Il grano e gli altri cereali
Parole chiave:
immagini, rural landscape history, storia
paesaggio agrario, Magna Grecia, Medioevo, Neolitico, Villa rustica,
feudalesimo, demani, Taranto, Puglia, Italia meridionale, masserie, ciclo
agrario, spigoleggio, edilizia rurale.
Grano e
ambiente: natura e cultura
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Il grano rientra nella
triade mediterranea, insieme all'olivo ed alla
vite.
L'importanza da esso rivestito nel destino della regione è stato
massimo,avendone a lungo condizionato pesantemente
non solo i destini ecologici, ma anche quelli antropologici.
Nel Tarantino come altrove il solco dell’aratro ha demarcato l'alterità dell’Uomo rispetto al suo
Ambiente, ha contraddistinto l’antinomia di
Natura e Cultura, alimentato l'inimicizia del contadino verso il pastore ed il
cacciatore.
Esso ha inoltre esercitato una profonda influenza sull'assetto sociale ed economico
di un ampio bacino territoriale gravitante intorno al porto di Taranto, inserendolo nel grande giro di affari che ruotava intorno
alla forniture alimentari ed in particolare, per l'Età
Moderna, all'approvvigionamento della capitale Napoli.
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Sommario:
Grano e ambiente:
natura e cultura
La storia:
La Preistoria
L'Età Classica
Il Medioevo
L'Età Moderna
Le tecniche
Il lavoro
Lo spigoleggio
Grano e carestie
Riferimenti
bibliografici
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La coltivazione
del grano segna l'avvento della Rivoluzione Neolitica, che nel Tarantino si colloca
all'incirca al VI-V millennio a.C.
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Il alto l'aia di Masseria
Accetta (Statte), ricavata regolarizzando la superficie del
bancone tufaceo affiorante. In basso l'aia di Masseria Monte
Sant'Elia (Massafra), ottenuta affiancando lastre di calcare. |
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Questo sviluppo si deve soprattutto al precoce
inserimento del suo litorale, il primo ad essere diffusamente interessato
dalla neoliticizzazione, in un sistema di stabili relazioni culturali con il Mediterraneo
Orientale, e tramite esso con la mezzaluna
fertile, ove furono sperimentate le prime forme di agricoltura.Anche i villaggi dell'Età del Bronzo dislocati
lungo la
costa, inizialmente caratterizzati da un'economia prevalentemente pastorale,
intrapresero con il tempo la cerealicoltura; proprio il grano era probabilmente
una delle merci più ricercate dai mercanti micenei che
iniziavano a frequentare in quell'epoca il litorale
tarantino. La transizione da una cultura economica prevalentemente pastorale
verso equilibri più armonici con l'agricoltura innescò un processo di
estrema importanza per la storia territoriale del Tarantino e
dell'Italia intera.
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Il grano rivestì durante l'età coloniale un'importanza secondaria
rispetto
agli altri settori della avanzata agronomia di tradizione ellenica, basata
prevalentemente sul settore ortofrutticolo e viti-oleicolo. Forse ciò è in
relazione con l'altrettanto grande peso rivestito dall'allevamento
ovino, tradizionale antagonista del grano.
Dal punto di vista alimentare comunque Taranto magnogreca era autosufficiente, tenendo conto che molto probabilmente
era l'orzo il cereale alimentare di riferimento.
Anche durante i primi secoli dell'età romana il grano rivestì un
ruolo
subalterno all'interno del programma produttivo delle villae
rustiche, ed
era destinato probabilmente alla commercializzazione locale.
La situazione mutò considerevolmente nel corso del Tardoantico, quando la
perdita delle tradizionali aree di rifornimento dell'annona romana (l'Africa del
Nord e l'Egitto) portò in auge la cerealicoltura nel Tarantino, per la prima
volta organicamente inserito nei programmi di approvvigionamento della capitale.
Le villae rustiche, tornate proprio in quest'epoca
ad una nuova
fioritura, mutarono indirizzi produttivi e tutto il territorio godette di una relativa prosperità, che tuttavia interessò solo alcune categorie sociali
particolarmente favorite, come i grandi proprietari, i conduttori di terre
demaniali ed i commercianti, ruoli spesso coincidenti.
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La contrazione demografica e la regressione dei sistemi colturali dei primi
secoli del Medioevo ridimensionarono l'importanza sia mercantile sia
alimentare del grano.
Nel corso della Rivoluzione Agricola medievale
esso tornò ad occupare un ruolo di rilievo, e la sua crescente domanda
alimentò l'attività di bonifica, raggiungendo aree da tempo rinaturalizzate.
Per molto tempo ancora il grano non assunse, tuttavia, nel Tarantino,
significativa importanza commerciale, per cui la principale destinazione della
produzione restava l'autoconsumo ed i mercati locali. Solo in età
sveva, con la
nascita delle masserie regie, attestate anche
nei prressi di Taranto,sorsero le prime
strutture specializzate nella produzione di grano destinata alla
commercializzazione.
Gli annosi
problemi dell'agricoltura meridionale
dipendevano in gran parte dalla incapacità di innovarsi, a
causa di condizionamenti culturali ed ecologici. La scarsa resa delle
terre dipendeva anche dai lunghi periodi di riposo, nel corso dei quali
l'unica rendita
derivava dal gramo pascolo ovino.
In alto un campo di grano nel territorio dell'antico casale di Capitignano
(oggi Masseria Scorcola-Crispiano); a destra una moderna
foraggiera nelle terre del feudo di Cigliano (Crispiano).
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La crisi tardomedievale, con
l'abbandono
della maggior parte dei casali dell'hinterland, favorì la
diffusione
del latifondo
cerealicolo-pastorale,per lo più a spese delle terre
demaniali; si crearono, quindi, i presupposti
per la nascita delle masserie.
L'Età Moderna
rappresenta il periodo di massimo sviluppo della cerealicoltura tarantina,
inserita come fu nei grandi circuiti mercantili destinati al
rifornimento dell'annona napoletana.
Fiorente fu il mercato del grano durante la
tumultuosa crescita demografica del '500, come anche nel corso del '700, anch'esso
caratterizzato da un trend demografico positivo.
Il periodo successivo alla grande crisi del 1764, l'ultima
carestia di proporzioni bibliche che afflisse il Mezzogiorno, fu
anche caratterizzato da diffusi fenomeni di dissodamento di aree già occupate dalla macchia
mediterranea, accrescendo i già marcati squilibri
idrogeologici della regione tarantina.
Nel corso dell'800, ed in particolare dopo l'Unità, con la caduta delle
barriere protezioniste vigenti nel Regno di Napoli, si assiste alla
progressiva immissione dei grani straneri (americani e
russi, molto meno cari)
nei circuiti commerciali nazionali. La possibilità di ampliare la superficie a grano
era tuttavia limitata (fino agli anni '70) dalle autorità forestali, per cui la
proprietà si interessò ad altre colture, come la vite e l'olivo, avviando
così il processo di ridimensionamento, sino all'annichilimento, della masseria
storica. Tale programma raggiunse livelli molto elevati a cavallo fra 800 e '900.
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Il grano è un autentico
divoratore di azoto e successivi ringrani conducono inesorabilmente al progressivo
calo dei
rendimenti.
Anche il contadino neolitico acquisì in breve questa nozione, per cui ricorreva
al sistema del debbio, che consisteva nel seminare su terreni appena conquistati
alla vegetazione spontanea mediante incendio: in questa maniera si sommava
l'effetto-terra vergine con la concimazione derivante dalla cenere. Tale abitudine si è conservata sino ad oggi nella
rituale combustione delle ristoppie, che tuttavia ha l'inconveniente di
impoverire il contenuto organico del terreno, oltre che di distruggere un
peculiare, ancorché temporaneo, ecosistema.
Il debbio mantiene la sua razionalità, naturalmente, quando ha a disposizione
ampie superfici sulle quali alternare le fasi di coltivazione e di riposo. In
ogni caso già nel Neolitico vennero messi a punto i primi sistemi di rotazione,
che, alternando al grano le leguminose (che al contrario accrescono il contenuto
di azoto del terreno) riuscivano a conservare la fertilità del suolo e la
costanza delle rese.
Sistemi di rotazione triennali (nei quali si succedevano al grano l'
orzo ed infine le leguminose o il riposo nudo lavorato, il
maggese)
furono in voga sino al Medioevo inoltrato, quando si diffuse il
ciclo quadriennale che prevedeva, con l'introduzione dell'avena, la successione
grano-avena (o orzo)-riposo-maggese-grano. Ad ognuna di queste era
quindi destinato un quarto della superficie totale
delle terre seminative presenti nella singola azienda.
Il grano era la merce-principe, tipicamente destinata al mercato; le
biade (avena e orzo) venivano utilizzate in genere per l'alimentazione
animale. Quelle porzioni di seminativi lasciate temporaneamente
incolte non giacevano
affatto inutilizzate, ché anzi fornivano l'erba estiva (la statotica)
per il bestiame.
Silos per lo stoccaggio
del grano, da Masseria Gravinola (Taranto)
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Le basse rese della
cerealicoltura storica è almeno in parte da addebitarsi all'arretrato
armamentario utilizzato. Nella immagine due esemplari di
storici aratri a chiodo (dal Museo Storico di Masseria Lupoli-Crispiano), largamente impiegati nei lavori di aratura sino a
quasi tutta l'Età Moderna.La loro scarsa capacità di penetrazione nel
terreno impediva il rinnovamento degli strati superficiali.
In basso le immagini
delle persistenza di
una cattiva abitudine:l'incendio delle ristoppie dopo la
mietitura. Radicata nella preistoria, non sono riusciti ad eradicarla neanche gli
ordini
emanati dai governi vicereali nel '500 e nel '600, che prevedevano anche la condanna a
morte per i responsabili. I cittadini di Taranto godevano, tuttavia,
di una sorta di immunità nei confronti di tali rigori.
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L'importanza del grano condizionava l'intera
annata agraria, che iniziava il
16 di agosto e terminava il 15 dello stesso mese dell'anno successivo.
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Le grandi pietre
con le quali, trascinate mediante pesanti catene da coppie di
buoi,si effettuava la trebbiatura (pisa) del grano sull'aia (dal
Museo Storico di Masseria
Lupoli-Crispiano) |
La semina avveniva (fra ottobre e dicembre) sui maggesi, cioè su
quelle terre che nel
corso dell'anno precedente erano state opportunamente concimate e sottoposte
a quattro arature. Nel corso dell'anno i seminati erano sottosti a lavorazioni di sarchiatura e
di pulitura dalle erbe infestanti. La mietitura (fra maggio e luglio) veniva
effettuata da squadre di operai molto ricercati, in genere reclutate (caparrati)
con un congruo anticipo mediante contratti (caparro).L'elevata richiesta di tale mano
d'opera, concentrata in breve tempo, rendeva necessario ricorrere a
personale forestiero, proveniente in genere dalla Murgia o, più spesso, dalla
regione del Capo di Lecce.
I covoni (mannucchi) venivano trasportati sull'aia (aere) e qui
sottoposti alla trebbiatura (pisa o scogna), mediante grandi pietre tirate da
coppie di buoi. Venivano così separate le cariossidi, destinate alla
commercializzazione, e i culmi (la paglia), destinata alla
alimentazione animale.
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Una consuetudine inveterata che
consentiva alla popolazione appartenente agli
strati più miseri di sbarcare il lunario prevedeva che le donne potessero
seguire i mietitori, mantenendosi lontano dai covoni, e raccogliere le spighe lasciate sul terreno. Tale
attività era disciplinata da norme informali, come quella che
prevedeva che dinnanzi alle donne dovessero spigolare le mogli dei massari e dei
coloni addetti alla conduzione della masseria, insieme ad un pari numero di
donne che agivano per conto del proprietario.
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Nei terreni
seminativi delle masserie di Putrano (nell'immagine il portale di
ingresso) e di Cesarano la popolazione di Faggiano esercitava la
plurisecolare consuetudine di spigolare nei seminati dopo la
raccolta delle messi. A seguito dell'abolizione della feudalità e
dopo un lungo processo il Comune ricevette in compenso di tale
diritto una parte dei terreni della masseria |
Considerato in genere come diritto consuetudinario, che non originava riserva di
dominio, talvolta, tuttavia, la popolazione riuscì ad ottenere il riconoscimento di servitù di uso
civico, che fu liquidata con il rilascio di una parte dei terreni delle
masserie interessate.
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Il fatto di
costituire una delle più importanti aree cerealicole del Regno di
Napoli, strategicamente legata al grande giro di affari
dell'Annona della capitale, rappresentava talvolta un problema per
l'approvvigionamento della città stessa.
Ricorrenti avversità, come le invasioni di cavallette ( bruchi) e di
arvicole (sorci) e le siccità prolungate erano in grado di distruggere
o quantomeno di rendere inconsistenti interi raccolti: così, mentre i grandi
mercanti napoletani facevano incetta del poco grano disponibile sul mercato, l'elevata domanda faceva
lievitare esageratamente i prezzi. A farne le spese erano naturalmente chi
dipendeva al mercato per sopravvivere, cioè i meno abbienti.
La storia di Taranto è stata quindi, paradossalmente, caratterizzata dal ciclico
presentarsi del fenomeno delle carestie, legate non solo a fattori
naturali, ma
anche, e soprattutto, a motivi politici.
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G. Fiorentino:
Caratteristiche della vegetazione e abitudini alimentari durante la preistoria,
in G. Mastronuzzi. – P. Marzo ( a cura di): Le isole Cheradi fra natura,
leggenda e storia, Taranto, 1999, pp. 69-86.
F. Ghinatti:
Economia agraria della chora di Taranto, in Quaderni di Storia I (1975), pp.
83-126.
Volpe G:
Contadini, pastori e mercanti nell’ Apulia tardoantica, Bari 1996.
M. Montanari: Cereali e legumi, in Atti delle ottave
giornate normanno-sveve: Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo, Bari
1989, pp. 89-110.
R. Licinio: Uomini e terre nella Puglia medievale,
Bari, 1983.
P. Bevilacqua:
Terre del grano. terre degli alberi, Rionero in Vulture, 1993.
M. Malowist: Capitalismo commerciale e agricoltura,
in Storia d'Italia, Annali I: Dal feudalesimo al capitalismo, Torino
1978, pp. 455-507.
17 dicembre 2001 00:07
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