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7 al 27 luglio - mostra di pittura di Roberto Bianchini

Appuntamenti > Eventi 2012



(…)Exilé sur le sol au milieu des huées,
ses ailes de géant l'empêchent de marcher.
(…) Esiliato sulla terra, fra gli scherni,
non riesce a camminare per le sue ali di gigante.
L’albatross, Charles Baudelaire, da Les fleurs du mal.


A Roberto Bianchini (Napoli 1957-Viterbo 2012) viene dedicata una grande retrospettiva nella sala Sant’Angelo del comune di Barbarano Romano, a quasi due mesi dalla sua scomparsa.
Nei suoi quadri rimane intrappolata l’essenza di una personalità eclettica, piena e complessa: una personalità che si aggrappa agli intrecci della tela, si diffonde fino a coprire ogni spazio della superficie pittorica.
Questo horror vacui, questa paura del vuoto, Bianchini ha cercato di esorcizzarla vomitando tutto il suo malessere e, al tempo stesso, tutta la sua brillante poliedricità sulle opere che ci lascia.
In giovinezza frequenta, nella fervente Livorno degli anni ‘80, le lezioni del maestro Voltolino Fontani, il quale si rende conto ben presto delle innate qualità artistiche di Roberto e lo incoraggia a manifestarle. Trascorsi i quattro anni all’Accademia di Belle Arti di Livorno, Bianchini si sposta spesso e ha modo di essere esposto, in collettive e personali, anche a Bologna e a Roma, dove vince il primo premio Margherita d’oro per la pittura, e a Vienna, dove realizza alcune scenografie per la compagnia di ballo Tanz Company di Elio Gervasi.
A Barbarano Romano partecipa, vincendo diverse edizioni, alle sessioni di pittura estemporanea, dando dimostrazione di grande abilità pittorica anche nel riprodurre scorci e paesaggi.
Ma il paesaggio che meglio Bianchini riesce a riprodurre è, senz’altro, quello della sua complessità interiore: il groviglio di sentimenti e di inquietudini che rende il suo animo sensibile al male di vivere montaliano e che si riversa nella sua produzione artistica, assumendo di volta in volta forme diverse -figlie però della stessa ricerca meticolosa che è, se vogliamo, l’analisi costante che Roberto fa di se stesso, scandagliando le viscere della condizione umana e accozzandole sulla tela-. Una ricerca che dura una vita, che si mischia allo studio delle filosofie orientali e del Tai Chi, altra sua grandissima passione, e che non è mai quieta, mai sazia.
Spesso senza titolo (fatto che indica ulteriormente l’estrema spontaneità della genesi delle sue opere, quasi figlie che, una volta venute alla luce, si staccano da lui, irriconoscibili e irriconoscenti), le tele che ci lascia parlano di rotture, di mutamenti e mutazioni, di evoluzioni statiche. Ci corre alla memoria il silenzio delle piazze d’Italia di De Chirico, il soffocamento muto delle tele di Dalì: i suoi quadri stanno a metà strada tra il surreale e il surrealistico, col loro essere sovraccarichi e allo stesso tempo abbandonati, soli.
La solitudine, grande compagna di Roberto, percorre le sue opere in maniera invisibile: si nasconde tra gli oggetti, vuole essere cercata e capita.
Avvolge tutto, eppure non si lascia prendere; provoca smarrimento, eppure è un’ancora a cui aggrapparsi nel vorticoso tumulto dell’esistenza. Il suo caos interiore è un magma da ordinare, e, in pittura, questo si risolve con la grande cura con cui riempie tutto lo spazio della composizione: le sue opere, claustrofobiche, rispecchiano la sua grande anima complessa, che ha bisogno di essere sviscerata e, in qualche modo, ordinata per essere compresa.
I meccanismi, gli orologi e le linee di fuga della pavimentazione sono gli strumenti a cui aggrapparsi, le alternative all’aberrante possibilità di vivere in una società attanagliata dalla superficialità e dalla povertà spirituale.
Bianchini mette in circolo una linfa carica dei segreti di un’esistenza, la sua, vissuta nel rispetto del suo essere e del suo sentire. Le sue opere ci parlano di una ricerca infinita ma compiuta e ci fanno andare oltre la superficie, oltre il visibile.
Sono il punto d’accesso al suo mondo e, proprio per questo, un regalo prezioso.

Michela Alessandrini

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