielaborazioni, pensieri dell’evangelista?
Certamente
nei lunghi Discorsi dell’addio, presenti in Luca e Giovanni, ci sono dei
temi, dei pensieri che risalgono direttamente a Gesù. Noi crediamo che tutto questo materiale originario di Gesù,
sia stato profondamente elaborato e meditato da Luca e, soprattutto, dal quarto
evangelista, colui che più degli altri tre ha avuto il tempo per approfondire
il mistero di Cristo e quindi elaborare il testo racchiuso nel Vangelo.
LA PREGHIERA DI GESU’ AL PADRE
La preghiera è racchiusa nel capitolo 17 del quarto Vangelo e si compone di vari parti: La preghiera per la glorificazione di Cristo (Gv 17,1-5); la preghiera per i discepoli (Gv 17,6-19) e la preghiera per la Chiesa (Gv 17,20-26).
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro»”(Gv 17,1-26).
E’ indubbio che questo lungo testo evangelico sia scaturito dal pensiero e dall’elaborazione teologica di Giovanni evangelista, per cui è ormai inammissibile che tutto il testo sia considerato appartenente all'ipsissima vox di Gesù, scaturito direttamente dalla sua “stessa voce”. Tuttavia, nel comporre questa pericope, Giovanni ha utilizzato una lunga tradizione riconducibile fino a Gesù.
Ma per risalire al Gesù storico e cercare, quindi, ciò che appartiene direttamente a lui, è importante confrontare questi testi con quelli degli altri vangeli canonici, e cioè: Marco, Matteo e Luca. Ecco, allora, emergere un primo dato confortante che è comune in tutti e tre i Vangeli Sinottici. Anche in quei testi, molto più arcaici, Gesù nel Getsemani prega a lungo rivolgendosi al Padre:
“Poi, andato un pò innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu»”(Mc 14,35-36; Mt 26,39 ss. Lc 22,42 ss.).
Il contesto è diverso anche se in realtà, in entrambe le tradizioni emerge in Gesù una stessa aspirazione: fare la volontà del Padre.
C’è un altro elemento che depone a favore di uno stadio Gesuano della preghiera al Padre, o di alcune parti di essa, che potrebbero essere state poi elaborate dall’evangelista, nel completo rispetto di quanto egli ricorda del Maestro. Stadio Gesuano, per intenderci, vuol dire quando un testo può risalire alle stesse labbra del Maestro. Quindi può provenire direttamente dal suo insegnamento.
Il testo importante che risale sicuramente a Gesù è quello racchiuso nella bellissima preghiera del Padre nostro, presente in Matteo (Mt 6,9-13) ed in Luca (Lc 11,2-4). La storicità e l’attribuzione al Gesù storico, di questa preghiera, non può essere messa in dubbio. Confrontando, allora, il testo del Padre nostro con la preghiera sacerdotale di Gesù presente nel Vangelo secondo Giovanni, emergono delle interessanti concordanze. Sia l’invocazione “Padre” che la locuzione “Sia santificato il tuo nome”, presenti nel “Padre nostro”, riecheggiano nella preghiera sacerdotale di Gesù, in Giovanni capitolo 17, versetto 11b. Inoltre, le prime tre domande del “Padre nostro” corrispondono alla glorificazione del Padre, che Gesù chiede in Giovanni Gv 17,1b-5. La richiesta “Liberaci dal male”, infine, è conforme alla domanda di Gesù che i suoi siano preservati dal Maligno (Gv 17-11b-16).
Il versetto 17,14: “Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,14) è sostanzialmente conforme a quello presente nei Vangeli Sinottici, quando Gesù dice: “Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome”(Mc 13,13; Mt 10,22)
Ma ci sarebbe veramente tanto da scoprire in questo testo sublime messo per iscritto dall’evangelista Giovanni ed inserito nel suo Vangelo. C’è quindi, nella preghiera sacerdotale di Gesù, una solida traccia che risalirebbe direttamente al Gesù storico, anche se si evince che tutto il testo risente della Cristologia elevata del quarto vangelo.
ALLA SCOPERTA DI GESU' DI NAZARETH